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Autore: Anaitis    24/09/2016    0 recensioni
Dominik è il prodotto del matrimonio, guidato dal successo e dall'ambizione, tra l'uomo d'affari Andrzej e sua moglie Beata. Mancano solo cento giorni alla fine dell'anno e i suoi genitori sperano che Dominik si licenzi dalla migliore scuola del paese con il massimo dei voti. Ma cento giorni possono essere lunghi, soprattutto quando si ha a che fare con i meccanismi rigidi e le esigenze sociali di una scuola d'élite. Una serie di umiliazioni subite a scuola e la scoperta di alcuni commenti che lo riguardano pubblicati dai suoi compagni in un social network, gettano Dominik nello sconforto fino a mettere a dura prova la stima in se stesso e la concentrazione scolastica. Incapace di sopportare l'idea di andare a scuola, Dominik si ritira in un mondo virtuale dove non ci sono odiosi compagni di classe. Online e dietro uno pseudonimo, incontra Sylwia che gli confessa di avere intenzioni suicide e lo invita nella « Chat room del suicidio »
Genere: Drammatico, Introspettivo, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Gli anni della mia adolescenza erano quasi giunti ad una conclusione. Tante pressioni, tante occasioni, poche regole badate e tante mai eseguite, una cultura sufficiente. In una scuola elitaria e quasi maniacalmente favorevole all'avvenire dei giovani era importante essere esemplari nella propria disciplina, ed io ero una dimostrazione rara del sudato lavoro che i docenti impegnavano nel riuscirci. O probabilmente era soltanto merito del mio intelletto progredito. Essere considerato un archetipo di figlio e il cervello di famiglia per me significava un passo verso la superbia e l'arroganza, anche se non lo davo francamente a vedere. In qualsiasi posto io mi trovassi, la mia reputazione era sempre e comunque associata al qualunquismo totale, un'assenza espressiva e incomunicabile che spesso veniva fraintesa, causando il più delle volte stupide discussioni dalle quali, naturalmente, desideravo uscirne vittorioso. Non ero bravo a tirarmi fuori dai pasticci, era uno dei compiti prioritari che riguardavano mio padre dalla mia nascita alle porte dei miei undici anni, quindi non mi era mai stata insegnata l'autodifesa. Era uno dei pochi motivi per cui avevo iniziato a frequentare dei corsi di Judo, credevo che almeno sarei riuscito ad imbullonare qualcuno al pavimento, ma la mia scarsa conoscenza in materia era consueta a tradirmi. Dopo le lezioni in palestra tornavo a casa con l'autista che mio padre aveva esclusivamente assunto per trainarmi da una zona all'altra, perché lui non era disponibile per farlo. Essendo diventato il braccio destro del ministro era definito un misfatto perfino un ritardo temporale, e un licenziamento era un errore che non andava mai arrischiato, nessun altro datore di lavoro avrebbe offerto un salario così alto. Lo stesso valeva per mia madre, non tornava mai a casa con dei sacchi della spesa tra le mani e un'idea precisa di cosa avrebbe cucinato per pranzo, perché in ogni caso ci sarebbe stata la governante ad occuparsi di questo. Non eravamo una famiglia con dei canoni standard, che trascorreva la metà del tempo insieme, o che il sabato e la domenica era orientata a fare una passeggiata in centro. O meglio, le uniche volte in cui i miei genitori mi invitavano a trascorrere una serata in loro compagnia era quando c'erano in programma dei concerti al teatro, non concerti tipicamente moderni e turbinosi, ma di quelli talmente sobri che perfino una persona con abitudini musicali antitetiche si sarebbe rilassata e avrebbe ceduto il suo corpo alle flemmatiche melodie della composizione. Ma quel genere di serata non era il mio modello di intrattenimento, non lo era mai realmente stato, e avevo deciso di non deludere in miei genitori e di evitare di escludere quel frammento di tempo libero che ci era rimasto. L'ultima esibizione era un Lied, una conciliazione tra pianoforte e solista, a volte mi limitavo per brevi attimi ad osservare la platea che mi circondava, la metà era affascinata dal contesto cupo e dalla voce arrochita del maestro, il resto, invece, composto parzialmente da falsi intenditori in giacca e cravatta, accompagnati dalle loro mogli accartocciate da gioielli kitsch, erano al confine tra un forte torpore e una fatale sonnolenza che ingannavano le note eque ed autorevoli di Schubert. Comportamento signorile. Quando la mia mente era del tutto sconnessa dal cantore, il pubblico globale si era già alzato ad acclamare lo spettacolo, inclusi i miei genitori. Decisi di fare altrettanto, non volevo sembrare scortese e neppure troppo accomodato da quelle poltrone, chissà cos'avrebbero pensato tutti gli altri. Negli ultimi tempi facevo quasi tutto per educazione, anche essere gentile con la società intera era diventato uno di quei minimi abbozzi. Applaudivo ad imposizione delle persone, sorridevo ad imposizione delle persone, e salutavo ad imposizione delle persone, come avevo appena accennato nel momento in cui mia madre mi fece notare la presenza di Karolina, una mia compagna di scuola. Lei la salutò con allegria, sbatacchiando una mano davanti al viso e sfoggiando uno dei suoi sorrisi ilari. Io mi limitai ad incurvare leggermente le labbra, dopotutto le mie mani erano ancora occupate ad acclamare il concerto appena terminato.

Il tragitto in auto verso la scuola non era mai durato così a lungo di quella mattina. Tra tanti CD disseminati nel vano portaoggetti la scelta più adeguata, per il mio conducente, sembrava essere la musica Techno. Speravo non stesse facendo sul serio o che lo stereo si fosse distrutto da un momento all'altro. Diedi un'occhiata alle sue spalle ed estrassi la tragedia di Amleto che avevo studiato e recensito fino all'ultima delle sue parole, abbastanza difficoltoso e al contempo meditativo sulla validità delle azioni umane. Iniziai a sfogliare alcune pagine, tentando di afferrare le prime frasi che l'esordivano e fallendo miseramente a causa della traccia che continuava ad anteporsi alle mie idee. Tornai a guardare una zona indefinita e a quel punto decisi di parlare, cercando di mostrarmi più gentile di quanto potessi.

« Potresti abbassare un po' il volume? »

« Come? »

« Abbassa un po', per favore. »

Gli imposi, guizzando lo sguardo sulla capòte dell'automobile. Il volume era stato dimezzato soltanto di qualche tacca, non notavo differenza alcuna dal momento in cui aveva avviato il lettore. Avevo bisogno di quiete, o almeno di qualche canzone ispiratrice. Sfogliai nuovamente qualche pagina della tragedia e guardai il mio conducente, in modo rigido e determinato.

« Potresti abbassare ancora un po'? » chiesi, notando la sua sfacciata remissività che sbocciava ad ogni mio ordine. « Ancora un po'...» Aggiunsi.

«E ancora un po'...solo per me, per favore. »

Arrivato ad ammutolire del tutto la traccia esattamente come gli avevo intimato di fare, si sentì costretto ad estrarre il CD dal lettore, e nonostante il fiore del mio compiacimento fosse stato appena alimentato, lo ringraziai per la sua cara gentilezza. Alcun ringraziamento che esternasse la mia felicità, credo - al contrario - che trasmettesse più disinteresse del solito. Ma in realtà volevo davvero che quella canzone venisse lasciata da parte. 
L'importanza che stavo cedendo allo studio in quell'ultimo periodo scolastico era da definirsi morbosa, l'ultimo esito avrebbe decretato il mio destino e non potevo permettermi di fallire proprio in quel momento. I propositi per il mio futuro erano da definirsi neutri, non riuscivo ad ipotizzare la mia nuova ed imminente routine da uomo laborioso e appassionato alla propria attività, come mio padre, che non si concedeva in alcun modo di disertare il lavoro, oppure come mia madre, che spesso trascorreva integre ore notturne nel suo ufficio. Non sapevo se considerare la loro fatica un onorevole sacrificio o semplicemente un'ardente brama di continuare a nuotare nel lusso. Alcune volte arrivavo a dubitare perfino del loro matrimonio, mi chiedevo come fosse possibile restare così affiatati senza riuscire a vedersi per ore, per giornate intere. Ma erano, in ogni caso, scrupoli che non mi riguardavano. Un grande turbamento che invece rivedeva soltanto me, era quello di non riuscire a vedere nient'altro a capo di quei cento giorni. Il mio futuro era coperto da una pagina nera e da un grande punto interrogativo da decodificare, o probabilmente ero già destinato a seguire mio padre nel suo mestiere.

« Santorski Dominik, è pronto? »

Una docente appellò il mio nome, quando ero in parte assorto nei miei pensieri più banali. Al mio fianco c'erano Aleksander e una nostra compagna di classe, tutti dovevamo ricevere una nostra valutazione scolastica. Insieme ad altri studenti, eravamo il gruppo più rinomato dell'istituto, ma soltanto fino a quando la verità era ancora un piccolo tesoro ignorato, messo a tacere in qualche piccolo recesso della mia mente. Almeno per quanto riguardasse me. 
Mi alzai dalla sedia e mi diressi esattamente verso la cattedra, dietro cui almeno tre o quattro istitutori erano posizionati in fila, uno vicino l'altro.

« Che quesito hai deciso di tracciare? »

« 'Il tempo è fuori giunto; ed è un dannato scherzo della sorte ch'io sia nato per riportarlo in sesto.' »

Menzionai una citazione di Amleto in una combinazione piuttosto ben strutturata, e intanto riuscivo ad avvertire la pesantezza degli sguardi che Aleks era deciso ad affidarmi. Non che fossi contro le sue osservazioni, ma ogni qualvolta lui era intenzionato a rivolgermi uno sguardo, a me sorgeva sempre una stilla d'euforia in più. Era benefico, in particolare perché lui riusciva a piacermi. Non prendevo mai in considerazione l'idea di confessare a qualcuno l'attrazione che provavo nei suoi confronti, presupponendo che si trattasse di assenza di coraggio. Come l'avrebbero presa i miei genitori, poi, non ero nemmeno in grado di ricavare qualche punta d'eroismo per rifletterci un po'.

« Cos'hai potuto comprendere dalle parole di Amleto? »

« Amleto cerca un modo di esprimere la verità, attraverso lo smascheramento della falsità e dell'ipocrisia che lo circondano, così... »

Le mie parole subirono un istantaneo smorzamento vocale nel momento esatto in cui Aleks iniziò ad emulare il suono di un bacio. Molto più assimilato allo schiamazzo di una papera. Abbozzai un sorriso congiunto e mi rivolsi limitatamente verso di lui, cercando di capire cosa stesse tentando di fare e quali fossero le sue intenzioni francamente inopportune, e di ritrovare, inoltre, un modo per ritornare a conseguire la prontezza abituale. Avevo completamente perso la concentrazione, ma cercavo in ogni caso di riprendere l'argomento di cui stavo parlando, nonostante non stessi seguendo più un determinato filo logico.

« così indossa...una maschera, tutte... » lo schiamazzo proseguì per la seconda ed ultima volta, e se avesse osato farlo di nuovo sarei stato io ad intralciare il mio stesso esame, soltanto per allontanarlo dalla classe.

« Tutte...uhm...tutte le profonde concezioni sono occultate. 
L'arte presenta spesso pazzi o inconcludenti che, attraverso le loro azioni, smascherano il male. »

   
 
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