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Autore: Kary91    24/09/2016    3 recensioni
[One-Shot | Pre-Saga | child!Alec&Jace | Slice of Life, Introspettivo]
“Jace!” farfugliò Alec, inciampando nel tappeto. “Stavo solo… Io… Volevo metterteli a posto.”
Jace si chinò per raccogliere il suo soldatino.
“Ti va di giocare?” chiese a bruciapelo, incrociando lo sguardo di Alec. “Lo so, siamo troppo grandi per queste cose…” si affrettò ad aggiungere Jace, facendo spallucce. “… Ma se facciamo una partita sola…”
“D’accordo” lo interruppe Alec, accovacciandosi di fianco a lui. D’istinto, raccolse l’altro soldatino parabatai e lo posizionò di fianco a quello di Jace.
Genere: Fluff, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Alec Lightwood, Jace Lightwood
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'A thousand times over;'
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Premessa; Questa storia si ispira al prompt “Jace e Alec bambini che giocano a fare i parabatai (perché già sanno che lo diventeranno)” propostomi da Libby Smith durante l’event di Settembre del gruppo We are Out for Prompts. La storia è ambientata poco dopo l’arrivo di un Jace bambino all’Istituto di New York: lui e Alec hanno circa 10 e 12 anni.

 

 

Parabatoys

yhm

 

 

“You have me. Until ever last star in the galaxy dies. You have me.”

Amie Kaufman

 

La prima volta che Jace entrò in camera di Alec erano passati solo tre giorni dal suo arrivo all’Istituto. Non ne rimase colpito: era praticamente identica alla sua, fatta eccezione per la fantasia della trapunta e per qualche fotografia sparsa raffigurante Idris e i tre fratelli Lighwood. Jace si era aspettato più giocattoli – modellini, un pallone o qualche vecchia cianfrusaglia – ma in giro notò solo libri e attrezzature per gli allenamenti. L’unica eccezione era un set di soldatini Shadowhunter ordinatamente esposto su una mensola.

Jace lo rimirò affascinato per qualche istante, ma quando Alec se ne accorse distolse lo sguardo. Da piccolo aveva desiderato a lungo un esercito come quello, ma ormai aveva dieci anni: aveva smesso di interessarsi ai giocattoli quando ne aveva otto e non voleva che Alec credesse che pensasse ancora ai soldatini.

Per questo non poté fare a meno di mostrarsi indispettito quando, il giorno dopo, il fratellastro si presentò in camera sua con l’intero set fra le braccia.

“Puoi tenerli, se vuoi” propose Alec, posando i soldatini sul letto. “Ho visto che ne hai uno solo: con questi puoi farci delle battaglie.”

Jace si irrigidì, avvertendo tutto a un tratto il peso del suo modellino Shadowhunter nella tasca: era convinto che non l’avesse notato nessuno.

“Non ho sei anni” ribatté poi, dando le spalle ad Alec. “Non ci gioco con i soldatini: dalli a Max, piuttosto.”

Alec rimase in silenzio per qualche istante: Jace poteva quasi percepire il suo sguardo sulla nuca, certo che lo stesse studiando per capire se stesse dicendo la verità. Si conoscevano da meno di una settimana, eppure Alec sembrava avere la capacità innata – e fastidiosa – di cogliere al volo quello che gli passava per la testa.

“Guarda che non ti devi vergognare” replicò il maggiore dei due con cautela, come aspettandosi una rispostaccia. “Io ci ho giocato fino all’anno scorso: sono utili per studiare strategia, per pianificare battaglie e cose così…”

Jace si decise a guardare i soldatini; parte di lui fremeva dalla voglia di esaminarli uno a uno e di disporli in formazione, ma si sforzò di mostrarsi noncurante.

“Non mi servono dei giocattoli per imparare a combattere” rispose, sorridendo sghembo. “Sono già fin troppo bravo.”

Alec alzò gli occhi al cielo.

“Se lo dici tu…” commentò, sorridendo con fare rassegnato. “Io te li regalo comunque: se non li vuoi puoi sempre darli a Max.”

Si avviò verso la porta prima che Jace potesse protestare. Il minore dei due attese che l’altro gli avesse dato le spalle prima di chinarsi per esaminare meglio i soldatini.

“Gli hai disegnato le rune?” non riuscì a trattenersi dal domandare, prendendone in mano uno: era diverso dagli altri. Sembrava più giovane e aveva un arco invece della spada; magari apparteneva a una collezione diversa.

La testa di Alec fece nuovamente capolino dalla porta.

“Solo al mio preferito” ammise, passandosi imbarazzato una mano tra i capelli.

Jace esaminò meglio la statuina: aveva un unico marchio disegnato a pennarello sul braccio destro dell’omino.

“Non si capisce…” obiettò poi, aggrottando le sopracciglia. “… Che runa è?”

Alec sembrò arrossire, mentre il suo volto spariva di nuovo dietro la porta.

“La runa parabatai.”

Un lieve sorriso arricciò le labbra di Jace. Una volta rimasto solo, tirò fuori il modellino Shadowhunter dalla sua tasca gli esaminò il collo: a sei anni gli aveva disegnato una runa con il pennarello e, sebbene fosse sbiadita con il tempo, era ancora parzialmente visibile.

Scoccò un’ultima occhiata alla porta chiusa e incominciò a sistemare per terra i soldatini: li mise a semicerchio, lasciando fuori il suo e quello preferito da Alec. Posizionò questi ultimi davanti al resto della squadra, uno di fronte all’altro.

“Ti avevo chiesto di rimanere indietro con gli altri” sussurrò, facendo parlare il soldatino di Alec.

“Impossibile” fece ribattere al proprio omino. “Non ricordi? Dove andrai tu, andrò anch’io.”

Lo voltò, in maniera da mostrare all’altro soldato lo scarabocchio a pennarello sul collo del suo modellino: era la stessa runa che aveva il compagno.

Un sorriso incurvò appena le labbra del ragazzino, mentre i due soldatini tornavano, fianco a fianco, verso il loro esercito.

“È così che fanno i parabatai.”

*

“Jace?”

Alec bussò un paio di volte, prima di sbirciare attraverso lo spiraglio della porta; stava cercando il fratellastro da parecchio, ma gli fu subito chiaro che non l’avrebbe trovato nemmeno lì.

S’intrufolò nella stanza vuota, attirato dalla presenza di qualcosa sul tappeto. Si stupì nel riconoscere i suoi soldatini impilati con cura perfetta, uno di fianco all’altro: Jace non lasciava mai nulla fuori posto.

Gli venne da sorridere, mentre si accovacciava per esaminare da vicino lo schema di gioco scelto dal fratellastro. Non si sorprese quando notò due figurine in disparte, una delle due a terra.

Nel corso dell’ultima settimana gli era capitato spesso di ascoltarlo giocare, origliando dallo spiraglio della porta. Jace si divertiva a progettare battaglie lunghe e articolate, durante le quali il suo esercito in miniatura lottava con fierezza per debellare la minaccia dei demoni. I personaggi che utilizzava più spesso erano i due guerrieri parabatai. Inventava per loro missioni impossibili che affrontavano sempre fianco a fianco, lottando allo stremo per proteggersi a vicenda.

Le partite giocate con i due parabatai, tuttavia, avevano un particolare ricorrente: si chiudevano sempre con una sconfitta. Jace faceva del suo meglio per tenere uniti i due soldati, per evidenziare la lealtà che nutrivano l’uno nei confronti dell’altro, ma spesso era proprio quel legame a causare la loro rovina; più volte il soldatino di Alec aveva perso la vita nel tentativo di salvare il compagno. Altre volte Jace aveva fatto litigare i due modellini e la distrazione li aveva portati a cadere in qualche trappola.

Alec era turbato da quel comportamento: era come se Jace fosse convinto che avere un parabatai portasse guai, invece che renderti più forte. Come se pensasse che per vincere bisognasse sempre fare tutto da soli.

Fissò il soldatino di Jace buttato per terra: spiccava in mezzo agli altri perché era più consunto e lo smalto stava andando via dai vestiti. L’omino preferito di Alec gli era accanto, ma gli dava le spalle e sembrava sul punto di raggiungere il resto dell’esercito. Non fu difficile immaginare cosa fosse accaduto ai due personaggi: il soldato a terra stava morendo – probabilmente era rimasto ferito mentre cercava di proteggere il parabatai – e il suo compagno lo stava abbandonando per tornare dal resto dell’esercito.

Alec guardò furtivo verso la porta, mordicchiandosi un labbro. Jace non era l’unico che si sentiva troppo grande per giocare con i soldatini: li aveva usati di nascosto per mesi prima di cederli al fratello minore. In quel momento, tuttavia, la tentazione di proseguire la partita lasciata a metà da Jace era forte.

Indirizzò un’ultima occhiata alla porta e s’inginocchiò sul tappeto. Quando prese in mano il suo soldatino preferito gli venne spontaneo sorridere: Jace aveva ripassato la runa sul suo avambraccio e adesso si notava meglio.

 “Va tutto bene” mormorò, facendolo avvicinare al parabatai morente. “Non preoccuparti: ci sono io con te.”

Sollevò la mano sinistra del modellino – quella con lo stilo – e gli fece tracciare un’iratze. Nel giro di pochi istanti il soldatino di Jace era di nuovo in piedi.

L’omino di Alec cercò di stringergli la mano, ma lui si ritrasse.

“Pensavo che stessi andando via” mormorò con la voce prestatagli da Alec.

Il ragazzino scosse la testa.

“Mai” fece pronunciare al suo modellino. “Dove andrai tu andrò anch’io.”

Mosse all’indietro il soldatino di Jace, allontanandolo dall’amico.

“Non credo di voler più essere il tuo parabatai” gli fece dire in tono di voce amareggiato. “Sono quasi morto per colpa tua: tu mi rendi debole.”

Alec tornò a scuotere la testa.

“Ti sbagli” mormorò, dimenticando di muovere il suo soldatino.

Qualcuno gli sfiorò una spalla.

Il ragazzino sobbalzò, lasciando cadere a terra le due statuine.

“Jace!” farfugliò, inciampando nel tappeto.

Jace allungò il braccio per sorreggerlo, ma il fratello arretrò, riuscendo faticosamente a mantenere l’equilibrio.

“Stavo solo… Io… Volevo metterteli a posto.”

Distolse lo sguardo, l’imbarazzo a tingergli le guance di rosso.

Jace si chinò per raccogliere il suo soldatino.

“Ti va di giocare?” chiese a bruciapelo, incrociando lo sguardo di Alec.

Il fratellastro gli rivolse un’occhiata sorpresa.

“Lo so, siamo troppo grandi per queste cose…” si affrettò ad aggiungere Jace, facendo spallucce. “… Ma se facciamo una partita sola…”

“D’accordo” lo interruppe Alec, accovacciandosi di fianco a lui. D’istinto, raccolse l’altro soldatino parabatai e lo posizionò di fianco a quello di Jace. Era un po’ imbarazzato – parte di lui temeva ancora che Jace l’avrebbe preso in giro per quella storia dei soldatini – ma l’idea di giocare con lui non gli dispiaceva per niente. Dopotutto, nel corso dell’ultima settimana non avevano fatto altro che studiare e allenarsi. “Da dove incominciamo? Vuoi organizzare tu l’esercito?”

Jace scosse la testa.

“Ricominciamo da qui” rispose, indicando i due parabatai con un cenno del capo. “Da quello che gli hai fatto dire tu: lui…io…” proseguì, sfiorando il piedistallo della sua statuina. “…io ho detto che mi rendi debole. Ma tu hai detto che mi sbagliavo.”

“È così” confermò Alec, giocherellando con la faretra del suo modellino.

Jace sembrava confuso.

“Perché?”

Alec capì subito che non stava parlando a nome del suo soldatino: era lui ad avere bisogno di quella risposta.

Aiutami a capire dove sbaglio, chiedevano gli occhi di suo fratello, supplicandolo in silenzio. Spiegami come si fa a fidarsi di qualcuno senza aver paura di farsi male.

Alec fece spallucce.

“Stavi morendo” mormorò, spingendo la sua statuina verso quella di Jace.

Il fratello fece arretrare la propria.

“Per colpa tua…” rispose.

“Per difendere me” confermò Alec. “Ma è insieme a me che hai sconfitto tutti quei demoni. Forse, se fossi stato solo, non ti avrebbero colpito… O forse l’avrebbero fatto comunque. E a quel punto saresti morto.”

La statuina di Jace rimase immobile, mentre il suo proprietario rifletteva su quelle parole.

“Ma adesso sono vivo” osservò infine il ragazzino.

Alec annuì.

“Sei vivo” ripeté, abbozzando un sorriso. “Perché hai me E anche io sono vivo perché ho te.”

Jace tentennò per qualche istante, prima di riavvicinare il suo soldatino a quello di Alec.

“Io ho te” ripeté in maniera meccanica, come stesse cercando di assorbire quel concetto.

“Tu hai me” ” confermò Alec, passando il polpastrello sulla runa della sua statuina. “Fino a quando l’ultima stella della galassia morirà, avrai sempre me: è quello che c’è scritto nei libri…” aggiunse, arrossendo leggermente. “… Dicono che i parabatai si sentono così … e secondo me è vero.”

Jace sorrise appena, spazzando via lo smarrimento dal suo sguardo.

“Dove andrai tu andrò anch’io” recitò, avvolgendo il suo soldatino con il pugno. “Adesso è tutto chiaro.”

Tornò a guardare suo fratello: Alec sembrava più rilassato adesso che anche lui aveva ripreso a sorridere.

E per la prima volta da quando era arrivato all’Istituto, Jace si accorse di capirne il perché.

 “Adesso ci credo.”

 

 

   
 
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