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Autore: LeAmantiDiBillKaulitz    14/09/2016    1 recensioni
Prendete Chelsea e Alexandria, due migliori amiche particolarmente male assortite: una, rumorosa, casinista, molto oca e morbosamente ossessionata dal cinema, l'altra acida, nervosa, arrabbiata e decisamente pronta a picchiare tutti. Poi aggiungete Bill, antipatico, isterico, viziato ma terribilmente sexy. Mescolate con un'intervista ai Tokio Hotel per il giornalino universitario, con un Tom molto scemo, un Georg molto martire e un Gustav molto affamato. Il piatto è pronto: tra gaffes, incomprensioni, tacchi alti, litigi e romanticismo-fai-da-te, riusciranno le due ragazze a conquistare l'algido cuore del cantante?
Genere: Comico, Commedia, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, FemSlash | Personaggi: Bill Kaulitz, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: Threesome, Triangolo
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YOU KEEP GIVING ME A TASTE OF YOUR VENOM

CAPITOLO PRIMO: INTERVISTA AI CRETINETTI
P.O.V. Chelsea.
 
Per quel che ne so io, avere una coinquilina quando si ha vent’anni e si è incapaci persino a farsi una tazza di the, è davvero una benedizione divina. Soprattutto se suddetta coinquilina sa cucinare, sa fare un ottimo caffè, sa fare il letto e sa cacciare quelli del Folletto ogni volta che si presentano alla porta con la loro aspirapolvere che presentavano pure ai tempi dei nostri bisnonni. Beh, si da il caso che io abbia una coinquilina del genere: sa cucinare discretamente bene, sa fare un caffè delizioso, sa fare i letti senza lasciare quelle antipatiche stropicciature in fondo al lenzuolo e sa pure cacciare il Folletto con un’occhiataccia che avrebbe fatto filare Stalin. Peccato che l’amata coinquilina sia un pelino irritabile, soprattutto se la si sveglia alle sette del mattino del giorno in cui ha i corsi universitari che iniziano alle dieci per farsi fare una tazza di latte caldo. E forse è proprio a causa di questo piccolo quando fastidioso inconveniente che la sottoscritta è arrampicata in cima al tavolo della cucina con un mattarello in mano e tutta la sua carica di mellifluo selfcontrol per ammansire la belva che le lancia oscuri anatemi in un tedesco da dottor Faust e Mefistofele.
-Ok, ok Alex, non ti arrabbiare così tanto! Ti ho solo chiesto …
-Porca puttana, razza di oca! Sono le sette del mattino, cazzo, e lo sai benissimo che io devo dormire!- brandisce un forchettone da cucina dall’aria poco rassicurante, mentre mi ruggisce contro – Almeno oggi che ho i corsi alle dieci, te mi vieni a tirare giù dal letto alle sette?! E per cosa? Per una fottuta tazza di latte!
-Ehi, ehi, bambola, guarda che il latte alla mattina è importante per crescere, lo dicono tutti i pediatri.
-Hai vent’anni, non due. Possibile che, se proprio vuoi del latte, non te lo sappia scaldare senza svegliare mezza Magdeburgo?
Alexandria mi guarda malissimo, i capelli tutti arruffati, i grandi occhi marroni che mi fulminano con tutta la cattiveria di cui sono capaci. Stavolta devo averla fatta grossa sul serio, dannazione a me.
-Su, ora puoi tornare a dormire … non è una cosa così tragica.- cerco di addolcirla, scendendo dal tavolo con circospezione, tenendo il mattarello in posizione difensiva – Non ti scasso più per tutto il giorno, promesso.
Sospira, sedendosi al tavolo con aria palesemente scazzata, i lunghi capelli biondastri che le coprono metà del viso, mentre l’altra metà testa rasata ciondola mollemente sulla tovaglia a fiorellini blu della nonna.
-Dammi del pane e della marmellata, và. Ho fame- brontola, mentre le allungo titubante il cibo richiesto, pronta a scappare via se provasse a inseguirmi col forchettone, cosa che oltretutto è già successa molte, troppe volte. Che poi, fa queste scenate da Aida solo perché è una pigra svogliata che non ha voglia di alzarsi da letto e poi, detto sinceramente, chi cazzo si ricorda quando i suoi corsi iniziano prima o dopo? Quei fottuti corsi di filosofia continuano a cambiare orario, ed è già tanto che mi ricordo i miei, figurarsi i suoi.
Mi siedo con circospezione di fronte a lei, a cavalcioni della sedia, concentrandomi a seguire con lo sguardo le ellissi del latte che vorticano sotto al mio naso, concentriche e delicate, incredibilmente artistiche nella loro sconvolgente banalità. Sono come le onde di un lago scombinato dal vento, ugualmente difficili da seguire con lo sguardo, però contenute dentro a una tazza, bianche con alcune chiazze di caffè piuttosto stantio, turbinose e metafisiche nella tranquilla mondanità di una semplice tazza di latte la mattina. Potrei leggervi ciò che volete, in questa tazza. Posso vederci milioni di microcosmi che si creano e si distruggono con la velocità di un istante creati da uno scienziato folle ed egocentrico, posso leggerci le parole di un romanzo che è rimasto nascosto nel cassetto di qualche giovane innamorato dell’800, posso ascoltarvi le note di un requiem talmente antico da non poter più essere suonato, posso scoprirvi un’arte mai rivelata prima per la sua portentosa bellezza, posso trovarvi perle giapponesi talmente nascoste da perdersi negli oceani, posso fotografarvi dentro tutte le stelle di questa galassia. È una tazza di latte, ma è anche un mondo a sé stante, come diceva il vecchio Leopardi della luna, no? Io sono il pastore errante dell’Asia, e il latte è la luna, “gigantesco occhio ciclopico”, in fondo è tutto lo stesso sistema. Un poeta dell’Ottocento rinchiuso in una casa padronale di Recanati, e una ragazza del nuovo millennio rinchiusa in un appartamento della periferia di Magdeburgo. La luna che non cambia e cambia sempre, e una tazza di latte caldo con qualche chiazza di caffè. Insomma, in fondo non ci vedo questa differenza abissale: gli esseri umani non sono cambiati granché nel corso dei secoli, se non forse che si sono rimbecilliti, e che siano in Germania o in Italia poi cambia veramente poco, sono comunque rinchiusi in posti dove non avrebbero mai voluto stare davvero. Lui era un poeta, lei studia per diventare cineasta, con i sogni ci lavorano entrambi ed entrambi li lavorano e li smaterializzano a loro piacimento, covando l’arte del rimodellare la magia. Lui era innegabilmente depresso, lei irrimediabilmente ride, ma il motivo è lo stesso: odiano il sistema, e fuggono come possono. La luna e il latte sono entrambi bianchi, sono entrambi sogni dei bambini e ci puoi leggere dentro quello che diavolo ti pare, risucchiano i colori allo stesso modo, che siano dentro a una tazza o spersi nell’Universo. Io e Leopardi, vista da un certo punto, siamo esattamente, dannatamente, identici. Se la leggiamo per quello che è, posso benissimo paragonarmi a uno dei più grandi poeti di tutti i tempi, e non è egocentrismo questo, è semplice lettura di quello che siamo davvero. Tra me e lui non c’è differenza, siamo due poveri sfigati che le tentano tutte per levarsi dalle palle questo mondo di merda: ma, come due veri sfigati che si rispettano, le prendono di santa ragione e sono costretti a sottostare alla legge del più forte. Il mondo gira attorno a questo, gente. Chi ha abbastanza palle per imporsi e chi è un palle mosce come me e Leo che ce le cucchiamo.
Immergo un dito nel latte e lo mescolo, guardando di sottecchi Alexandria che mordicchia svogliatamente il suo pane e marmellata. Non saprei bene spiegare cosa leghi me e lei, perlomeno non con parole decenti e soprattutto esaurienti, però potrei dire che se io mi sento una scanzonata Petrarca, lei è la mia Laura. Se mi sento un’assurda Boccaccio, lei è la mia Fiammetta. Se mi sento una scapestrata Dante, lei è la mia Beatrice. Se mi sento una grottesca Leopardi, lei è la mia Silvia. Credo di aver reso l’idea, insomma: io in veste di poeta che finge abilmente di essere lo sfigato di turno e lei in veste di meravigliosa fanciulla divina, anche se di divino non ha manco un dito. Per me Alexandria è come una sorella gemella con cui mi capisco al volo senza bisogno di parlare, come una migliore amica sempre pronta ad aiutare. Insomma, è la mia seconda faccia, è appunto la parte epica e aulica del povero poeta straziato; non so nemmeno quando è che ci siamo conosciute, mi sembra di stare con lei da tutta una vita. Tutte le cazzate le ho fatte insieme a lei, tutti i brutti voti li ho presi quando stavo con lei in banco (chiamasi sempre. E se sorvolassimo sulla mia carriera scolastica?), tutte le vacanze le ho passate a casa sua, tutti i film li ho visti con le sue lamentele nelle orecchie, tutte le canzoni che suoniamo le ho scritte con lei in camera mia. Siamo insieme da un secolo, parti combacianti di una stessa medaglia: la parte cinica, acida, incazzata lei, quella stupida, casinista, rumorosa io. Credo che ora come ora non potrei nemmeno immaginare la mia vita senza la presenza angosciante di Alexandria: anche perché, chi sarebbe disposto ad alzarsi alle sette di mattina per fare il latte a una ventenne incapace senza buttarla giù dalla finestra? Solo un animo pio e giusto come lei, appunto. “Tanto gentile e tanto onesta pare, la donna mia, quand’ella altrui saluta”, sì, io e Dante abbiamo un feeling mica da ridere. Anche se non credo che Beatrice girasse per Firenze facendo allegramente il medio a tutta la gente che incontra come fa Alexandria.
-Senti, Chelsea, ma si può sapere cos’era la stronzata che hai visto ieri fino alle due di notte?- la mia amica alza la testa, pulendosi il labbro dalla marmellata.
-Come ti permetti, villana! Non puoi dirmi che era una stronzata, è un caposaldo del cinema!- le abbaio, conscia di star toccando un tasto dolente. Lei odia che io veda la tv a tutto volume la notte, cosa che io faccio sempre. C’è più gusto a vedere i film di notte fonda, ci capisci di più.
-Parlavano in russo, e te non capisci un’acca di inglese, figurarsi di russo.- alza un sopracciglio, i piercing che le ricoprono l’orecchio che brillano sinistramente alla luce della lampada – Cosa diavolo era?
-“Zerkalo”, di Andrej Tarkovskij, anno 1975. Un pezzo grosso del cinema moderno, una discesa nell’inferno onirico della Russia degli anni 70, simbolista quanto basta per discernerne per una settimana intera e oltre, con ottimi riferimenti all’“Andrej Rublev” del medesimo regista datato 1966, non è mai stato tradotto, perciò lo si vede con i sottotitoli. Una Margarita Terechova assurdamente bellissima e terribilmente identica alla “Ginevra de’Benci” di Leonardo Da Vinci.- snocciolo io, bevendo finalmente il mio latte lunare. Sarò stata una scarpa a scuola e non lo nego, ma in materia di cinema non mi batte nessuno.
-Ti droghi di cinema, Chess.- Alex ride, sbadigliando rumorosamente.
-E te di acidità.- ribatto, conscia di tutte le volte che l’ho costretta a imbucarsi in qualche cinema a vedere qualcosa di cui a lei non poteva fregargliene meno. Ma lei mi scassa le palle con quei benedetti manga giapponesi, quindi siamo pari.
Si alza, il corpo snello e flessuoso che ondeggia fino al lavello, dove butta le tazze e i piattini da lavare, avvolta nell’enorme maglietta dei Linkin Park.
-A proposito, lo sai che oggi è il grande giorno dove non saremmo più chiamate “Spiegelmann e Herder le darkettone nerd”?
Mi alzo anche io, raccogliendomi i dread bianchi in una coda di cavallo
-E perché? E poi a me chiamano “Full Metal Cinema”, mica darkettona nerd.
-E’ uguale, Chelsea, non sottilizzare.- Alexandria si gira e mi fissa con i suoi grandi occhi ancora sbavati dal trucco di ieri sera, che ha passato a girare per bar con la nostra cricca di amici squattrinati nerd, mentre io stavo chiusa in casa a guardare Tarkovskij. – Non ti ricordi che oggi abbiamo l’intervista? Dai, ai Tokio Hotel, la boy band che piace a tutte le ragazze.
-Ma stiamo parlando di quei quattro cosini che cantano che “Ich muss durch den Monsun hinter die Welt ans Ende der Zeit”?
-Quella è vecchia.- scuote la testa dandosi una manata sulla fronte.
-Anche Caccia al Ladro è un film vecchio ma lo guardiamo lo stesso, che c’entra!- mi difendo, dandomi una fine grattata alla pancia – Regia di Alfred Hitchcock, anno 1955, con Grace Kelly e Cary Grant. Comunque sì, ho capito chi sono. Non sono malaccio, no?
-Non sono malaccio?!- Alexandria fa una smorfia fintamente attonita – Ma sono assolutamente, terribilmente pop!
-Non ti ho mica detto che sono la band del secolo, Alex.- sbuffo, accendendo la radio e lasciandomi invadere le orecchie da quel capolavoro punk che è “English Civil War” dei The Clash. – Sinceramente, c’è roba peggiore che loro.
Annuisce mollemente, mentre ci scambiamo un’occhiata combattuta all’idea di dover andare a fare un’intervista. Cioè, io e lei. Ma che si era fumato il caporedattore di quel dannato giornalino universitario?
 
-Ehm, Spiegelmann, Herder, posso parlarvi un attimo?
La figura allampanata di quel flaccidamente miliardario del caporedattore ci blocca a metà del corridoio dell’Università, i suoi occhietti porcini che ci scrutano da dietro i pincenez dorati.
-Che cazzo vuoi, Ziemann?- ringhia Alexandria, incrociando le braccia e facendo di conseguenza tintinnare i bracciali borchiati. Lui deglutisce rumorosamente, come al solito, tirandosi il colletto della camicia inamidata – Non c’hai nulla di meglio da fare che venire da noi a scassare i coglioni?
-E sta calma, Alex, a cuccia.- sbuffo io, per poi rivolgermi al nostro caporedattore – Ehi, Zie, ma non l’hai visto “Mississippi Burning”, quello di Alan Parker con Gene Hackman del 1988? Insomma, se l’avessi visto potresti fare un parallelismo epico tra te in veste dell’agente Ward e noi in veste di membri del Ku Klux Klan. Con la differenza che noi non ce l’abbiamo con quelli di colore ma con i ricchi bastardi come te. Dai, spara: cosa ci vuoi proporre?
Il vecchio Ziemann sospira rumorosamente, guardandoci con un vago terrore
-Sarebbe una consegna per il giornale. Ho pensato di chiedervi di fare un’intervista …
-Un’intervista? Ma che ti salta in testa?!- sbotta Alexandria.
-Siete rimaste voi due come giornalista e fotografa a cui chiedere.- si affretta a spiegare il nostro coraggiosissimo caporedattore – Non sarebbe un compito complicato, è solo un servizio sul conto di una band nostra conterranea.
-Tipo i Rammstein?!- trilla improvvisamente la mia amica, nel contempo che io strillo
-Non mi dire che sono i Blind Guardian!
-Ehm, no.- Ziemann si allontana da noi impercettibilmente – Non sono quelli che avete nominato, bensì i Tokio Hotel.
-E te vuoi mandare me e Chelsea a fare un’intervista ai Tokio Hotel? Ma che bevi di sera, Ziemann?
-Sarebbe un’occasione d’oro per l’Università di Magdeburgo, Herder!- strilla alterato lui, sbattendoci in mano un foglio con la data e il luogo dell’incontro per la famosa intervista – E non potete rifiutarvi, siete le ultime rimaste.
-E se ti dicessimo picche, Zie?- tento io, prima che Alex gli salti al collo.
-Siete fuori da questa Università, Spiegelmann. Detto fatto.
 
-Che poi, a ben pensarci, se oggi abbiamo l’intervista mica ci vai all’Università.- commento, allungando un pezzo di burro salato a Panther Lily, il nostro gatto nero e cieco da un occhio che si è stabilito qui col nostro trasferimento lontano dalle abitazioni della nostra infanzia. – Quindi, perché mi hai inseguito con il forchettone?
-Mi hai comunque svegliato di soprassalto urlando, cretina. E piantala di dare il burro a Lily, prima o poi ci rimane.- risponde tranquillamente Alex, mettendosi le mani sui fianchi, aumentando il volume della radio e facendo un sorrisino che di simpatico non ha proprio nulla – E ora, al lavoro. Ci servono delle domande da porre ai Tokio Hotel per fare comunque un articolo che regga, mentre io devo preparare la macchina fotografica per un servizio che comunque stia in piedi. Non ho voglia di essere sbattuta fuori a calci in culo da quella pertica di Ziemann.
-Tipo, posso chieder loro qual è il loro film preferito?- urlo, mentre scompare in bagno strascicando i piedi.
-Col cazzo, Chess.- risponde da sotto l’acqua della doccia – Cerchiamo di essere asociali e serie, non ci voglio stare troppo con quella gente.
Sospiro rumorosamente, tornando nella mia postazione da colazione, cominciando a buttare giù qualche idea di domanda su un foglio, mentre alla radio si sente l’antipatica voce del radiofonico di Radio Berlino che scandisce
-E ora, in assoluta esclusiva, il nuovo brillante singolo dei Tokio Hotel! Preparatevi a sentire un pezzo che sicuramente vi rimarrà nel cuore!
Alzo lo sguardo verso la vecchia radiolina scassata posata sul tavolo, aspettando quasi con ansia che arrivi la fantomatica canzone dei tizi che stiamo per andare a conoscere, e sento una voce incredibilmente angelica, la stessa voce che qualche anno fa ce l’aveva con il monsone levarsi dalle casse, strillando qualcosa del tipo “You’re automatic, your heart’s like an engine …” . E’ già intuibile la profondità del testo, wow.
 
-Porca puttana, Alexandria, muoviti! Siamo in ritardo!
-Dio Cristo, Chelsea, non muoiono mica se arriviamo cinque minuti dopo!
-Cinque minuti ok, ma noi siamo in ritardo di venti minuti! Corri!
-Ho le Converse slacciate, aspetta un secondo!
-Te e queste dannate Converse, fattene una ragione di vita!
-Sto cazzo, carina, ora mi aspetti!
Siamo piantate di fronte a uno dei palazzi della cosiddetta Magdeburgo bene, pronte a lanciarci nell’intervista del secolo, fastidiosamente scrutate da tutti i ricchi borghesi che transitano, in attesa che Alex Sono Perennemente In Ritardo si sbrighi e non ci faccia proprio fare una figura da pecoraie non appena sbarcheremo nell’ufficio del manager dei favolosi Tokio Hotel. Non so quanto bene prendano una rasta ricoperta di tatuaggi e piercing con una maglietta enorme con scritto a mano “Io li odio i nazisti dell’Illinois”, e una con mezza testa rapata, tatuata e truccatissima con una maglietta super in tema dei Hollywood Undead, ma se ne dovranno fare una ragione. Non esistono solo giornalisti in completo da sera, eh. Esistono anche tipi da fanzine e punk hardcore con un brutto passato scolastico alle spalle (qui parlo per me e la mia ignoranza lapalissiana).
-Dai, sono pronta, andiamo.- Alexandria si alza da terra, la grande macchina fotografica che le ciondola dal collo, e ci avviamo dentro l’androne del palazzo.
Quella che solitamente pensa alle interviste sono sempre io, mentre lei si occupa dei servizi fotografici; forse perché a me è stato dato il dono del ficcanaso ciarlatano che è stato risparmiato a lei, forse perché io ho una faccia tosta da paura e lei no, forse perché io faccio amicizia anche con le scarpe e lei è già tanto se parla con me, forse semplicemente perché io ho il piglio da giornalista d’inchiesta e lei da fotografa di incontaminati ambienti, non lo so, però tra noi è sempre stato così, non solo per le interviste. Io ci metto la faccia, mi butto, mi prendo i ceffoni, lei ci mette il piano dietro, le astuzie, le cattiverie ciniche e acide; è un equilibrio calibrato al massimo, calcolato con la sezione aurea, è la nostra quadratura del cerchio che Fibonacci non ha mai trovato. La sua asocialità tiene a freno la mia iper socialità, la sua calma assassina tiene buono il caos che mi porto dietro, la mia ecletticità di parola salva il suo mutismo scazzato col mondo, la mia batteria è la base della sua chitarra. Nel nostro essere scombinate, siamo calcolate al millimetro. Io faccio parlare le persone e ne raccolgo i segreti più intimi, lei li fotografa e non lascia fuggire le loro espressioni tradite. Insomma, Leopardi, Raffaello, Chelsea e Alexandria: vedete poi quest’abissale differenza? Tutti e due scrivono e sono insoddisfatti, tutti e due ritraggono e sono arrabbiati. Chi è il genio, a questo punto? Erano loro per l’inconfondibile originalità, o siamo noi con la rielaborazione della pop culture? Cosa conta di più, il mistero che avvolge due maestri della storia italiana o la scontata banalità di due ragazze del nuovo millennio?
Arriviamo al quinto pianerottolo, dove si apre una finestra con perfetta vista fiume e dove ci attende aperta una porta che da su un ufficio dall’aria troppo seriosa per la sottoscritta.
-Ehi, Chess, parli te, eh.- mi da di gomito Alex – Prima che mi parta qualche bestemmia contro quei quattro cretinetti.
-Non menarli, mi raccomando.- sussurro in risposta – Che chissà che razza di assicurazione sulla vita che hanno; non abbiamo così tanti soldi per ripagargli il nasino rotto o il ditino distorto.
-Da quando sono così violenta?- sbuffa una risatina.
-Fight Club, regia di David Fincher, anno 1999, con Brad Pitt e Edward Norton. Alienazione, yuppie, consumismo e boxe. Impara dalla sottoscritta che film vedere, invece che guardare quelle serie tv da nerd patentata.- rispondo con tono da cospiratrice, prima di accingermi a scostarmi un dread dal viso e a fare il mio trionfale ingresso nell’ufficio, seguita a ruota dalla mia amica.
Una tipa tutta rifatta ci osserva dall’alto dei suo tacchi 15, costretta in un tailleur super castigato
-Le signorine desiderano?
-Siamo le giornaliste dell’Università. Abbiamo da fare un’intervista ai Tokio Hotel.- faccio un sorriso largo e amichevole, ricevendo in risposta una fulminata come se fossi un ratto con la scabbia.
-Di qui, prego.
Seguiamo Chiappe Strette per un lungo corridoio piuttosto anonimo, e ci blocchiamo di fronte a una porta a vetri smerigliati, venendo puntualmente bloccate da Chiappe Strette che ci lancia un’occhiata gelida. Non so perché, ma ho la certezza che ora ci chieda se abbiamo le mani pulite.
-Vogliate aspettare un attimo qui, chiedo se possono ricevervi.
-Non stiamo mica andando a parlare con il presidente, eh.- commenta acidamente Alexandria – Rilassati, amica.
Chiappe Strette non la calcola nemmeno, entrando nella stanza dietro al vetro smerigliato; la sua entrata è accolta da quelle che paiono le urla belluine di uno zoo in libertà, qualche bestemmia, qualche risata sguaiata, qualche strillo oltraggiato, e seguita subito dopo dalla ricomparsa lampo di Chiappe Strette che balbetta terrorizzata
-Po … potete a … andare, pre … prego.
Io e Alexandria ci scambiamo un’occhiata vagamente stranita, prima di prendere tutto il nostro coraggio da metallare più punk con ascendenze periferiche e entrare dentro la stanza. Stanza che si rivela un enorme ufficio color crema, arredato con estremo gusto moderno e pratico, con alcuni Kandinsky palesemente finti alle pareti, un divano e delle poltrone di pelle bianche con delle figure spaparanzate sopra, un tavolino di cristallo sporco di … pizza?
-Oh, ecco le giornaliste dell’università! Ragazze, benvenute.
Alziamo lo sguardo su un tizio in giacca e cravatta, che presumo possa essere il manager, che ci porge la mano con un sorriso affabile ma tirato. Qualcosa mi dice che i nostri sfavillanti Tokio Hotel lo abbiano mentalmente destabilizzato.
-Piacere, siamo onorate di fare la vostra conoscenza!- dico io, dando di gomito a Alex affinché si sprechi almeno a fare un sorrisino di circostanza. – Scusi il ritardo, ma abbiamo avuto alcuni problemi con la Redazione, siamo un po’ disorganizzati.
Non mi sembrava una cosa intelligente da dire che il nostro ritardo è dovuto alla perdita della macchina fotografica, alla ricerca di una penna carica e a un paio di Converse All Star verde acido slacciate.
Il tipo prova a sorridere con gentilezza, mentre si volta e ci presenta con un vago gesto della mano i quattro ragazzi stravaccati sul divano, che ci guardano incuriositi come fossimo le nuove scimmie dello zoo.
-Allora, vi lascio qui con i ragazzi per l’intervista, mi raccomando, non più di un’ora, abbiamo i tempi serrati in questo periodo, se riusciste a sbrigarvela più rapidamente, ve ne saremmo grati.
Non facciamo nemmeno in tempo a dire “bah” che il manager fugge dall’ufficio, chiudendoci dentro. Immagino che anche per lui debba essere stressante dover sempre averci per le palle quattro ragazzini troppo famosi, troppo ricchi e troppo viziati. Non vorrei essere al suo posto.
-Allora, truppa! Piacere di conoscervi, noi siamo Chelsea Spiegelmann e Alexandria Herder, rispettivamente giornalista e fotografa dell’Università. Siamo qui per fare un servizio il più scoppiettante possibile su di voi per allietare il nostro deprimente giornalino universitario.- esclamo io, sfarfallando gli occhi, beccandomi una gomitata nelle costole da parte della mia amica e sua conseguente rettificazione della mia prorompente introduzione.
-E così voi sareste le ragazze dell’Università? Piacere di conoscervi!
Uno dei quattro si alza con fatica dal divano e ci viene incontro con un sorriso gioviale, scostandosi i lunghi capelli da metallaro dal viso squadrato, la muscolatura più che sviluppata che fa a botte con la maglietta troppo attillata.
-Io sono Georg Listing, il bassista!- afferra la mano di Alex con una velocità impressionante e, meraviglie delle meraviglie, vedo la mia amica che gliela stringe e che fa anche un bel sorriso. Che diavolo succede alla mia Alexandria? Sorride a un estraneo e si presenta come se fosse sempre stata abituata a fare la fotografa ufficiale di una band di fama mondiale. Non posso fare a meno di pensare a “Harry ti presento Sally”, regia di Rob Reiner, anno 1989, magari con un bel “Georg ti presento Alex”. Hollywood, arriva Chelsea Sienna Spiegelmann, non c’è n’è più per nessuno!
-Gustav Schafer.- barrisce un coso biondo e grasso che si sta sbrodolando di pizza e che mi ricorda vagamente la sottoscritta nelle sue crisi trascendentali da cineasta in erba – Ciao a tutte.
Io e Alex guardiamo con aria concupiscente la pizza dall’aria succulenta che Gustav sta divorando allegramente sotto le nostre affamate fauci.
-E io sono Tom, piacere!- un altro balza in piedi, spappolandoci le mani in una presa da Obelix, le treccine che si muovono impazzite da sotto la fascia nera. Toh, se non erro dovrebbe essere uno dei fantomatici gemelli Kaulitz. Quelli di cui parla spesso e volentieri una nostra amica. Poi, mi indica la maglietta di colpo spalancando la bocca come un pesce. E ora che ha?
-Ehi, amico, tutto ok? Non mi sembra di avere sto gran davanzale da far rimanere la gente a bocca aperta.- gli sventolo la mano davanti alla faccia.
-Infatti come tette fai piuttosto schifo, scusa se te lo dico.- recupera subito Tom – Comunque, la tua maglia dice “Io li odio i nazisti dell’Illinois”.
Mi basta un quarto di secondo per riconoscere la luce che unisce tutti i Figli di Hollywood e balbettare
-Quindi, anche tu …
-The Blues Brothers, quando Jake si riferisce al Partito Socialista Americano dei Bianchi.
-Regia di John Landis, con John Belushi e Dan Aykroyd, datato 1980.
Io, normalissima studentessa squattrinata, e lui, chitarrista di fama mondiale miliardario, ci guardiamo con amore, sfarfallando gli occhi, abbracciandoci di slancio sotto gli sguardi sconvolti della sezione ritmica della band e della mia amica
-Fratello da lungo tempo perduto!- ululo io, mentre lui strilla
-Sorella da tanto tempo desiderata!
-Dov’eri per tutto questo tempo?!
-Cristo Dio, Chess, che cazzo ti salta in testa, minorata mentale!?- abbaia Alexandria, strappandomi di peso dalle braccia del mio fratello onorario Tom, mentre Georg fa lo stesso con lui latrando
-Giù le mani dalla giornalista, porco ritardato!
Ci guardiamo tutti negli occhi, ridendo (io e Tom), scuotendo la testa (Alex e Georg), mangiando (Gustav), quando una voce melodiosa, annoiata, angelica, miagola dal divano
-Ci sbrighiamo a fare sta fottuta intervista? Non ho mica tutto il giorno, eh?
Mi volto verso il divano, dove vi è quello che dovrebbe essere il cantante, affondato nei cuscini, i lunghissimi capelli neri e bianchi che gli coprono in parte il viso da bambola super scazzata e super truccata, una smorfietta presuntuosa stampata sulla faccia più bella che abbia mai visto, il telefono stretto tra le mani da fata ricoperte di anelli. Scambio un’occhiata incantata con Alex, prima che Tom sbuffi
-Ah, lui è Bill, il mio gemello. La nostra checca isterica.

***
Salve gente!! Piacere a tutte, noi siamo LeAmantiDiBillKaulitz, ovvero la fortuita unione delle folli teste di callingonsatellites (ovvero Alex, ovvero Lisa) e di Un Punk Perso A Hollywood (ovvero Chess, ovvero Charlie). Stiamo scrivendo questa storia a quattro mani, e sappiamo che è folle, ma vogliamo sapere assolutamente cosa ne pensate! I riferimenti ai film sono veri ahahaah, speriamo che l'inizio vi invogli a continuare le folli avventure di sta gente ... boh, credo che la storia abbia parlato da sè, speriamo solo che vi possa un minimo interessare. Lasciateci un commento e che la forza dei manga sia con voi,
Charlie&Lisa *-* *-*
   
 
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