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Autore: Dianeth    16/09/2016    0 recensioni
Ogni bambino nasce biondo e ha un mostro che vive sotto al proprio letto.
La cerimonia di entrata nella società consiste nell'uccisione di quel mostro, e da allora i capelli si tingono di bruno.
Per Karol è giunto il momento di diventare un adulto.
Genere: Angst, Drammatico, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta
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L'ho sognata quella giornata, l'ho immaginata, fantasticata, esagerata ed indorata come momento più importante della mia vita. Quand'ero ancora un moccioso, mentre mi rigiravo tra le coperte del letto, stringevo forte in un pugno la coperta e soffiavo tra i denti “Ti ucciderò, brutto mostro. Ti farò a pezzi e i miei amici mi considereranno un eroe”, e mi figuravo la creatura albergante sotto al mio letto farsi piccola piccola in un angolo, tremante di paura all'udire quelle mie parole, ma non potevo certo pensare che sarei stato fra gli ultimi della classe a compiere il rito. Lo sento come un peso questo ritardo, lo vivo come una penalità in qualsiasi contesto mi trovi, una grave mancanza, anche perché la gente lo sa. Lo vede. I miei capelli sono ancora biondi, a dispetto delle infinite chiome corvine che si confondono nella massa di tutti i giorni. Che poi, come se non bastasse già la zazzera a gridare al mondo che non lo hai ancora fatto fuori, ci si mettono perfino i piani alti: carta d'identità, curriculum, patente... il fastidioso dato finisce su tutte le carte possibili ed immaginabili, e pure in grassetto. L'età ideale per mettere un punto definitivo a questa storia sarebbe dagli undici ai sedici anni, e il sottoscritto è comodamente maggiorenne. Mi dicevo e dicevano che non c'era fretta, che era una scelta che bisognava fare con la piena convinzione, ma alla soglia dei quattordici – alla vista della mia (ancora) chioma dorata – cominciarono le domande, le prime pressioni, le prime battute, i primi disagi. A diciassette, oramai, superato il limite massimo consentito dalla società, ero lo zimbello di chiunque. Andavo in giro con il cappuccio tirato fin sopra gli occhi, testa bassa, mani in tasca e passo svelto, ma nemmeno in casa mia potevo ritenermi al sicuro. L'ansia e la vergogna mi tempestavano anche dall'interno, e ogni qualvolta entrassi in camera mia gli occhi stavano a fissare per minuti interi quel letto dalla trapunta blu e il cuscino morbido bianco, così normale all'apparenza, ma sotto al quale giaceva ancora uno scomodo inquilino.

Non so che aspetto abbia il mio mostro, e non esiste neanche un prototipo: dicono che ogni creatura sia diversa da qualsiasi altra perché cresciuta nutrendosi dell'essenza del bambino che la notte riposava sopra di lui. Come si sviluppava il fanciullo, così faceva quello. Immagino dunque che il mio sia diventato bello grosso... ma se mi assomigliasse anche in codardia, sarebbe un gioco da ragazzi toglierlo di mezzo. Forse. Le persone dalle chiome scure non parlano mai di com'era fatta la loro bestia, e non ho minimamente capito il perché. Tutte concordano su di un fatto, però: la parte peggiore non è togliergli la vita, ma l'attimo in cui te lo ritrovi davanti. È una cosa che ti resta dentro, affermano, e qualche volta nel ricordarlo alcune dita tremano. Come si potrà facilmente intuire, il mio istinto omicida non è molto stimolato a sentir tutte queste belle nozioni. A dispetto del mio orgoglio – o quel poco che ne rimane – che viene scazzottato tutti i giorni.

Nonostante ciò, un paio di giorni fa ho annunciato ai miei genitori la decisione presa. Ne sono rimasti sorpresi, ma ovviamente erano molto sollevati. Finalmente, mi han detto, sorridendo a trentadue denti, ed io lì come un idiota a sorridere di rimando, fingendomi sicuro di me e pronto per una simile azione. Lo voglio davvero? Certo che no; desidero solamente togliermi il peso dallo stomaco una volta per tutte. E il gran giorno bussa prepotente e frenetico, prima del previsto, sembra recuperare il tempo perso fino ad ora, vuole essere consumato al più presto.

Mi arrampico sulle le scale e raggiungo la mia camera, aggrappato al corrimano con presa salda. Salgo gli scalini peggio di un vecchio di ottant'anni, e un po' mi faccio pena: ho ansia a fare una cosa che molti undicenni affrontano come una partita a carte. Arrivato dinanzi alla soglia della stanza, prima di poggiar la mano sulla maniglia, lascio per qualche istante il braccio sollevato a mezz'aria. Mi tornano in mente tutte le prese in giro, gli scherzi e gli appellativi poco amichevoli subiti solo perché lui era ancora là, sotto al mio caldo giaciglio, e una rabbia si espande bollente nel mio petto fino a raggiungere gli arti, spingermi ad aprire la porta ed entrare. Sono nella mia camera, ma è tutto talmente buio da sembrare una grotta sotterranea. Improvvisamente la porta dietro di me si chiude con uno scatto, e la stanza piomba nell'oscurità più totale. Si accendono una alla volta molte candele, sparse, e mi accorgo che sono rette da degli individui vestiti interamente di nero. Si dispongono egualmente a formare due file, una a destra e una a sinistra, formando un corridoio umano che conduce dritto dritto al mio letto. Da un angolo mi si avvicinano due tizi: uno regge una scartoffia che devo firmare per le solite questioni burocratiche, e l'altro prende posto dietro di me, stando fermo, le braccia conserte, e mi sento improvvisamente messo in soggezione. Scarabocchio nome e cognome sul documento e mi avvicino al mio giaciglio dall'onnipresente trapunta blu, non sapendo bene che fare. Una volta – quand'ero ancora un moccioso idiota – avevo provato a sbirciare sotto, ma non avevo visto alcuna creatura strana e, lì per lì, ero arrivato a pensare di esser l'unica persona al mondo senza mostro. Solo qualche anno più tardi, verso la terza elementare, ci spiegarono che il nostro animaletto non è qualcosa di propriamente materiale, e che viene fuori solo coi giusti mezzi. E in questo momento io, i giusti mezzi, non so davvero dove andare a pescarli. Ma, come se mi avesse letto nel pensiero, uno dei tipi vestiti di nero porge la candela a quello che ha di fianco, tira fuori da una tasca due guanti di pelle – neri, ovviamente – e quello che gli sta di fronte nell'altra fila lo imita. Il primo estrae (da un'altra tasca presumo, ma con il buio gli abiti si mescolano tra loro cancellando i contorni, e sembra che indossino una semplice calzamaglia) una pallina verde fluorescente, il secondo un cubetto rosa brillante opaco, e li lanciano sotto al mio letto. Si crea una piccola esplosione, nuvole porpora e color erba evaporano da sotto il materasso, e giuro di non capire assolutamente un accidente di quel che sta accadendo. Poi, i due che hanno lanciato le “bombette”, infilano un braccio ciascuno sotto al letto ed estraggono due gambe. Danno un ulteriore strattone e tirano fuori un corpo intero, afferrandogli immediatamente i polsi e le caviglie in modo da immobilizzarlo.

Mi viene da vomitare.

Premo a coppa una mano contro la bocca, piegandomi leggermente in avanti, e mi volto per andarmene, ma trovo il tizio che mi si era posizionato dietro poco prima a sbarrarmi la strada, ancora a braccia conserte, poi allunga una mano verso di me e mi costringe a girarmi verso quella cosa.

Ci credo che la gente scappa davanti a quell'affare.

È ripugnante.

È l'incarnazione del tuo Io peggiore, brutto sia fuori che dentro, e non hai bisogno di conoscerlo per saperlo, perché è te, e lo senti a naso che ha qualcosa che non va. Ognuna delle paure, le voglie proibite, i segreti, i desideri più oscuri e gli incubi fatti in diciotto anni di vita sono tutti finiti dentro quella sottospecie di clone. E dico clone perché di aspetto è identico a me, o almeno quasi. Ha la pelle azzurra e i capelli già neri, gli occhi rossi e taglienti, le unghie corte e insanguinate ed è nudo. Mi scruta con curiosità, ma mi conosce benissimo. E sicuramente sente che in questo momento ho una fottutissima paura, sono paralizzato. E nemmeno mi rendo conto di aver ancora la mano premuta contro la bocca.

Il tizio che teneva la scartoffia da firmare si fa avanti e mi allunga qualcosa coperto da un telo bordeaux che regge con entrambi i palmi delle mani aperte, quasi fosse un cavaliere che porge una spada al re, e in effetti è un qualcosa di molto simile. Sollevo il telo e intravedo una lama argentea brillare, e non ho bisogno di spostare altra stoffa per capire cosa sia. Afferro impacciato il coltello, mi tremano le dita, e anche il Mio mostro deve intendere che razza di oggetto sia, perché comincia repentinamente a dimenarsi con una forza inaspettata. I due individui che lo tengono stretto hanno qualche difficoltà a bloccarlo, mentre quello continua ad allungarsi e contorcersi per raggiungere il mio letto. Iniziano le grida, e Dio solo sa quanto vorrei trovarmi da tutt'altra parte.

Avanti, mi incita il tipo dietro di me.

Muovo un passo in direzione del me-stesso-blu, steso ad x sul pavimento, fissato al suolo dalle due persone nere come ombre. Mi fissa, maledizione. Scuote la testa e non ha intenzione di smettere di muoversi, pare un serpente. Scalcia – o quantomeno ci prova, si divincola col bacino tentando di sfuggire alla presa, cerca addirittura di rifilare qualche testata. Decisamente non è il codardo che avevo ipotizzato potesse essere nelle mie sciocche fantasie. Mi avvicino ancora, e mi pare di comprendere che la mia distanza da lui è direttamente proporzionale alla foga delle sue urla e la sua agitazione. Che bello. Non so neppure dove dovrei piantarglielo, 'sto coltello.

Nel torace?

Nel collo?

Nei fianchi, forse?

Che amarezza.

Mi inginocchio tra le sue gambe aperte in modo da essergli il più vicino possibile, stando ben attento a non sfiorargli nemmeno di un millimetro il sesso scoperto. Mi sento scoppiare il cuore. Lo osservo attentamente e mi viene da immaginare i miei genitori di fronte alla loro creatura, e ammetto che sarei stato ben curioso di assistere al rito di mio padre.

Inspiro profondamente e rilascio a scatti nervosi l'aria. Voglio farla finita finalmente, dopo tutti questi anni. Voglio i capelli scuri. Voglio che la gente sappia, che veda, il tunnel è terminato: sollevo il pugnale e non so nemmeno dove andrò ad affondarlo, e proprio mentre sto per calare la lama... l'animaletto inizia a piangere. Gli scendono dei goccioloni mostruosi, e torno ad essere la statua di qualche minuto fa.

Non farci caso, lo fanno tutte le volte, mi rassicura una delle ombre che lo tiene stretto.

Morire non piace a nessuno, aggiunge l'altro, come se bastasse a giustificare il tutto.

Un attimo... giustificare?

Sto forse difendendo la causa di tutte le mie ingiuste pene negli ultimi anni? Sono proprio andato.

Però è pur sempre un qualcosa di vivo, e non l'ha chiesto lui di esser creato. In fin dei conti potrebbe essere... innocente?

Ma che diamine sto farneticando!? Deve morire! È il suo destino! Suo e di tutti i mostri come lui! Basta guardarlo per capire che è un rifiuto, un errore, uno schifo!

Però sta piangendo.

Affar suo!

Gli stai per togliere la vita, non saresti spaventato anche tu?

Questo non c'entra!

Non ti ha mai fatto nulla di male, in fin dei conti.

Cosa?

Se ne stava buono sotto al tuo letto, non ti ha mai infastidito.

Basta, silenzio!

Sono gli altri che ti hanno sempre creato problemi inutili.

Non voglio sentire una parola di più!

Riflettici.

HO DETTO BASTA!

Se solo tu-

 

 

Un rumore sordo.

Un gemito soffocato.

Pelle d'oca.

 

 

Riapro gli occhi, ansimando. Mi rendo conto di esser praticamente disteso sopra il me-stesso-blu, la mano stretta attorno al manico del coltello piantato in profondità nel suo petto, all'altezza del cuore. Mi osserva con occhi spalancati, bagnati come le guance, e gli trema il labbro inferiore. Sembra sinceramente sconvolto, quasi a voler chiedere “Perché lo hai fatto?”, ma sono troppo confuso per prestargli reale attenzione. Che cavolo era successo? Le due ombre accanto a me mi guardano, e anche se al momento non rientrano nel mio campo visivo so che anche tutti gli altri lo stanno facendo. Stranamente ho l'impressione come se tutto fosse già finito. Mi alzo piano dal suo corpo turchese, senza soffermarmi né sul suo viso né sul pugnale che gli sta ritto in mezzo al torace; dalla ferita comincia a colare sangue nero. Lo guardo dall'alto verso il basso mentre è preda degli spasmi.

Devi finirlo, mi dice una delle ombre.

Il mio capo si volta di scatto in sua direzione, come se avesse appena bestemmiato. Mi tocca riabbassarmi e afferrare di nuovo l'impugnatura dell'arma, estrarla e affondargliela ancora due o tre volte nello sterno mentre lo vedo sospirare strozzato, poi si blocca all'improvviso e non muove più gambe o braccia e gli occhi restano aperti e alla fine più nulla. È morto. Le ombre gli lasciano le – ormai molli – caviglie e polsi. Rimane in quella fatidica posizione ad x per il resto del rito. Ad un certo punto sento un freddo glaciale in testa e me la tocco per istinto, e un ciuffo più lungo degli altri mi cade dinanzi agli occhi regalandomi così l'occasione di assistere “in diretta” – almeno in minima parte – al mutamento di colore dei miei capelli. Da dorati a nocciola, da nocciola a castano e da castano a color cioccolato fondente. Vorrei tanto correre allo specchio per guardarmi, ma sono convinto che stoneranno un sacco col colore azzurro dei miei occhi.

Alla fine della cerimonia coprono il cadavere con uno spesso lenzuolo viola, vi spargono sopra della polvere bianca – che, giuro, sembra davvero pura e semplice farina – e l'attimo dopo risollevano il telo, ma sotto di esso non c'è traccia del me-stesso-blu, nonostante il lenzuolo mostrasse i rilievi della presenza di un corpo. Sparito nella polvere così com'era venuto. Improvvisamente ognuno spegne la propria candela con un soffio, lasciandone solo una, che mi tendono, e capisco che devo essere io a soffiarvi sopra. Sporgo di poco il capo e sbuffo deciso sulla fiamma, e la stanza piomba nel buio totale come al principio.

  
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