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Autore: balakov    03/05/2009    11 recensioni
"L’ultima volta che la vidi mi consegnò un bacio per regalo. Un bacio distratto, da affidare al vento, alla memoria ed alle parole che non avrei mai detto. Ed io quel bacio lo conservo tuttora, eterno ed immutato come sempre, senza alcun bisogno di naftalina lo tengo riposto nella mente". Questa storia racconta di una terribile piaga sociale: lo stalking
Genere: Malinconico, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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L’ULTIMA VOLTA CHE LA VIDI



L’ultima volta che la vidi mi consegnò un bacio per regalo. Un bacio distratto, da affidare al vento, alla memoria ed alle parole che non avrei mai detto. Ed io quel bacio lo conservo tuttora, eterno ed immutato come sempre, senza alcun bisogno di naftalina lo tengo riposto nella mente. Certe parole non si scordano mai, e vagano eteree negli spazi aerei solcati da scie bianche. Altre parole, invece, inebetite dal disincagliarsi dei ricordi dal cuore, cedono sotto le fitte pugnalate inferte dal tempo e si dileguano come la brina al mattino quando sorge il sole. Infine ci sono i baci. I baci sono parole in tutto e per tutto uguali alle altre, solo che hanno il dono della concretezza, del contatto fisico. Anzi, a dire il vero sono parole ancora più dirette, meno accondiscendi ai verbi ed al linguaggio usato quotidianamente. I baci sono parole che non parlano, ma che rappresentano al contempo la via più breve per giungere al cuore. Ed io, quel bacio che ancora conservo, me lo sono legato al cuore, e da lì non lo toglierò mai più.
Il mio cuore a volte ne soffre, e si sente stritolato da quel ricordo trasmesso via labbra. Ma non posso farci nulla. È una maledizione che mi perseguiterà per sempre. Me lo sono cercato, ed alle condanne sfuggono solo i vigliacchi che hanno paura del boia.

Così, a distanza d’anni, ti ricordo ancora: un livido sapore di orgiastica catarsi mi pervade la bocca.
Eri la più bella di tutte: ogni volta che te lo dicevo tu sorridevi ad abbassavi gli occhi, facevi le spallucce e mi contraddicevi con estrema pudicizia. Eppure lo pensavo davvero, perché non è tanto l’estetica a contare nelle persone, quanto il loro animo. E la tua anima era trasparente, sagoma arcuata e tendente all’infinito; un asintoto che mi lambiva il cuore, già legato a te.
E mentre passavamo insieme i pomeriggi più belli di una vita, quelli che colorano i vent’anni, io – senza neppure accorgermene – ti stavo inglobando a me lentamente, facendoti diventare la mia seconda pelle. C’è gente che ha mille piste da seguire, invischiata negli assurdi giochi che riguardano l’amore: io invece avevo solo te, come un chiodo fisso a cui appendere inermi le pagine del calendario dei miei giorni che sarebbero venuti.
Lo so che dopo tutto questo tempo ripensare a te non può che farmi male. Lo so bene che i ricordi sono ospiti infedeli della memoria, pronti a colpirti alle palle appena paventi anche il più minimo cedimento. Però io non sono in grado di scordarti, legato come sono a te con questo doppio fil rouge che ogni giorno che passa sembra sempre di più essere un amo infilzato nel mio cuore malato.
Il tuo ricordo è la mia droga, e come i cocainomani inseguono convulsamente piste di polvere bianca, così la mia fantasia immancabilmente ritorna da te. Torna a te per chiederti scusa se in passato tra di noi ci fu qualche attrito, qualche lievissima incrinatura in un rapporto unico. Dopotutto, però, ne siamo sempre usciti più forti di prima, rinvigoriti dalle piccole incomprensioni quotidiane che spargono il sale sulla vita.
Ancora me la ricordo come fosse oggi quella volta in cui mi desti uno schiaffo, implorandomi di lasciarti in pace. Dicevi che avresti voluto solo dimenticarmi, non vedermi mai più. Più ci ripenso e più mi viene da sorridere: che ingenuità si leggeva nei tuoi occhi gonfi di lacrime. Tu per me eri un libro aperto, e non c’era dubbio alcuno sul fatto che tu mentissi. Mi amavi troppo per parlare sul serio. E infatti si trattò solo di un momento estemporaneo, un fugace passaggio di nuvole cariche di pioggia su noi due. Ma poi tutto tornò come prima.
Quante volte avremo litigato? Quante volte ci saremo lasciati per poi ritornare sempre assieme? Dieci? Venti? Cento volte? Non so dire con certezza. Sta di fatto che tu non mi avresti mai potuto abbandonare sul serio. E neanche io avrei potuto mai farlo. Questo perché ci siamo sempre amati davvero, autenticamente: indissolubilmente legati l’uno all’altro.
Poi arrivò quel giorno maledetto, in cui tu mi regalasti quel bacio. L’ultimo bacio.
Per l’ennesima volta avevi deciso di fare la bambina: volevi lasciarmi. Lo so per certo che sarebbe stata una delle solite scenate e che si sarebbe poi risolta come sempre in una riappacificazione. Ma io volli stare al gioco. E così quando tu, sotto la pioggia, mi gridavi che quelle che rigavano le tue gote non erano gocce d’acqua piovana ma lacrime, e mi maledicevi come causa di tutti i tuoi mali, io stetti al gioco e non ci misi molto a genuflettermi su una pozzanghera per chiederti scusa. Ma tu non volevi cedere. Dicevi che quella sarebbe stata davvero l’ultima volta che ci saremmo visti, giurando su tua madre che stavolta non saresti tornata sui tuoi passi. Mi urlavi che eri stanca di me, della mia ossessione per te. Insinuavi che ti perseguitavo.
Beh, se amare una persona più di se stessi vuol dire perseguitare, allora sì, mi dichiaro colpevole. Ma sapevi benissimo anche te che io non ti perseguitavo. Io volevo soltanto assecondare la nostra natura androgina, che ci voleva – e ci vuole tuttora – legati l’uno all’altro.
Le tue parole di allora oggi sono solo piste audio occultate dal tempo e dalle nuove parole d’amore che io vi ho registrato sopra. Ti perdono per quelle frasi che so che hai pronunciato senza prima sentirtele vive dentro.
E mentre io, in ginocchio e fradicio dalla testa ai piedi, ti imploravo di perdonarmi, tu ti voltasti portando la mano sinistra sulla fronte per poi scoppiare in un feroce pianto.
Non ti avevo mai vista in quello stato: distrutta da non so che cosa, lacerata nel profondo dell’animo. Poi ti girasti di scatto fissandomi con occhi ricolmi di odio. Mentre a passo lento ma deciso ti stavi avvicinando a me, io cercavo di interpretare inutilmente quel tuo sguardo: c’era in te qualcosa di strano, di insondabile. Infine mi giungesti addosso, ti inchinasti anche tu in quella pozzanghera, e mi desti quel bacio che ancor oggi conservo.
“Questo è perché forse anch’io ti ho amato all’inizio. Questo è perché tu non possa dimenticarmi mai. Questo è perché il mio ricordo ti possa perseguitare quando non ci sarò più”: questo dicesti. E non l’ho mai capito cosa voleva dire. So solo che subito dopo aver pronunciato quelle sibilline frasi te ne andasti, ed io non ti avrei rivista mai più.
Oggi passo i miei giorni in casa. Da solo. La domenica, per televisione, mi fanno compagnia i rombanti motori delle motociclette che gareggiano su piste assolate. Mi piace sentire quei rumori così violenti, potenti ed incontrollabili: mi ricordano te, il tuo spirito indomabile.
Ho rivisto tua madre, sai? Non si è ancora ripresa. Basta guardarle gli occhi per capire che lo spettro della tragedia ancora abita il suo animo: un inquilino dispettoso, prigioniero della memoria.
L’ho incontrata al mercato, in uno di quei rarissimi giorni in cui la voglia di uscire per me è più forte della necessità di restare immobile a pensarti. Mi è venuta contro quasi con la bava alla bocca: sembrava posseduta. Puntandomi contro l’indice, mi apostrofò con parole cariche d’odio e di condanna.
Ma che ho fatto di male io se tu ti sei voluta togliere la vita gettandoti dal settimo piano di casa?
Io cosa c’entro in tutto questo?
Tua madre è convinta che sia tutta colpa mia. Dice che ti sentivi perseguitata, oppressa dalla mia presenza. Dice che eri stanca di vedermi comparire sempre dovunque, come un’ombra che ti perseguitava privandoti dell’ossigeno. Ma tu sapevi che era amore… come lo dovrei chiamare? Lo sai che io non ti perseguitavo. Lo sai che non è vero che tu ritornavi ogni volta a stare con me solo perché sfinita dalle mie persecuzioni: io e te ritornavamo assieme perché ci amavamo. Ed era un amore autentico che ci legava. Non è vero?
Tua madre dice che sono un pazzo pericoloso: sarei io l’assassino di sua figlia. È terribile, e mi fa male. Male da morire. Ma mi fa più male la tua assenza, il tuo silenzio di fronte a queste accuse e a questo fango che mi getta in faccia tua madre.
Dice che se solo tu fossi stata in grado di resistere un po’ di più… appena un anno… giusto il tempo necessario perché fosse approvata questa nuova legge sullo stalking…

Ed io sarei uno stalker? Ma fatemi il piacere! Io sono solo un disgraziato che ha perso metà del proprio cuore, e senza neppure avere nulla in cambio se non offese ed infamia sul mio nome.
Io sono bravo con le parole: è grazie a quelle che riuscii a conquistarla e a farla mia. Ma ora le parole a cosa servono? E poi io non conosco neppure l’inglese. Stalking… cosa significa?






NOTA DELL’AUTORE:
Come avrete capito tratta di un tema molto attuale: lo stalking.
“Il termine stalking deriva dall’inglese to stalk, termine tecnico utilizzato nella caccia, traducibile nell’italiano “fare la posta” e riconducibile a un insieme di comportamenti ripetuti e intrusivi di sorveglianza, controllo, ricerca di contatto e comunicazione nei confronti di una vittima, infastidita e/o preoccupata” (Dott.ssa V. Ribbeni, http://www.overlex.com/leggiarticolo.asp?id=1511)
Lo stalking è, in pratica, la frequentissima e – fino a poco tempo fa – inspiegabilmente sottovalutata ipotesi di persecuzione attuata di solito da un maschio nei confronti di una femmina. Molto spesso si verifica fra ex: lui (parlo al maschile perché la casistica insegna che i persecutori sono nella stramaggioranza dei casi dei maschi) non accetta che la storia con lei si sia interrotta, e ostinatamente (ed in maniera ossessiva e maniacale) la perseguita, spiandola e presentandosi innanzi a lei dappertutto.
Da pochissimi mesi abbiamo finalmente una legge che sanziona questo orribile reato per quel che effettivamente è: questa, a mio avviso, è una grande conquista civile.
Nella mia storia ho voluto assumere il punto di vista del persecutore perché mi pare una scelta abbastanza originale: sarebbe stato banale ricorrere al punto di vista di lei (la perseguitata). Invece, con questo espediente, ho voluto fare in modo che emergesse tutta la “non accettazione” del persecutore, il quale, come quando ancora lei era in vita non capiva che avrebbe dovuto lasciarla stare, così anche dopo che è morta continua a non comprendere tutto il male che le ha fatto spingendola fino al gesto estremo dal quale non c’è ritorno. L’ossessività e la follia del narratore-protagonista vuole mostrare l’incapacità di questi stalkers di concepire la vita della propria vittima scissa dalla propria. E tutto ciò – permettetemi di dirlo – fa paura. Sembra quasi che sia lui il disgraziato da dover biasimare, ed invece…
La narrazione si apre e si chiude in maniera “imparziale” (se così si può dire…): cioè lo stalker-narratore parla della sua vittima in terza persona, mentre, per tutto il resto centrale del racconto, la narrazione è una specie di “dialogo senza risposta” con la propria “amata”-vittima. Questa scelta è voluta affinché si potesse rendere evidente al lettore la malattia che assedia la mente del protagonista, che non riesce a capire tutto il male di cui si è fatto portatore né quando emotivamente si rivolge direttamente alla sua “amata”, né quando cerca in maniera oggettiva di analizzare le cose.



  
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