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Autore: a Game of Shadows    24/09/2016    1 recensioni
Storia partecipante al contest "The Zodiac Signs" indetto da Jadis_ sul forum di EFP. Holmes ritorna dal regno dei moti e Watson non la prende troppo bene
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Contest Fics!'
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“Be gentle with me”

​Sherlock Holmes era di recente tornato a Londra dopo essere sparito per tre anni, fingendosi morto, per concludere il caso Moriarty.
Quando il vecchio biblioforo entrato nel mio studio per una visita medica scomparve e scoprii che seduto di fronte a me c'era il mio vecchio amico... probabilmente gli ruppi il naso. Letteralmente. Di conseguenza, mi trovai costretto a occuparmene subito dopo, anche se in quel momento avrei voluto avere ancora il mio bastone per continuare a colpirlo in testa. Non in modo letale, ovviamente, ma abbastanza forte da fargli capire che se avesse provato a farmi un altro tiro mancino come quello, non sarebbe più rimasto niente di lui da seppellire in un falso funerale.
Mi guardava con forte disappunto mentre gli medicavo il naso. Lui guardava con disappunto me. E continuò a lungo, fissandomi in silenzio.
“Lei è un violento, Watson.” constatò poi, con voce nasale per via del fazzoletto che teneva premuto per fermare il sangue.
Come soldato e come medico, la mia pazienza era stata fortemente temprata. Farmi perdere le staffe era difficile, ma Sherlock Holmes possedeva questo talento naturale. Mi voltai per colpirlo ancora, ma mi trovai con il mio pugno chiuso intrappolato nella sua mano.
“Sia gentile, Watson.” disse pacatamente.
Con il senno di poi posso dire che si prese quel primo pugno volontariamente. Sarebbe perfettamente stato in grado di fermarmi anche in quell'occasione se avesse voluto. Mi conosceva troppo bene, sapeva come avrei reagito, ma incassò il colpo con relativo silenzio. Sensi di colpa? O sapeva di meritarlo? Non so ancora perché abbia scelto di lasciarsi colpire.
In quel momento, però, non mi importava. Pensavo soltanto a quegli anni di lutto in cui mi aveva lasciato a Londra, a soffrire, mentre lui scorrazzava per il mondo, da solo e nuovamente in pericolo.
Presi un profondo respiro e ritirai la mano, ma continuai a guardarlo con rinnovato odio che non credevo avrei mai provato verso di lui.
Nella mia mente i ricordi di Reichenbach erano ancora troppo vividi. Se solo ripensavo a quella notte, ancora sentivo il freddo pungente della Svizzera sul viso, vedevo ancora la sua espressione quando mi aveva visto uscire su quel maledetto balcone, un attimo prima di buttarsi. Vedevo ancora le turbinose acque della cascata infrangersi sulle rocce, la schiuma che mi impediva di cercarlo, sentivo ancora il rumore sordo provocato da quel posto che non mi permetteva neanche di sentire la mia voce mentre lo chiamavo. Lo credevo morto. Quali possibilità potevano mai esserci che fosse sopravvissuto?
Ricordavo il dolore nel periodo che seguì e l'apatia successiva. Ricordavo mia moglie che mi lasciava perché ormai non ero altro che un cadavere ambulante, intrappolato in quel momento a Reichenbach, condannato a riviverlo all'infinito. Mary ormai era invisibile, per me. Come se non esistesse, bloccato com'ero nella mia autocommiserazione. Non la biasimai quando se ne andò, dicendomi di essersi innamorata di un altro uomo, uno che non la ignorava e trascurava. E Holmes era lì, davanti a me, a pretendere gentilezza.
“Prima o poi intende dire qualcosa, dottore?”
Mantenni la mia posizione. Non gli avevo detto una parola, neanche una da quando si era rivelato. Sapevo che sarei esploso se avessi aperto bocca. Un pugno sarebbe sembrato niente in confronto.
Scrollando le spalle con disinteresse, Holmes si mise una mano in tasca e ne trasse un bellissimo portasigarette dipinto di un intenso color porpora con raffigurata sopra, di color oro, una nave fenicia, che posò sulla mia scrivania
“L'ho scovato in un mercatino di Beirut. Ho pensato potesse piacerle, vista la sua passione per la storia.”
Si alzò dalla sedia che aveva occupato fino a quel momento e si ricompose nel travestimento del biblioforo. In un attimo, era di nuovo quel vecchio bisbetico dall'espressione stanca e scorbutica che era entrato pochi minuti prima. Recuperò la sua borsa e si avviò alla porta.
Io, invece, mi avvicinai alla scrivania ed osservai quel portasigarette dai colori brillanti. Dunque mi aveva pensato, mentre era via. Una parte di lui, forse, aveva sentito la mia mancanza.
“Lei mi ha spezzato il cuore.” dissi infine, prendendo quell'oggetto nelle mie mani.
Alla fine, questo poteva riassumere tutto ciò che avevo provato in quegli anni di silenzio. Mi aveva spezzato il cuore, e lo avevo capito dopo averlo detto. Mi ero sentito abbandonato, smarrito, solo. Non importava quanto Mary cercasse di risollevarmi il morale, di tenermi compagnia, di distrarmi. Senza di lui ero solo. Ero il nulla.
Lo sentii sospirare dalla porta e seguì un attimo di silenzio. Non mi interessava se quello che avevo detto avrebbe dovuto mettermi in imbarazzo, o se avevo appena riconosciuto quali fossero i miei sentimenti per lui. Io volevo che lui sapesse quanto mi aveva fatto male.
“Allora adesso siamo pari.”
Si chiuse la porta alle spalle un attimo dopo.

Inutile dire che chiusi lo studio. Quel giorno non sarei più stato in grado di lavorare. Riuscivo solo a pensare al redivivo Sherlock Holmes e quel breve scambio di parole che avevamo avuto.
Dunque ero stato io il primo a spezzare il cuore all'altro. Quando? Quando me n'ero andato, scegliendo Mary anziché lui? Credevo che il suo atteggiamento fosse solo un capriccio. E poi io non mi ero finto morto, non ero sparito, non lo avevo abbandonato a crogiolarsi nel dolore della mia perdita. ...O forse sì?
Quindi la sua era una vendetta? In qualche modo, non mi sembrava comunque cosa da lui. Era una persona troppo razionale per cedere ad un istinto così basso.
Durante il mio matrimonio avevo smesso di fumare perché a Mary non piaceva, e adesso avevo un nuovo portasigarette (pieno) che continuavo a girarmi per le mani.
Prima di sera mi ero convinto di essere stato troppo rude. Avrei dovuto quanto meno chiedergli di spiegare perché mi avesse fatto questo, e perché era tornato a Londra con un travestimento anziché come sé stesso.
Quella sera mi convinsi di essere (almeno parzialmente) nel torto e mi misi il cappotto per dirigermi a Baker Street. Da quando Mary se n'era andata Gladstone era stato affidato alle cure di Mrs. Hudson. Io passavo le mie giornate al lavoro, non potevo badare al cane. Quindi, appena arrivai, trovai una corta coda scodinzolante ad accogliermi.
“Mrs. Hudson?” chiamai.
La trovai in cucina ad occuparsi delle faccende domestiche. Per un attimo non si accorse di me, ma quando si voltò aveva l'aria felicissima. Dagli eventi di Reichenbach mi ero presentato davvero di rado a salutarla a Baker Street. La vedevo solo quando veniva al mio studio per una visita di controllo.
Avevo evitato quel posto come se fosse stato in quarantena. Ero salito al piano di sopra soltanto una volta e quasi mi ero sentito male. Avevo quindi scelto, per la mia salute psico-fisica, di non avventurarmi più nel vecchio appartamento, che per volere di Holmes, nel suo testamento, era rimasto intoccato. Che io sappia, fu il fratello Mycroft ad occuparsi dell'affitto.
“Che piacere rivederla, dottore!” sorrise, venendomi incontro con una tazza di thé.
“Anche per me. Holmes è in casa?”
Il sorriso si gelò sulle sue labbra. Mi guardava come se mi credesse pazzo.
“Dottore... il signor Holmes è morto.”
Dunque non era ancora rientrato. Per un attimo pensai di essermi sognato tutto, ma il portasigarette era nella mia tasca, e il naso umido di un anziano bulldog mi stava annusando i pantaloni. Gladstone abbaiò e scodinzolò felicemente, quindi aveva riconosciuto l'odore di Holmes sui miei vestiti. Non mi ero sognato tutto. L'avere un travestimento, però, e il fatto che non era ancora tornato a casa, mi fecero pensare che il caso che l'aveva tenuto lontano così a lungo non era ancora concluso. Avrei potuto essere con lui, guardargli le spalle, ma lo avevo cacciato e ancora una volta, dopo quei tre lunghi anni, Holmes era da solo.
“Certo... le spiace se vado un po' di sopra?”
Borbottò un consenso confuso, ma non mi ero fermato ad aspettarlo; quando lei parlò, io ero già per le scale.
Quando entrai nell'appartamento provai una strana sensazione, come se dopo tanto tempo fossi tornato finalmente a casa. Non potei non chiedermi se Holmes non avrebbe provato la stessa cosa rientrando.
Baker Street era esattamente come la ricordavo. Per volontà testamentarie, niente era stato spostato o toccato (anche se Mrs. Hudson aveva comunque fatto sparire piante, capre e serpenti). Cera il solito caos, ogni oggetto lasciato a sé stesso. L'unica differenza era la mancanza di polvere. Evidentemente la padrona di casa aveva continuato a pulire, pur rimettendo tutto come era stato lasciato dall'ultimo inquilino. E l'aria. C'era aria fresca, le finestre venivano aperte regolarmente. Se non fosse stato per questo, avrei creduto che Holmes non se ne fosse mai andato. Mi andai a sedere sulla mia poltrona e mi guardai intorno. Stavo sorridendo e non riuscivo a capire perché, ma adesso lo so: io ero appena tornato a casa. Cavendish Place era solo il posto in cui lavoravo e dormivo, non era casa mia. Non lo era mai stata.
Avrei voluto rilassarmi finché Holmes non si fosse deciso a tornare, ma ero in ansia. Perché il travestimento? Da chi si stava nascondendo?
Osservai quel ridicolo manichino in cera che lo rappresentava vicino alla finestra e mi chiesi se, dopo la nostra breve conversazione, avrebbe voluto rivedermi. Gli avevo pur sempre dato un pugno sul naso.
Sospirai e mi stropicciai gli occhi. Quei pensieri non erano da me. Potevamo battibeccare, potevo arrabbiarmi, potevamo discutere in mille modi diversi per tutte le ragioni, ma mai prima di allora avevo creduto che Sherlock Holmes avrebbe potuto non volermi rivedere. L'idea mi terrorizzava. Non valevo niente senza di lui. Al mio ritorno dalla guerra ero un uomo rovinato, soprattutto mentalmente. Lui mi aveva salvato la vita. Tre anni senza di lui erano stati un inferno, come avrei potuto andare avanti il resto della mia vita senza?
Forse stavo ingigantendo le cose, forse facevo il tutto più grave di quanto fosse davvero, ma la paranoia non mi lasciava. Sarei stato più tranquillo quando lo avrei visto entrare (sano e salvo) e mi avesse rivolto la parola con quel suo modo di fare incredibilmente irritante tipico di lui.
Rimasi ore in attesa senza fare niente. Mrs. Hudson provò a farmi scendere al piano di sotto per mangiare qualcosa per cena, ma non mi mossi. Probabilmente pensò davvero di farmi internare. Non accesi neanche le luci, la stanza era piombata nel buio. Avevo chiuso gli occhi nel tentativo di riposarmi ma non riuscivo a dormire, in qualche modo rimanevo in allerta. Mi alzai di scatto quando sentii un tonfo sordo. Per un attimo mi guardai attorno per capire cosa lo aveva provocato, e trovai il manichino di cera a terra con un foro sulla testa. Uno sparo.
Presi la mia pistola dalla tasca del mio cappotto e mi appostai dietro la tenda. Anche sul vetro della finestra vi era un foro. Qualcuno, dall'altra parte della strada, aveva sparato al manichino. Perché? Mi sporsi leggermente e vidi trambusto nell'appartamento vuoto di fronte al nostro ma rimasi immobile finché non vidi Sherlock Holmes stesso aprire quella finestra con aria soddisfatta. Si sporse ed accesa la sua pipa mentre Lestrade lo raggiungeva. Potevo vedere degli yarders trasportare fuori di forza qualcuno da quella casa.
IL DEMONIO! LEI è IL DEMONIO!” sentii gridare, e quella voce mi sembrò incredibilmente familiare. Sebastian Moran.
“Le lusinghe non la porteranno da nessuna parte!” gli urlò Holmes di rimando.
Riposi la pistola e aprii la finestra in tutta fretta. Holmes si era appoggiato alla finestra e guardava i poliziotti portare via Moran, misteriosamente silenzioso. Scoprii in seguito che Clarkie, preso dal panico per l'atteggiamento aggressivo del colonnello, lo aveva colpito in testa con il calcio della pistola e lo aveva tramortito.
Quando lo ebbero caricato in carrozza e portatoo via, Holmes si apprestò a chiudere la finestra, e solo in quel momento in cui era voltato verso il nostro appartamento incrociai il suo sguardo.
Sembrava davvero stupito di vedermi lì e seguirono interminabili secondi in cui non facemmo altro che fissarci, nonostante sentissi l'ispettore chiamarlo persino dalla mia posizione.
Alla fine inclinò la testa a sinistra con fare confuso e sorrise. Dio, quanto mi sentii meglio quando mi rivolse quel sorriso. Sospirai profondamente e gli feci cenno di rientrare. In risposta mi segnalò soltanto di aspettarlo. Doveva concludere il suo rapporto sul caso a Lestrade. Li vidi parlottare in quella stanza vuota ancora per un bel po' mentre un poliziotto, tra di loro, appuntava tutto. Ogni tanto Holmes mi lanciava qualche sguardo fugace come se volesse accertarsi che ero ancora lì mentre io, che avevo trascinato la poltrona davanti alla finestra, lo fissavo fumando una sigaretta dietro l'altra. Continuavo a rigirarmi quel bellissimo portasigarette porpora tra le mani. Per un attimo, a Beirut, aveva pensato a me anziché al caso, alla sua sicurezza, ad enigmi e misteri. Solo a me.
Non so quanto tempo passò. Mi sembrarono ore prima che li vedessi uscire in strada, Lestrade diretto verso Scotland Yard e Holmes verso casa. In un attimo sentii Mrs. Hudson urlare così forte che c'era un fantasma in casa sua che temetti stesse per venirle un infarto ed io, con mia somma vergogna, riuscii soltanto a ridere. Tutto sembrava così assurdo. Sentii ridere anche Holmes mentre saliva le scale.
“Nonnina, le spiacerebbe portare un po' di tè al fantasma e all'amico che è già di sopra?”
Quando lo vidi apparire sulla porta, improvvisamente mi scoprii nervoso. Per quanto non sembrasse arrabbiato con me, gli argomenti di cui dovevamo parlare erano piuttosto pesanti.
“Intende rimettere la poltrona al suo posto?” chiese distrattamente mentre scaricava a terra ciò che era rimasto del suo travestimento.
Mentre io riportavo la mia poltrona dove doveva stare, lui si sedette sulla sua portandosi in grembo la ormai logora custodia del suo violino.
Si guardava intorno con un'aria soddisfatta, felice, direi, che non gli avevo mai visto prima. Nel mio egoismo, non avevo pensato a come potevano essere stati quegli anni per lui, quanto avesse potuto sentirsi solo. Non avevo considerato che avesse potuto sentire la mancanza di casa.
Mi sedetti di nuovo, ma con cautela, attento a non fare il minimo rumore. Non volevo distrarlo da quel momento quando finalmente poteva gioire dell'essere tornato. Aspettai qualche minuto prima di parlare.
“Le devo delle scuse.”
“Ah, sì? A me non risulta.”
Aprì la custodia e carezzò lo strumento con la punta delle dita. Dopo tre anni di inutilizzo, l'archetto aveva bisogno di nuove corde quindi non poteva suonare, ma sembrò stare meglio solo nel tenere il suo violino tra le mani.
“Le ho dato un pugno.” gli ricordai, piuttosto sorpreso dalla sua risposta.
“Ha fatto bene.” replicò tranquillamente.
“Avrebbe potuto impedirlo.”
“Ne sono consapevole.”
C'era qualcosa di incredibilmente strano in lui. Non mi sfiorò neanche il dubbio che potesse essere un sosia creato tempo addietro da Hoffmannsthal, nessuno sarebbe tanto matto da cercare di replicare Holmes e pensare che qualcuno se la bevesse. È fin troppo unico perché una brutta copia non si palesi all'istante, quindi non avevo dubbi che di fronte a me ci fosse il vero Sherlock Holmes. Eppure... c'era davvero qualcosa di diverso in lui.
“Allora... intende lasciarmi spiegare questa volta? Non credo sia venuto a casa mia per sgranchirsi le gambe.”
Aveva detto casa mia. Era la prima volta che lo sentivo parlare di Baker Street come sua esclusiva proprietà. Non importava quanto tempo fosse passato da quando mi ero trasferito, parlava sempre di quel posto come casa nostra. Adesso non lo era più?
In quel momento entrò Mrs. Hudson con le gambe ancora tremanti e un vassoio con una teiera e due tazzine che minacciava di cadere da un momento all'altro. Mi alzai per andare ad aiutarla, ma lei mi guardava con occhi spalancati.
“Lei sapeva!” mi accusò.
“Le assicuro, Mrs. Hudson, che sono stato informato solo poche ore prima di lei. Gli ho dato un pugno, se può farla sentire meglio.”
Con un ultimo sguardo contrariato a Holmes, uscì dalla stanza. Inutile dire che il mio amico se la rideva di gusto. Lo guardai con disappunto ma tornai a sedermi sulla mia poltrona e posai il vassoio sul tavolo di fronte a noi.
Iniziò a raccontarmi cos'era successo dal momento in cui aveva ripreso conoscenza nel fiume sotto alla cascata. Parlava quasi con indifferenza di come non aveva potuto richiedere assistenza medica per le sue ferite senza rivelare al mondo di essere ancora vivo, di come aveva dovuto occuparsene da solo e lasciare che il tempo lo guarisse mentre viaggiava all'inseguimento di Moran.
Mi raccontò dei suoi viaggi, di tutti i posti in cui era stato, di come era stato obbligato a visitare posti mai raggiunti da Moran per poter studiare e capire alcuni punti delle sue mosse, motivo per cui era andato a Beirut e in altri luoghi. Era persino stato in Tibet, dove aveva passato qualche giorno con il Dalai Lama che lo aveva indottrinato (o aveva provato) su come fosse sempre possibile essere gentili. Per quanto Holmes insistesse che erano sciocchezze, che non si risolverebbe niente essendo gentili con dei criminali seriali, in qualche modo era stato influenzato dal buddhista perché avevo già notato un atteggiamento diverso.
Finì il suo racconto, arrivando a quella stessa sera che aveva segnato l'arresto di Sebastian Moran, il quale sperava di riuscire finalmente ad uccidere Sherlock Holmes.
“Come faceva Moran a sapere che era sopravvissuto?” chiesi.
La tazza di té era ormai fredda nelle mie mani e non ne avevo bevuto un solo sorso; ero talmente catturato da quell'avvincente racconto da essermene persino dimenticato.
“Temo di essermi esposto, qualche giorno fa. Per debiti di gioco aveva deciso di uccidere un certo Ronald Adair, in vacanza nel sud del paese. Ho salvato Adair un attimo prima che una pallottola di grosso calibro gli entrasse in testa, ma deve aver riconosciuto me. Ho prenotato un biglietto per Londra con il mio vero nome per fargli credere di essere ripartito alla volta di casa, ma ho “accidentalmente” perso quel treno e sono salito, travestito, sul seguente, che ha preso anche lui. Ho potuto mettermi di nuovo alle sue spalle. Sono arrivato questa mattina, l'ho seguito per capire cosa intendeva fare, e sono passato ad allertare Scotland Yard – Clarkie è svenuto quando mi ha visto entrare, e poi sono passato da lei. Quel vecchio manichino si è dimostrato incredibilmente utile.”
Una domanda, però, continuava a balenarmi nella mente.
“Perché non mi ha contattato prima? Perchè non mi ha coinvolto? Sapeva che l'avrei aiutata.”
Con il suo ritorno e la rivelazione che era ancora vivo, l'insicurezza si era insinuata in me: dunque io non ero indispensabile? Per tre anni aveva affrontato grandi pericoli, a mala pena dormendo o mangiando, viaggiando per il mondo, incontrando criminali di ogni tipo... ed aveva fatto tutto senza di me. Non aveva avuto bisogno di me in alcun modo per tutto quel tempo. Mi sentivo inutile. Per quanto avvincenti le sue avventure potessero essere state, non potevano non fare male, perché io non mi sarei dimostrato necessario neanche una volta. Certo, se Holmes fosse stato costretto a seguire piani diversi e più intricati perché non c'ero io ad aiutarlo nella via più semplice, sicuramente non me lo avrebbe mai detto. Tuttavia, il fatto che fosse stato in grado di trovare alternative funzionali alla mia assenza mi feriva. In contemporanea, ne ero felice perché questo gli aveva concesso di rientrare a casa quasi del tutto illeso. Vivevo un conflitto interiore.
“Infatti. Si sarebbe esposto, reso un bersaglio, per non parlare del fatto che saperla in giro anziché di nuovo a Londra da sua moglie avrebbe insospettito Moran al punto di capire immediatamente che ero ancora vivo. Si fidi, se lo avesse saputo avrebbe commesso solo la metà dei passi falsi che mi hanno permesso di seguirlo. Poi le avevo già rubato abbastanza tempo del suo matrimonio, considerando che lo aveva appena celebrato.”
Annuii debolmente e riposi la tazzina sul tavolino. Mi consolai pensando che non mi aveva tagliato fuori perché mi credeva inutile. In qualche modo, lo aveva fatto per proteggermi.
Holmes aveva ormai preso il suo vecchio violino in mano e strimpellava distrattamente le corde senza alcuna sequenza logica. Ancora non riuscivo a credere che fosse lì. Era possibile che il mio cervello, che mai aveva propriamente elaborato il lutto, mi desse simili allucinazioni? Doveva sentirsi osservato perché si voltò verso di me con aria perplessa. Forse si aspettava che distogliessi lo sguardo appena si fosse voltato verso di me, ma non lo feci. Sorrisi, invece. Lui era lì, vivo, al sicuro. Era questo l'importante. Mi sorrise anche lui, quasi in modo imbarazzato, e tornò a concentrarsi sul suo strumento.
“Lei è un bastardo.” constatai.
“Sia gentile.”
C'era ancora qualcosa che non mi aveva chiesto, però, e dubitavo che una simile cosa fosse sfuggita all'occhio attento di Holmes. C'era una qualche ragione per cui non mi aveva detto un soddisfatto Gliel'avevo detto.
“Non mi ha chiesto di Mary.”
“Non era necessario. Non porta più la fede nuziale. La poca abbronzatura che ha è uniforme e non le è rimasto il tipico vizio che hanno le persone sposate di far girare l'anello intorno al dito anche quando questo non c'è più, quindi è già parecchio tempo che non lo indossa. Non porta il lutto e non c'era un tocco femminile rimasto nel suo studio, né una foto o un ritratto di sua moglie, quindi non è morta. Ha scelto di far sparire ogni cosa la riguardasse da casa sua. Se fosse stato lei a lasciarla, in fase di divorzio Mary avrebbe ottenuto l'appartamento, mentre invece è rimasto a lei, il che significa che la sua signora è stata riconosciuta la causa della separazione e che inoltre aveva già dove andare. Se n'è semplicemente andata. Una donna sposata della sua età e senza più un lavoro può essersene andata solo per una ragione: ha un altro uomo. Mi sembrava crudele chiederle di sua moglie quando era facile capire cosa fosse successo.”
Il Dalai Lama aveva compiuto un miracolo. Aveva insegnato a Holmes che c'erano momenti in cui, per semplice gentilezza, era il caso di tacere. Sarei sempre stato grato a quell'uomo per questo.
Dopo tutto quel tempo da solo credevo che Holmes sarebbe stato molto più incline a parlare. Credevo che non si sarebbe zittito un attimo, per poi cadere, dopo pochi giorni, nella sua angosciante transizione tra un caso ed un altro, mentre invece parlava solo se gli facevo qualche domanda. Ormai lo conoscevo, sapevo che se stava zitto poteva esserci una sola ragione: aveva la mente affollata di pensieri.
Il caso era chiuso e l'enigma risolto. Che altro poteva esserci? Potevo essere io?
“Sa...” iniziò. “Sapevo di starle facendo del male quando ho scelto di tacere tutto questo tempo. Ero consapevole di star commettendo una crudeltà. Solo due persone potevano stare davvero male per la mia morte, ma Mycroft sapeva. È stato meschino costringerla ad essere l'unico all'oscuro. Posso assicurarle, però, che se Mycroft non avesse avuto accesso a informazioni riservate o al mio conto bancario, non avrei detto niente neanche a lui. Sono stato costretto dalle circostanze a informarlo e metterlo a rischio. Mi spiace davvero averle spezzato il cuore, ma era l'unico modo per assicurarmi che fosse al sicuro. Se dovessi tornare indietro, rifarei tutto esattamente allo stesso modo.”
Rimasi a fissarlo a lungo. Era a questo che pensava, alle mie ultime parole nel mio studio.
Lo amavo, e per quanto lo negassi al mondo, non potevo negarlo a me stesso, e adesso neanche a lui. Ma anche lui amava me, me lo aveva praticamente detto, e si era obbligato a stare da solo per essere certo di trovarmi lì quando fosse tornato a casa. Avevo sofferto così tanto, in quegli anni, che volevo con tutto le mie forze continuare a odiarlo per quello che mi aveva fatto, ma non ne ero in grado. Come avrei potuto? Con un sorriso ancora sulle labbra, mi misi in tasca il portasigarette porpora.
Non so cosa si aspettasse da me come reazione, non mi interessa neanche. Gli tolsi solo il violino dalle mani e lo invitai ad alzarsi. Ero molto soddisfatto di come sembrassi improvvisamente capace di sorprenderlo quel giorno, perché quando si alzò mi guardava con sguardo confuso.
Gli avvolsi le braccia intorno al collo e lo strinsi a me più forte che potevo. Lo sentii irrigidirsi all'istante, ma non mi respinse. Non era mai stato particolarmente incline alle dimostrazioni d'affetto, eppure avevo la certezza che non disdegnasse riceverne. Era troppo egocentrico perché non gli piacesse ricevere attenzioni di qualunque tipo.
“Bentornato.” dissi soltanto.
Solo dopo qualche lungo attimo di silenzio lo sentii rilassarsi, e le sue mani mi sfiorarono debolmente la schiena.
“È sempre un piacere, Watson.”

   
 
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