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Autore: PandorasBox    17/09/2016    1 recensioni
[Gansey & Ronan, Post TRK]
A guardarla così, in piedi contro lo stipite della porta, quella stanza è tornata ad essere il vecchio ufficio che era una volta, l’unica cosa che testimonia il passaggio di Ronan è quella frase offensiva scritta a matita appena sopra la testa del letto, uno sticker di una band che doveva piacere molto al Ronan quindicenne sul bordo dell’armadio.
Fa un po’ male e sa un po’ di dejà-vu.
Genere: Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Gansey sa come preparare una valigia, sa come piegare i vestiti, sa riempire uno scatolone come si deve perché contenga tutto quel che deve contenere e non esploda all’improvviso.
Il modo che ha Gansey di impacchettare è quello della persona pratica che lo ha già fatto mille volte e conosce tanti trucchi.
Gansey, quando prepara una valigia, un pacco, qualsiasi cosa, pensa a quel che fa.
Lui no.
Lui quegli scatoloni li ha riempiti come riempirebbe un foglio bianco se avesse una penna in mano: ha buttato tutto dentro per poi accorgersi di aver finito lo spazio, la voglia, la convinzione.
Praticamente ha ancora solo uno scatolone a sua disposizione e la sua stanza è ancora un campo di battaglia di magliette tutte uguali e cose senza senso.

Gansey compare sulla porta della sua camera — che ora è aperta perché si è aperto anche lui, che cosa cliché, è diventato il protagonista di un romanzo rosa!- con una delle sue orribili polo ed i suoi terribili pantaloncini, almeno le scarpe da barca se l’è risparmiate e lo ringrazia mentalmente. È comparso un po’ come compariva Noah e c’è qualcosa di strano nel pensare che Gansey è solo un Noah ripreso al momento giusto — Gansey sarebbe stato come Noah se loro fossero stati come Whelk. Non tutti sono fortunati allo stesso modo, lo pensa ma non lo dice.
Tira un ormai inutile libro nello scatolone e non fa centro.
Stare in mezzo a quella stanza ormai quasi vuota, in ogni caso, è strano.
È strano pensare di abbandonare quelle pareti dove sono rimasti i segni dello scotch usato per attaccare qualche cazzata, il modo in cui la luce arrivava e lo costringeva ad alzarsi dopo una delle sue nottate insonni, la scrivania sgombra da qualsiasi cosa ci sia mai stata ammonticchiata sopra, il frigorifero in bagno e tutto quello che quattro mura di una vecchia fabbrica possono contenere.
Sente Gansey buttarsi sul suo letto e le molle cigolare, si guarda intorno come se in quella stanza non fosse mai entrato e, ci pensa solo ora, in effetti è praticamente così.
«Io te l’ho detto che puoi restare, no?» gli chiede, e Ronan si stringe nelle spalle, combattendo con un non so cosa che non capisce di dover restare nella scatola.
«Ed io te l’ho detto che non voglio sentire te e Greenpeace che fate cose, no?»
Gansey aveva roteato gli occhi e lanciato contro un pacchetto di fazzolettini che dovevano essere rimasti sul letto e che ora giacciono poco fuori dalla porta senza aver raggiunto il loro bersaglio.
«E poi tu ora parti per il Venezuela, a vivere nel peccato fuori dal confine. Cazzo faccio qua da solo? Dicono in questo posto ci sia un fantasma, non mi fido.» le sue ultime parole vogliono essere una battuta ma nessuno dei due ride.
Sono mesi che cercano Noah e mesi che non lo trovano, lo accettano ogni giorno di meno e la cosa è una merda.
Senza di lui Monmouth è un po’ più vuota, viverci è un po’ più difficile, è un po’ meno casa.

Considerare Monmouth casa sua, poi, era stato un processo lungo e difficile che aveva incluso l’odiare con tutto sé stesso ogni mattone di quel posto per i primi dodici mesi passati lì dentro. Perché quella vecchia fabbrica non era le Stalle e Gansey e Noah non erano né suo padre né sua madre né i suoi fratelli ma più i suoi carcerieri: ad essere esiliato in terra amica si sentiva peggio che mai. L’idea di farsi buttare in riformatorio era stata stuzzicante per più di qualche mese ma poi era stato ragionevole ed aveva evitato, aveva pensato alla seconda cosa che avrebbe dato più sui nervi a suo fratello e si era fatto un tatuaggio.
Meno problematico e più d’effetto.
Le molle del letto cigolano di nuovo e Gansey ha poggiato la schiena contro il muro e gioca con quello che dovrebbe essere un cubo di Rubik se solo non avesse ogni tassello di un colore diverso così da rendere impossibile risolverlo.
Il passatempo giusto per Gansey, insomma.
«Se ti piace tanto quel coso tienilo.» dice, lasciando perdere quell’enorme stronzata che è il trasloco ed accasciandosi accanto alla scatola, gli occhi fissi sul suo amico e i braccialetti di pelle tra i denti.
«È un regalo?» è la sua replica, un sopracciglio alzato ed uno sguardo divertito.
«Sei diventato come Parrish: niente regali?»
«Nah, preferisco regali più semplici. Tipo tu che prometti di rispondere al telefono, per dirne uno.»
È con uno sbuffo che si costringe a tirar fuori il telefono dalla tasca dei jeans e mostrare all’altro lo schermo acceso, l’anteprima di un messaggio che compare fastidiosa e lui che si sbriga a mandarla via. Un sorriso soddisfatto si disegna sulle labbra dell’altro prima che i suoi occhi tornino a concentrarsi su quell’assurdo cubo ─doveva essere ubriaco o molto frustrato quando l’ha sognato, ora che ci pensa- lasciandolo di nuovo solo con i suoi pensieri.
Il telefono torna in tasca, il peso di quel coso che ormai è diventato fastidiosamente familiare: da due settimane a questa parte non lo lascia un attimo, da quando ha regalato ad Adam quello “vecchio” con la scusa del touchscreen che a volte sfarfalla e lui lo ha accettato senza fare un fiato ─ ma quello forse era stato perché aveva trovato il modo di tenergli mani e bocca occupate prima che gli venisse voglia di protestare o tentare di restituirglielo. Fatto sta che ora ha un telefono nuovo e lo usa e capisce che non è il touchscreen a sfarfallare, è solo lui che non è capace ed a volte si chiede se abbia diciotto o ottantotto anni.
Per come sono passati gli ultimi anni, in realtà, se ne sente centoventi dritti dritti sulle spalle.
Torna in piedi.
Deve ricordarsi di cercare di capire come cazzo si cambia lo sfondo a quell’aggeggio infernale.
«Tra quanto vengono a prendere le scatole?» chiede Gansey e Ronan si stringe nelle spalle.
«Quando avrò capito come chiuderle senza chiamare un esorcista, credo.» è la risposta che porta Gansey ad alzarsi e decidersi a metter mano a quel marasma di cose e pensieri.


Ci vogliono quattro ore, parecchi insulti e un po’ di nastro da pacchi per riuscire a chiudere due anni in cinque scatoloni, i mobili spostati ed il pavimento macchiato lì dove qualcosa era stato per tanto tempo ─ i piedi del letto qui, il fondo dell’armadio lì, là quello della libreria. Lo stereo lo ha portato via già da un po’, però ha lasciato un segno contro il muro dove i fili toccavano le pareti bianche.
A guardarla così, in piedi contro lo stipite della porta, quella stanza è tornata ad essere il vecchio ufficio che era una volta, l’unica cosa che testimonia il passaggio di Ronan è quella frase offensiva scritta a matita appena sopra la testa del letto, uno sticker di una band che doveva piacere molto al Ronan quindicenne sul bordo dell’armadio.
Fa un po’ male e sa un po’ di dejà-vu.
Gansey, accanto a lui, si passa il dorso della mano contro la fronte e poi sulla maglietta, il caldo di Henrietta non è ancora tornato prepotente come in estate ma è lì, alle porte, rende i loro movimenti più lenti ed umidicci.
Un sospiro da parte di entrambi.
«Devo bere qualcosa.» dice Gansey, rompendo il silenzio, ed è solo quando questo è sparito che Ronan si permette di tirar fuori dalla borsa l’ultima cosa sognata lì dentro, un regalo, pronta e stretta in un’orribile carta color salmone come la più brutta polo nell’armadio dell’altro.
Perché quel Richard Gansey è una versione nuova di sé stesso («Quella 3.0!» dice Cheng, beccandosi occhiate torve dal diretto interessato) ma se c’è una cosa che non cambia è la sua fissa per le cose al loro posto o, meglio, per le cose al posto in cui la sua logica contorta le piazza.
È così che prende la lattina che l’altro gli porge e la rimpiazza con il pacchetto, lo sguardo perplesso dell’amico dura un attimo prima che gli appioppi anche l’altra lattina così da poterlo scartare.
«Così sei organizzato se trovi qualche re morto in Venezuela.» dice Ronan, prima ancora che l’altro possa aprire il diario nuovo di zecca che tiene in mano, copia rivista e corretta di quello vecchio, la pelle della copertina appena rovinata da un lato.
E per un attimo Gansey sembra voler dire qualcosa ma poi scuote la testa, fa per aprirlo ed il sorriso sulle labbra di Ronan si trasforma in un ghigno e per fortuna l’altro non può vederlo.
In quella stanza vuota, piena solo di un paio di mobili, cinque scatole e due persone, per un attimo, è completo silenzio. Poi Ronan scoppia a ridere perché non può fare altro.
«Serio, Lynch?» la voce di Gansey è più perplessa che altro, mentre sfoglia le pagine «Hai davvero sognato un diario che ha sulle prime pagine roba come… cos’è questo, kamasutra?»
«Amico, ho pensato potesse esserti utile, questo è il modo di ringraziare? Non sai che fatica sognare certe cose!» è la risposta che gli fa meritare uno sguardo esasperato ed un pugno. Poi gli occhi dell’altro tornano sulle pagine finché le figure non lasciano il posto ad una spessa carta appena ingiallita, quella roba hispter che fa impazzire l’altro.
«Potevi organizzarti anche per i ménage à trois, almeno...» mormora Gansey, come se si vergognasse o si sentisse offeso, non è ben chiaro.
«Oh, tranquillo.» è la risposta, seguita da una pacca che si riduce ad una botta sulla spalla con una lattina di birra gelata «Quelli sono nelle ultime pagine.»

   
 
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