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Autore: Elly J    23/09/2016    0 recensioni
Tutti i giorni vedo morire gente al campo, sfigurata dalla malattia. La malattia ti rende qualcosa che non sei, o forse fa uscire il male che c’è in ogni persona. Chi può dirlo?
Genere: Avventura, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta
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Disclaimer: Questo racconto, la cui ambientazione è ispirata al videogioco The Last of Us, è stato scritto per puro diletto personale e quindi non a scopo di lucro. Di conseguenza nessun copyright è stato violato.
Gli intrecci del racconto e i personaggi presenti, sono stati ideati dall’autrice (Elly J) che quindi ne detiene il copyright, vietandone così la riproduzione altrove.
La riproduzione altrove e qualsiasi citazione è ammessa solo se l’autrice ne ha dato il consenso.




La trave di legno blocca la porta. E’ una trave bella grossa, abbastanza rovinata. Non so se riuscirò a spostarla. Mi guardo attorno. Il muro dell’abitazione è tutto scrostato, ma è un muro strano, lo noto subito. Più che un muro sembra un pavimento. E’ tutto piastrellato, con delle piastrelle piccole e azzurrine, di quelle che di solito si trovano nei bagni pubblici, e sono tutte rovinate e spaccate in più punti. Rimango immobile per alcuni secondi. Devo, devo assolutamente entrare li dentro. Mi giro e con gli occhi cerco qualcosa per spostare quella maledetta trave.
Li attorno c’è di tutto, bastoni, rami spezzati, foglie secche e marroni cadute da un albero i cui rami pendono dal buco del soffitto. Dei raggi di sole sconnessi illuminano malamente il pavimento, entrando dal foro nel soffitto. E’ un buco enorme, non so come possa essersi formato. Sembra quasi che un meteorite ci sia caduto sopra e abbia sfondato tutto.
Rabbrividisco e mi stringo nelle spalle. Ho freddo e sono in maniche corte. Devo muovermi ad entrare. Inizio a camminare qua e la per la stanza, le mie All Star a fantasia militare calpestano il terriccio e la polvere che c’è tutto intorno, creando un rumore continuo, quasi fastidioso. Sposto alcuni massi per vedere se sotto di essi trovo qualcosa per spostare la trave. Mi graffio le mani e me le pulisco sui pantaloni, mi sporco la maglietta bianca con stampato sopra l’enorme fiocco verde a pois neri. Chissenefrega.
Giro ancora per un po’, ma non trovo nulla. Al diavolo, provo a spostarla a mano quella maledettissima trave. Mi giro e torno a fissarla, poi mi avvicino e la guardo come se fosse qualcuno che odio. Mi sistemo vicino ad essa e le poso le mani addosso, come se volessi picchiarla. Inizio a spingere con tutte le mie forse, spingo, spingo e urlo. Urlo più forte, spingo più forte. Sento uno scricchiolio e sotto le mie mani percepisco la trave che si sposta. Poi un rumore sordo e infine un tonfo. La trave è caduta. Ce l’ho fatta.
Entro all’interno dell’edificio e con sorpresa capisco subito di cosa si tratta. O almeno, di cosa si trattava un tempo. Una piscina. Mi sembra quasi di sentire ancora il puzzo di cloro, ma subito scuoto la testa. E’ praticamente impossibile che l’odore di cloro sia ancora nell’aria dopo tutto quello che è successo, dopo tutto il tempo che è passato.
Mi avvicino al vascone al centro della stanza e arrivata sul bordo guardo giù. Il fondo è pieno di crepe sconnesse, fasci di erbacce escono dalle ferite della piscina come serpenti imbestialiti, pronti ad attaccare la preda. Acqua non se ne vede più da tempo ormai.
Mi giro su me stessa e con gli occhi inizio a percorrere le pareti della stanza, senza soffermarmi su nulla in particolare. L’unica cosa che attira la mia attenzione è un distributore automatico di bibite addossato al muro in fondo, forse l’unica cosa colorata presente nella stanza.
Mi lascio cadere a terra all’improvviso, come se le mie gambe non mi reggessero più. Non so perché sono voluta entrare qui, proprio non so. La mia vita è un casino senza senso, in questo mondo distrutto dall’epidemia. Tutti i giorni vedo morire gente al campo, sfigurata dalla malattia. La malattia ti rende qualcosa che non sei, o forse fa uscire il male che c’è in ogni persona. Chi può dirlo? Ho visto la mutazione talmente tante volte che inizio a pensare che sia una cosa che in realtà avevamo già dentro di noi e che l’epidemia l’abbia solo spinta ad uscire. Credo che mi prenderebbero per pazza se esternassi questi miei pensieri e forse avrebbero anche ragione.
All’improvviso, un rumore di ramo spezzato, un gorgoglio, un urlo acuto. Eccoli che arrivano, che tornano. Tutte le volte. Mi alzo, estraendo la pistola assicurata alla cintura dei miei jeans. Un tempo odiavo le armi da fuoco, ora sono diventate parte integrante delle mie giornate.
Mi giro verso il clicker, prendo la mira, esattamente in mezzo alla fronte. L’essere gorgogliante si avvicina a me, poi si ferma di colpo. Sembra studiarmi, captando ogni mio singolo movimento.
Attendo, la pistola pronta a fare fuoco. E osservo. Osservo quell’essere che un tempo doveva essere una persona, qualcuno che magari conoscevo anche. Cos’era adesso?
Il clicker urla e si lancia verso di me. Io premo il grilletto e il trambusto che segue mi fa provare un lieve brivido lungo la schiena. Abbasso l’arma. Ormai non provo più nulla. Cosa diavolo sono diventata? Forse la malattia mi sta già divorando l’anima e non me ne sto rendendo conto?
- Valentina! - qualcuno urla il mio nome - VALENTINA! - più forte.
- Sono qui. - la mia voce è quasi un sussurro.
Sento dei rumori, scalpiccio di piedi, qualcuno che ansima dopo una lunga corsa.
- Cosa è successo? Stai bene?
Mi giro verso Matthias e lo guardo impassibile - Sto benone.
- Cosa cavolo ti è saltato in mente di venire qui da sola? - la sua voce inizia ad irritarsi. Lui è irritante.
Non rispondo. Inserisco la sicura nella pistola, la infilo nuovamente tra i jeans e la cintura e mi avvio a passo sostenuto verso Matthias. Ci scontriamo, spalla contro spalla.
- Ci vediamo al campo. - dico.
Il brivido alla schiena ricompare, leggero, quasi piacevole. Mi sento gli occhi di Matthias addosso, ma poco mi importa.
Un cliker in meno sulla faccia della terra.
  
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