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Autore: nettie    13/09/2016    2 recensioni
Alzò il capo e mi guardò con quei due grandi occhioni vispi che raccontavano la Primavera.
《 Li vedi questi libri? Saranno i nostri fiori quando fuori è Inverno. 》
Genere: Drammatico, Sentimentale, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago
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SEHNSUCHT.

 

Sehnsucht è una parola tedesca, e in italiano corrisponde a “struggimento”. In realtà, il significato di questa parola è molto più profondo, in quanto sta ad indicare una sensazione particolare. Provi “Sehnsucht” quando desideri ed ami una persona che non puoi avere tua. Deriva dall'antico alto tedesco „Sensuht“, nel senso di "malattia del doloroso bramare".

 

Questa storia, invece, è stata fortemente ispirata da “Ti regalerò una Rosa”, canzone dell’artista italiano Simone Cristicchi che consiglio a tutti di ascoltare prima di iniziare la lettura.

nota: questa storia verrà aggiornata di settimana in settimana, ogni sera, puntualmente. 

 


 

 

Camminavo fra quei lunghi corridoi così candidi, dalle pareti bianche come il latte. Indossavo solo un camice bianco un po’ sgualcito, e i piedi nudi erano a contatto col pavimento freddo: quella sensazione mi faceva rabbrividire.

Quei corridoi troppo lunghi e troppo candidi, che erano sinonimo di casa più o meno da sempre e da quando ne ho memoria, mi stringevano fra le pareti alte e fredde.  

Settimane fa avevo visto la neve sciogliersi e lasciar spazio ad un soffice velo di verde erba, ed avevo osservato il sole brillare su quel manto verde che tanto mi sembrava immenso. Non staccai neanche un attimo gli occhi da quel paesaggio che mi sembrava meraviglioso, ero capace di stare anche ore intere lì, in quella stanza, a guardare fuori da quella piccola finestra.

Quella, era il mio unico contatto col mondo. La natura, così bella, mi ricordava spesso Margherita.

Margherita era la ragazza della camera affianco la mia, aveva gli occhi azzurri come il cielo estivo e le mani affusolate; le dita lunghe e pallide. Una folta chioma di ricci rossi le incorniciava il viso piccolo e dalle forme arrotondate, quel visino pallido dalle guance sempre rosee e dalle labbra fini. Quando la vidi per la prima volta stava entrando timida nella sua stanza, ed una donna dietro di lei reggeva un grande borsone rosa in mano. Sparirono poi entrambe dietro la porta, e non la pensai per tanto tempo dopo.

La mia vita, lì, scorreva monotona come sempre. Mi svegliavo verso le sei del mattino con gli occhi lucidi, e rimanevo sdraiato sul letto a fissare il soffitto, rinchiuso nel mio stesso silenzio. Qualche ora dopo, una donna con un simpatico berretto e con un camice bianco veniva sempre a farmi visita. Diceva di chiamarsi Sandra, e mi sembrava buona. Portava un carrello con sopra una tazza fumante, e un pezzo di pane affianco, su un piatto. Li poggiava sul piccolo tavolo davanti il mio letto, e mi invitava a sedermi per mangiare. La guardavo con gli occhi di un bambino spaurito, ma non le ho mai disubbidito. Così, ogni mattina mi alzavo, e mi andavo a sedere qualche metro più in là. Lei, invece, si accingeva a cambiarmi le lenzuola del letto e a riordinare un po’ ovunque. Io prendevo la tazza fumante fra le mani, e la portavo alle labbra. Latte dal sapore un po’ amaro scivolava giù per la mia gola, e non lasciai mai la tazza vuota. Il pane, come da routine, non veniva neanche toccato. Sandra mi incitava a mangiarlo, con quella voce così melodiosa e i modi di fare assai materni, ma io ero di coccio.

Mi salutava, e come sempre se ne andava dalla stanza, trascinandosi dietro quel carrellino tanto curioso. I suoi modi di fare erano gentili, educati, e aveva le mani morbide dal tocco velato. Quando ero irrequieto era lei a carezzarmi piano il capo, fino a quando non mi sentivo meglio. Ogni giorno sapevo che l’avrei rivista agli orari dei pasti, e non mi dispiaceva. Lei era diversa da tutte le altre donne in camice: lei era buona, lo leggevo negli occhi scuri e nel sorriso sempre presente sulle sue labbra, anche nelle giornate più nere. Fino ad allora, Sandra era stata l’unica persona alla quale avevo mostrato confidenza.

Una volta a settimana, lei stessa mi accompagnava nella stanza del Dottore. Il Dottore per me non aveva nome; me lo disse la prima volta che lo incontrai, ma non lo fissai mai nella mente perché non m’importava minimamente. Era un uomo di mezz’età con una stempiatura grigiastra, triste ed evidente. La cintura a stento conteneva la pancia arrogante, e io ogni volta lo guardavo tutto incuriosito. Il camice era sempre sbottonato, e sfoggiava ogni settimana una camicia di diversi colori - tutto molto sgargiante, e forse non adatto ad un uomo della sua età. Dietro gli occhiali quasi sempre grassi e appannati si nascondevano due occhi piccoli e neri, un naso aquilino vedeva subito sotto di sé un paio di baffi folti e grigi, che coprivano le labbra. Mi salutava con una pacca sulle spalle, e mi faceva accomodare. Quando Sandra abbandonava la stanza, lui iniziava a parlarmi.

Non mi piaceva per niente quell’uomo, per quanto potesse avere una saccente aria benevola … non mi era mai andato giù. Davanti a me, ad ogni incontro con lui, c’era un foglio bianco e una matita mai troppo appuntita. Mi chiedeva di disegnare, mi faceva domande, cercava di tirarmi fuori le parole dalla bocca … ma le parole, io, non le avevo. Certe volte, non disegnavo né scrivevo nulla per fargli un dispetto, e lui s’arrabbiava tanto da alzare la voce. Non capiva; non aveva mai capito. Mi dava fastidio quel suo modo così fintamente pacato di rivolgersi a me - mi dava fastidio la sua presenza in generale. Mi sentivo a disagio: quell’uomo non aveva mai capito fino in fondo ciò che a me serviva. Imprimevo le mie idee ogni settimana su un foglio diverso, tentavo di mettere insieme qualche parola con la mia calligrafia traballante, e lui mi incitava fino a farmi sentire un fenomeno da baraccone: a cosa diavolo gli servivano i miei disegni, le mie righe? E perché aveva tutta questa smania di udire quella voce che non avevo mai udito neanche io? Mi metteva a disagio, e odiavo quella sensazione di viscido che lui mi metteva addosso. Dopo tre quarti d’ora o poco più, riuscivo ogni volta a sgattaiolare via da quella sudicia stanzetta: lui scuoteva la testa e mi lasciava andare, con quel finto sorriso nascosto dai baffi folti e quell’odiosa aria da chi vuol essere simpatico ma non riesce.

 

《Ci vediamo Venerdì prossimo, giovanotto!》

 

Non gli rispondevo mai, neanche un cenno della mano. Mi chiudevo la porta alle spalle senza voltarmi, assumendo l’atteggiamento più diffidente che potessi. Non riuscivo a comunicare con lui. Non riuscivo a comunicare. Una volta fuori, venivo riaccompagnato in stanza da un uomo o una donna in camice, sempre persone diverse. Questo, avveniva ogni venerdì della settimana, dopo pranzo, fra le due e le quattro. Mai provai sensazioni più odiose di quelle, fra quelle quattro pareti dove mi sentivo studiato come un animale.

Una volta arrivato il pomeriggio, avevo tempo per me. Mi facevano scendere in giardino solo durante la bella stagione. Così, io, vestito solo di uno dei tanti camici bianchi che avevo, calzavo un paio di scarpe un po’ usurate e scendevo a fare una passeggiata. Nonostante mi trovassi lì da molto tempo, non avevo mai stretto amicizia con nessuno. Era un posto curioso, quello. C’era tanta gente, ma non tutti erano socievoli - anzi, quasi nessuno. Così, ho passato per tanto tempo una vita amara e solitaria, prigioniero del mio stesso mutismo.

In quei giardini così immensi, mi piaceva sedermi sull’erba ed osservare il mondo circostante. Ero a stretto contatto con la natura, ed era l’unico modo con il quale riuscivo a sentirmi parte del mondo … distaccandomi da esso, che tanto odiavo.Lungo tutto il perimetro dell’edificio e di tutto il giardino si issavano alte mura color grigio, che mi mettevano un’infinita tristezza. Passavo le giornate a chiedermi cosa mai nascondessero quelle mura tanto alte, ma non riuscii mai a darmi una risposta concreta. Ero solito rimanere a passeggiare in quei grandi giardini fino al calar del sole, e se tutto andava bene, anche dopo. Quando il cielo iniziava a scurirsi e le prime stelle ad apparire sulla volta celeste, sentivo una voce - sempre diversa di volta in volta - chiamare forte il mio nome. Poi, una persona mi veniva incontro con passo svelto, mi prendeva per un braccio e mi trascinava dentro l’edificio riaccompagnandomi in camera, senza darmi possibilità di ribellione.

Loro dicevano che non potevo stare fuori dopo il calar del sole, e artigliavano le loro unghie alla mia carne per portarmi dentro, dove loro mi consideravano “al sicuro”. Ma non capivano; non potevano capire.

 
   
 
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