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Autore: LadyLigeia07    15/09/2016    0 recensioni
Elizabeth rimase ferma con la mano sull’interruttore della luce sulla parete all’entrata del salotto. Era immobile mentre cercava di ricordare chi poteva essere veramente quella giovane arrivata quel pomeriggio, quasi per caso. “Un clone,” si disse mentre quasi senza rendersi conto schiudeva le labbra per chiedere a Katherine qual era il codice del suo ‘io originale’.
Genere: Romantico, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Le labbra rosse
 
Le luci dei lampioni si accendevano lungo la strada in maniera automatica allo scandire delle sei del pomeriggio. Il suono delle campane arrivava dalla cattedrale nelle vicinanze, nel centro della città. Essa era stata costruita molti anni prima, in un’epoca della quale non c’era più memoria in quei giorni di un futuro in continua evoluzione. In quel posto ricco di edifici costruiti con estremo gusto, abbondavano statue nella piazza del centro; i musei ed i palazzi adibiti ad edifici governativi erano ornati di colonne all’entrata con degli elaborati capitelli, e su alcuni c’erano guglie che si allungavano in verticale fino a quasi baciare il cielo.

Nei giorni di primavera l’orizzonte si tingeva di arancio e di porpora, il tramonto era talmente abbagliante e colorato che quasi feriva gli occhi. Nessuno era più in grado di ricordare che in passato non era stato così. Figure di uomini alti e prestanti e di donne dall’immensa bellezza si muovevano con grazia lungo le strade. Quasi fuori dal centro c’era un ponte fatto di pietra e decorato con statue di angeli ad ogni estremità, sotto di esso scorreva un fiume dalle acque che sembravano fatte di oro e di smeraldo. Era una città magica.

In una delle case ai confini di quella città, con l’entrata che si affacciava davanti ad un parco i cui alberi avevano foglie di un verde intenso e l’erba aveva una strana luminescenza, quasi fosse fatta di madreperla in cui qualcuno aveva istillato alcune gocce di verde essenza; in quella casa viveva una donna che nei suoi anni di gioventù era stata un’artista che aveva lavorato per molti anni dipingendo e partecipando alle mostre dei suoi quadri nei musei più famosi. Essa conservava ancora il fisico sottile ed i capelli corvini che incorniciavano un viso dai bei lineamenti, aveva piccole rughe appena visibili intorno ai suoi profondi occhi scuri. Era stata talmente famosa in gioventù che ormai poteva permettersi di vivere di rendita in quella casa solitaria ma infinitamente bella, dai pavimenti di marmo lustro e dalle ampie vetrate da cui filtrava l’intensa luce del mattino e la luminosa grazia arancione dei tramonti primaverili.

Quando attraversava le stanze con il corpo appena coperto da una vestaglia sottile e morbida, il suo incedere era talmente silenzioso che nel caso qualcuno fosse stato nei dintorni non avrebbe sentito i suoi passi. L’artista vestiva abiti di seta e giacche di morbida pelliccia, anche se questa non era autentica. Gli animali erano tenuti in grande considerazione e nessuno si sarebbe mai sognato di uccidere uno di essi per fare uso delle sue pelli. In quella casa dai contorni quasi magici e decorata con gusto, viveva anche un gatto. Esso era nero come la notte ed i suoi occhi di giada risplendevano verso sera, mentre il crepuscolo avanzava e s’insinuava nelle stanze quasi dimenticate, sembrava quasi baciare il pianoforte a coda che si trovava nell’ampio salotto e che nessuno apriva più. Dopo l’intensa luce del tramonto, l’ombra e la notte prendevano d’assalto le strade e le persone.

La signora, che era conosciuta nei circoli esclusivi che frequentava con il soprannome di “labbra rosse”, accarezzando il suo gatto una mattina di primavera sul suo divano dalla fodera damascata, decise che era tempo di prendere qualcuno che si occupasse delle faccende di casa. Di solito era lei che se ne occupava, ma ormai era stanca di spolverare i mobili di legno in salotto, di tenere chiuse alcune delle stanze in modo che la polvere non rovinasse la tappezzeria… ma c’era anche un altro motivo: si sentiva molto sola. Si sentiva languire in quella solitudine soprattutto al mattino, quando conscia ancora della sua imperitura bellezza, dipingeva le sue labbra di un rosso scarlatto. Non aveva nessuno con cui parlare e non era soddisfatta della sola compagnia del suo gatto Platone.

Un giorno prese il suo dispositivo di comunicazione e fece una chiamata all’agenzia più vicina per avere un’assistente. L’operatrice che le rispose prese tutte le informazioni e le immise nella banca dati del suo computer. Le disse che si sarebbe messa in comunicazione con lei nell’arco della stessa giornata per mandarle i file delle candidate. Lo stipendio proposto era buono, e tra le richieste da parte dell’artista non c’era nulla di particolare a parte il buon carattere e un po’ di esperienza. Una volta chiusa la comunicazione, l’operatrice si mise alla ricerca del personale adatto, dopo circa un’ora e mezza sorrise: in quel momento qualcosa lampeggiò sul suo schermo, forse aveva trovato un gruppo di candidate più che adatte allo scopo.

Appena due ore dopo l’artista vide lampeggiare una luce verde dal suo dispositivo da polso. Aprì il minuscolo schermo con il lieve colpetto di un dito e vide la lista. Mentre la scorreva pigramente, alcune delle ragazze avevano un’espressione poco piacevole a suo avviso, quindi non lesse fino in fondo i dati che le riguardavano; all’improvviso, quasi in fondo alla lista vide ‘lei’ e per un attimo trasalì. Quel giovane viso le portava alla memoria qualcuno che aveva conosciuto giovanissima, il cuore le si sciolse rammentando quella cara ragazza: gli occhi verdi e luminosi, la carnagione sana, i capelli biondi e lucenti. Katherine era stata uno dei sogni della sua giovinezza, uno di quegli amori platonici che non sarebbe mai riuscita a scordare. Si morse le labbra quando notò che la candidata aveva lo stesso nome: Katherine. Già da quell’epoca non si usavano più i cognomi, ma solo codici identificativi. Definitivamente non era lei, ma le somigliava proprio tantissimo.

Il giorno seguente l’artista aprì la grande porta della sua casa appena sentì il suono del campanello. C'era il sole quel pomeriggio, il cielo era di un azzurro terso e diafano, quasi abbagliante. La ragazza fuori portava un vestito bianco dalle maniche corte. Con un sorriso allegro chiese:

“Lei è la signora Elizabeth? L’agenzia L&L mi ha mandato qui per l’intervista.” L’artista sorrise.
“Sì, sono io. Prego, si accomodi.”

Katherine entrò in un ampio salotto, c’erano un divano dalla fine fodera e alcuni sofà e poltrone dalle forme elaborate. La ragazza si guardò intorno con ammirazione, c’era perfino un pianoforte a coda in un angolo, bei quadri di paesaggi ornavano le pareti.

Elizabeth la invitò a sedersi e le chiese di darle del ‘tu’ se preferiva. Katherine poggiò la borsetta bianca che aveva portato sul sofà più ampio. L’artista si sedette di fianco a lei. Quel giorno portava un vestito di seta con un motivo a fiori rossi senza maniche.

Era una donna molto bella, e la giovane si chiese se avrebbe trovato il coraggio di raccontare tutto.

Katherine notò che l’artista portava quel rossetto acceso di tanti anni prima e si chiese, in quel momento, come avrebbe fatto a rivelare la sua vera identità senza sembrare precipitosa o ridicola. In quel momento ricordò le circostanze che l’avevano separata da lei molti anni prima. Avrebbe voluto dirle: “Ti ricordi ancora delle nostre passeggiate notturne fuori dall’Accademia di belle arti? Ti ricordi come ridevamo e come ci amavamo senza parole?”

Katherine l’aveva sempre amata e non glielo aveva mai detto. Furono anni oscuri per lei dopo la fine dei suoi studi. Una strana malattia l’aveva colpita all’epoca e non se la sentiva di coinvolgere in una relazione sentimentale una persona che non aveva il dovere di assumersi delle responsabilità con qualcuno di gravemente malato. Lei era scomparsa e aveva fatto perdere le sue tracce. Si mordeva le labbra quando pensava ad Elizabeth nelle buie stanze degli ospedali. ‘Le mancherò? ’ si chiedeva fissando l’orizzonte dai vetri grigi delle finestre. Ovviamente Elizabeth ignorava tutto quello che era accaduto, non sapeva che i genitori di Katherine avevano parlato con degli scienziati per fare avere un secondo corpo alla loro figlia: la clonazione di un corpo umano poteva costare molto denaro, ma i genitori della giovane non badarono a spese e ottennero la creazione di una seconda ‘Katherine’ che venne cresciuta dal concepimento alla nascita in un utero artificiale, considerato da tutti il metodo più sicuro.

La nuova Katherine era in grado di ricordare tutti gli avvenimenti della sua vita passata, e fece pressappoco lo stesso percorso di vita. Fu una bambina dolce e amorevole, studiò presso l’Accademia di belle arti della sua città, e fin dalla più tenera età seguì con entusiasmo le notizie della carriera di Elizabeth. Anche se non era dotata dello stesso talento, appena finiti gli studi incominciò a lavorare in un atelier, dipingeva e vendeva i suoi quadri. I suoi genitori avevano speso molto denaro nella creazione della seconda versione della loro figlia e morirono molto anziani e quasi in povertà. Katherine, ancora molto giovane, decise di tentare altre strade per arrotondare le sue entrate. Quel giorno in cui l’impiegata di quell’agenzia di collocamento la chiamò perché si era presentata un’opportunità lavorativa, si era quasi messa a saltare dall’allegria, ancora di più quando seppe chi avrebbe dovuto essere la sua datrice di lavoro.

Quel giorno di fronte alla grande porta di legno intagliato, Katherine aveva suonato il campanello mentre si stropicciava le mani sudate sul bianco vestito di cotone leggero, era quasi un abito estivo e quel pomeriggio c’era un po’ di vento. Aveva un po’ di freddo ed era nervosa.

Non si aspettava di trovarsi davanti quella donna così elegante e ancora così bella. Nessuno avrebbe indovinato la sua vera età. Ormai erano in pochi ad invecchiare come ai vecchi tempi, chi poteva pagarsi le cure migliori non lesinava denaro nella cura della sua persona e della sua salute. Elizabeth portava sempre quel rossetto rosso acceso. Katherine la fissò per un attimo con sorpresa e ammirazione. La donna davanti a lei non sembrava essersi accorta di chi fosse lei veramente. Erano passati così tanti anni?

L’artista invitò la giovane ad entrare con un gesto cortese, sempre nella stessa maniera la invitò a sedersi sul sofà più comodo. Con la coda dell’occhio osservò i suoi movimenti. Dove aveva visto prima quei gesti? Solo ricordò un profumo antico, un lieve sentore di rose che le portò alla mente gli anni perduti della sua prima giovinezza, quella fragranza delicata era legata ai ricordi più teneri di tutta la sua vita.

Con fare molto naturale Elizabeth chiese di vedere il curriculum che la giovane portava nella memoria del suo dispositivo, le disse dopo con gentilezza che si riteneva soddisfatta con tutto ciò che aveva letto, e infine le chiese se sarebbe stata disposta a trasferirsi da lei già il giorno seguente.

Lo sguardo di Katherine s’illuminò di fronte alla domanda, le sua labbra si aprirono in un caldo sorriso e rispose di sì. L’artista sentì smuoversi qualcosa dentro il profondo del suo animo. La voce di quella ragazza… il suo spontaneo e caldo sorriso.

All’improvviso la luce che proveniva dalla finestra assunse una sfumatura d’oro ramato, il sole stava tramontando all’orizzonte tingendo il cielo di un vivido arancio.

Elizabeth chiese alla giovane di trattenersi ancora un po’, le disse che avrebbe portato qualcosa da bere a qualcosa da spiluccare dalla cucina. La giovane rimase seduta sul comodo sofà mentre si lisciava la gonna del vestito con le mani. Katherine voleva dirle la verità, ma voleva trovare le parole giuste per farlo. Per un attimo osservò le sue scarpe bianche dal tacco alto. Cosa avrebbe potuto dirle? Vide il gatto andare in direzione del pianoforte emettendo un soave miagolio. ‘Che bella bestiola’ pensò la ragazza.

Dopo pochi minuti l’artista ricomparve in salotto con un vassoio di metallo tra le mani. C’erano due bicchieri colmi d’aranciata e due ciotole di biscotti e mini pretzel.

Elizabeth mise un piccolo tavolino pieghevole di fronte al sofà per metterci sopra il vassoio. All’improvviso Platone saltò sul sofà sistemandosi tra loro due. Katherine lo guardò sbalordita. L’artista sorrise.

“Fa sempre così quando ci sono visite,” disse.

In quel momento il suo dispositivo da polso suonò illuminandosi di una luce fluorescente. Elizabeth chiese scusa e si allontanò un attimo verso l’interno della casa. Si trattava di un messaggio da parte dell’impiegata dell’agenzia, voleva sapere com’era andata l’intervista. Con un leggero colpetto con l’indice l’artista rispose, scegliendo tra le diverse opzioni quella che si addiceva di più: “A meraviglia”. Secondi dopo le arrivò un altro messaggio: “Bene!” seguito dall’immagine di un minuscolo calendario sul quale segnare la data nella quale sarebbe partito il rapporto di lavoro. Elizabeth era contenta. Una volta sistemata quella piccola questione tornò in salotto.

L’ombra era scesa improvvisa e s’insinuava negli angoli più nascosti della casa. L’artista non pensava di averci messo così tanti minuti a sistemare la questione dell’assunzione.

Nella grande sala vide la giovane con Platone sul grembo. Dita amorevoli accarezzavano il dorso dell’animale mentre questo faceva le fusa e teneva ritte le orecchie. Esso sentì i passi della sua padrona che si avvicinava, e il suo sguardo si sollevò nella direzione del suono. I suoi occhi sembravano di fuoco, ma anche Katherine sollevò gli occhi per vedere Elizabeth mentre si avvicinava a loro: i suoi occhi avevano la stessa luminescenza. In un angolo quasi nascosto della sua memoria la donna ricordò di aver letto da qualche parte che solo i cloni avevano delle iridi speciali che riflettevano la luce in una maniera diversa dagli altri esseri umani.

Elizabeth rimase ferma con la mano sull’interruttore della luce sulla parete all’entrata del salotto. Era immobile mentre cercava di ricordare chi poteva essere veramente quella giovane arrivata quel pomeriggio, quasi per caso. “Un clone,” si disse mentre quasi senza rendersi conto schiudeva le labbra per chiedere a Katherine qual era il codice del suo ‘io originale’.

La giovane poggiò delicatamente il gatto per terra e nella penombra chiese, con quegli occhi che sembravano lampeggiare nell’oscurità:

“Sono Katherine, la ragazza che tu hai conosciuto anni fa quando eravamo ancora due studentesse all’Accademia di belle arti. Scusa se non ti ho detto subito chi ero. Mi perdonerai, non è vero?”

L’artista sentì che calde lacrime sgorgavano dai suoi occhi. Come aveva fatto a non capirlo prima? Il suo sguardo ed il suo sorriso. Da giovane l’aveva amata così tanto senza che lei lo sapesse, ed era rimasta distrutta quando era scomparsa senza lasciare dietro nulla che le consentisse di rintracciarla. Dunque, era nata di nuovo e aveva tutta una vita davanti? Se era tornata da lei, che significato aveva quel gesto?

La ragazza si fece avanti e con passi lenti si mosse verso di lei in quella stanza in penombra, i suoi occhi luccicavano come falene ed il suo vestito bianco sembrava emergere dal buio come se una nuova alba si fosse fatta in quel salotto. Con passi lenti si avvicinò, e l’artista sentì il fuoco scorrerle dentro. Una forte sensazione scosse le sue membra quando sentì che Katherine l’abbracciava e sussurrava al suo orecchio: “Quella volta mi sono allontanata da te perché ero molto malata, i miei genitori spesero tutto quello che avevano per potermi ridare un nuovo corpo. Adesso sono qui davanti a te e mi chiedo se mi hai dimenticata… possiamo tornare ad essere le due amiche di quella volta, e anche qualcosa di più se tu mi vorrai!”

Elizabeth ricambiò il suo abbraccio e delicatamente poggiò la testa sulla sua spalla. Quel profumo! Come aveva fatto a non capirlo prima, appena quella ragazza aveva varcato la soglia della sua casa?

Allacciate l’una all’altra con la stanza che veniva coperta dall’oscurità impietosamente, in un attimo l’artista ricordò ogni immagine, ogni momento di quell’amore che entrambe avevano vissuto nel silenzio. Il gatto sembrava osservarle con i suoi occhi di giada simili a due fari nella notte, e miagolava compiaciuto come se avesse indovinato tutto. Alla fine Elizabeth disse:

“Vorrei che tu restassi insieme a me da oggi in avanti, in questa casa, fino a quando avremo respiro!”

Katherine sentì le lacrime dell’amata bagnarle il viso mentre cercava le sue labbra per baciarla per la prima volta.
 
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