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Autore: Voglioungufo    25/09/2016    7 recensioni
Calypso non vuole mangiare, lei vuole volare via come un piccolo colibrì.
Leo sorride troppo per trovarsi in un posto del genere, ma è un abile bugiardo.
Nico non parla con nessuno, preferisce parlare con la propria ombra.
Will è convinto, lo sa che tutti meritano una seconda possibilità. Tutti.
Dal testo:
"Perché?" chiese solo sfiorandogli il polso con il polpastrello senza premere troppo forte come il tocco delicato di una farfalla. Non poteva capire cosa ci fosse nella sua intonazione, se stupore o rabbia, se dolore o paura o disprezzo, forse era solo incomprensione.
"Ognuno si autodistrugge a modo suo, mio cara" disse con un sorriso sbieco, da furfante, ma negli occhi aveva una luce sprezzante che non gli aveva visto mai. "Il mio modo è solo più evidente del tuo, Raggio di Sole" e mentre lo diceva si coprì il polso impedendole di guardare oltre tutti i suoi peccati, quello sguardo bruciava più del fuoco.
Sorprendentemente, contro ogni logica, lei appoggiò la testa sulla sua spalla come se fosse la cosa più naturale del mondo.
"Autodistruggimi, allora"
Genere: Angst, Fluff, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: I sette della Profezia, Leo/Calipso, Nico/Will, Percy/Annabeth, Quasi tutti
Note: AU, Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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Attenzione! La storia seguente presenta tematiche delicate. Vorrei precisare che non promuovo nessun tipo di disordine alimentare. Pertanto, se si è facilmente influenzabile sconsiglio la lettura, non voglio avervi nella coscienza.
 
 
 
 
 
V
 
Quarantasettepuntootto
**
 
Non si può dire che quella mattina Leo si svegliò di buon umore perché non fu affatto così, anzi una sorta di amarezza gli appesantiva il petto quando con uno scatto bloccò la sveglia prima che i suoi compagni di stanza potessero sentirla.
Benvenuta Domenica, pensò con stanchezza e sbuffò mentre si districava dalle lenzuola marroni. Sembrava che nella sua testa fosse stato organizzato un mega-party clandestino e quando chiudeva le palpebre pesanti poteva ancora vedere Jason che lo trovava seduto per terra nel retro del bar e gli diceva che era ora di tornare. Era triste, perché per quanto si sforzasse non riusciva a ricordare i lineamenti del volto di Echo nonostante ricordasse di essere stato colpito dalla sua bellezza.
Quindi no, non si può di certo dire che quella mattina Leo si fosse di buon umore, ma si finse di mostrarlo quando ammiccò alla propria immagine allo specchio del bagno.  È vero: in quel momento non era felice, ma poteva fingerlo di esserlo.
Se mostri quanto ti fa male, hai perso. E in un gioco del genere non si può perdere, c’era gente che aveva scommesso su di lui. Sua madre, per esempio. Per questo si regalò un largo sorriso. Indossava ancora i vestiti della sera precedente e la stoffa era impregnata da una puzza mista sudore e fumo con quel pizzicore acre dell’alcool che punge le narici. I capelli si ingarbugliavano sulla sua testa in mille riccioli disordinati come al solito anche se nel lato sinistro erano leggermente schiacciati. Si passò una mano sul viso stropicciandolo e sbadigliò. Odiava svegliarsi così presto.
Per le ciambelle calde questo e altro, si decise iniziando a slacciarsi i jeans e diede la schiena allo specchio quando fu il momento di sfilare la maglia, vedere le cicatrici sul suo torace allo specchio. Era strano, era disturbante. Lo turbava. Perché finché guardava quei tagli direttamente non ne aveva una vera coscienza perché era il suo corpo e quindi... non lo sa, però non gli faceva male, non lo faceva sentire in colpa. Invece lo specchio è come, tipo, non so come dire, un quadro. Un quadro al quale si vedeva la faccia e che aveva la sua, di faccia, ed è una cosa strana vedere una persona che in teoria dovrebbe essere sé stessa ridotta in quel modo.
(no, non si è spiegato, ma non importa. Fa lo stesso. È come sempre. Quasi)
Si lavò di fretta e distrattamente, non si asciugò nemmeno i capelli e i ricci gocciolavano sulla maglietta rossa pulita ma alla fine non ci faceva nemmeno caso, si regalò solo l’ennesimo sorriso furbo alla specchio.
Uscì e camminò per il corridoio fischiettando e le mani ben impiantate nelle tasche dei jeans al ginocchio. Leo non era particolarmente felice, ma lo sembrava ed era questa la cosa importante. Il corridoio era deserto, tutti approfittavano della domenica per dormire. Tranne lui. E un’altra ragazza che molto pratilmente stava percorrendo un corridoi più basso verso la povere segretaria per stordirla a forza di richieste. Spesso si chiedeva se la segretaria avesse una vita al di fuori della reception, tipo un marito e una famiglia piena di poppanti urlanti. Se li immaginava:
“Come è andato al lavoro, tesoro?”
“Il solito, cara. E da te, nella scuola piena di piccoli pazzi?”
“Il solito, solo un ragazzino si è chiuso dentro una classe convinto che il mondo cospirasse alle sue spalle”
“Capisco”
Se li immaginava, e d’altronde era successo davvero qualche anno fa. Uno dei ragazzi aveva iniziato a urlare in piena notte e si era barricato nell’aula di chimica minacciando di creare un composto esplosivo se solo avessero tentato di aprire quella porta. Un tipo simpatico che soffriva di manie di persecuzioni e ogni tanto bisbigliava qualcosa contro tutti, Ottaviano se non sbagliava. Quella volta avevano dovuto chiamare i vigili del fuoco, s’era fatto un sacco di risate. Esilarante era stato quando una bambina, Meg se non sbagliava, aveva provato a rapinare uno dei negozi di verdure usando una bomba fatta di deodoranti. Ovviamente non aveva funzionato ma era bastata la piccola a mandare all’ospedale il vecchio commesso. Quello, non era stata divertente.
Dalle finestre del corridoio entravano raggi immobili di luce diretta e dovette socchiudere gli occhi perché davano davvero fastidio. Aveva mal di testa, ma dopo tanti post-sbornia era talmente abituato da non farci nemmeno caso. Tolse una mano dalla tasca appoggiandola sul corrimano e si apprestò a scendere le scale quando una voce femminile alle sue spalle chiamò il suo nome.
Irrigidì immediatamente alle spalle artigliano il corrimano riconoscendo la familiare inclinazione delle sue lettere nella pronuncia francese.
“Non mi saluti nemmeno?” continuò quella voce con meraviglia distaccata. Era sempre difficile inquadrare le sue emozioni, era sempre così incolore.
“Non ti avevo visto” rispose sinceramente rilassando la schiena e distendendo lo sguardo in una smorfia malinconica, un leggero sorriso rassegnato sulle labbra. “E credevo che non ti avrei rivista mai più” continuò.
“Lo credevo anch’io” la voce femminile si fece più chiara come se si stesse avvicinando alle sue spalle, la percepiva sempre più vicina ma non osava girarsi. “Speravo di non tornare più qui, ma mio padre riteneva...” e lasciò la frase sospesa allungando di poco la lettera a. Leo poteva immaginarla chiaramente alzare gli occhi al cielo, la cosa lo fece sorridere un poco.
“Sono appena arrivata, comunque.” Ora la sentiva chiaramente dietro di sé, ma ancora non voleva voltarsi. “E’ ancora tutto uguale a come ricordavo”
“Dici?” le domandò inarcando un sopracciglio, gli tremavano leggermente le punta delle dita nella tasca dei jeans.
La voce scoppiò in una breve risata derisoria. “Non è cambiato niente” ripeté “Sei rimasto lo stesso anche tu”
Fu a quel punto che decise di voltarsi, si mordeva nervosamente l’interno di una guancia ma si sforzò di mantenere una luce vispa negli occhi color caffè. Allargò il viso in un sorriso dispettoso quando mise a fuoco la figura snella della pallida ragazza che aveva davanti, sembrava Biancaneve. Capelli neri come l’ebano, pelle bianca come la neve e le labbra rosse come il sangue.
“Chi lo sa” disse vivacemente con una leggera punta di rammarico “Potrei perfino stupirti, Chione”
**
 
Appena quel suono acuto e trillante iniziò spalancò gli occhi alzandosi di scatto talmente velocemente che le sembrò di ricevere un pugno al centro dello stomaco, la vista le si appannò e nella bocca le si propagò un gusto acre che sapeva di vomito. Strizzò gli occhi mentre tirando giù qualche santo dal paradiso Rachel spegneva la sveglia di Hazel, l’unica che non l’aveva sentita e continuava a dormire beatamente.
“Brutta— sono le sette!” sbraitò la rossa sbattendo più volte le palpebre una volta accertatasi dell’ora improponibile “Ed è domenica!” aggiunse come per rimarcare quanto indecente fosse il fatto di una sveglia accesa.
Calypso, dal canto suo, si gettò nuovamente sul cuscino con un grande respiro e chiudendo gli occhi, quel sapore acre e nauseabondo ancora sulla lingua. Adesso che era sveglia si accorse che il suo letto sembrava essere una barchetta e la sua testa era stata assalita da saette di emicrania come se nella sua testa la sveglia stesse ancora suonando implacabile. Un tonfo la informò che anche Rachel aveva seguito il suo esempio rigettandosi fra le coperte speranzosa di riprendere il sonno interrotto, peccato che lei ormai fosse completamente vigile. Il cuore le batteva ancora forte per lo spavento e quella insopportabile ostruzione alla gola le faceva ribaltare lo stomaco. E il mal di testa, diamine se doloroso! Come se avesse sbattuto con la fronte contro qualcosa. Socchiudendo gli occhi spiò sul suo comodino dove stazionava la sua sveglia – furbamente disattivata la sera prima – segnare le sette e qualche minuto, i numeri spigolosi erano visibili nell’oscurità della stanza.
Improvvisamente, si accorse di avere la vescica piena. Sbuffò serrando gli occhi con la speranza di ignorare quel fastidiosissimo bisogno e si strinse ancora di più nelle coperte cercando una posizione che non le gravasse sulla pancia gonfia. Ma ormai il pensiero della pipì si era fatto pressante nella sua mente forte e doloroso quanto l’emicrania e combatterlo era assolutamente inutile. Strizzando gli occhi nel tentativo di mettere ben a fuoco la realtà si alzò lentamente dal letto abbandonando il calore delle coperte chiare; la prima cosa che notò fu che la sensazione di leggerezza che aveva provato per buona parte delle notte era sparita lasciando invece una pesantezza dolorosa come se qualcosa l’avesse appena investita, per contro il pavimento ondeggiava ancora un pochino ma meno. Forse era ancora la stanchezza sommata al frastorno per il brusco risveglio. Cercando le pareti con le mani (non voleva accendere la luce per svegliare le altre, anche se Hazel se lo meritava per non aver spento la sveglia e non essersene nemmeno accorta!) raggiunse la porta del bagno, l’aprì e si intrufolò dentro richiudendolo alle proprie spalle senza far rumore.
Subito dopo, seduta sulla tazza con le mutande calate, pensò che valesse la pena vivere anche solo per fare la pipì, specialmente quando l’avevi tenuta una notte intera: che sensazione meravigliosa!
Una volta esaudito il bisogno si lavò le mani e guardandosi allo specchio sopra il lavandino notò di aver l’aspetto di una straccia per pavimenti, aveva davvero un aspetto orribile. Anche le ossa le facevano male come se un tir le fosse passato sopra, senza contare la sensazione di nausea che le comprimeva lo stomaco e la gola. Si gettò l’acqua gelata sulla faccia e incastro le mani fra le ciocche annodate sulla testa, quando le tolse si portò via molte fili castani. Li guardò con noncuranza appoggiandosi con tutto il peso sul lavandino e strizzando gli occhi ancora una volta, quel mal di testa non riusciva a farla pensare.
Prese un grosso respiro e poi buttò fuori l’aria tutto in un colpo, ripeté la cosa più volte finché la vista non si snebbiò. Fatto questo lasciò la presa dal lavandino rizzandosi con la schiena, la spina dorsale scricchiolò, la maglietta si alzò lasciando scoperta un lembo di pelle chiara del ventre con le ossa dei fianchi sporgenti che sembravano sul punto di bucarla. Afferrò l’orlo con le dita e la tolse, sotto la pelle si vedeva il guizzo delle costole e dei piccoli muscoli.
Si fissò con un attenzione chirurgica allo specchio sfiorandosi con i polpastrelli della mano. Si toccò gli zigomi alti segnando una linea sulla guancia come se li volesse ancora più affilati, passò il dito lungo il collo fino alla clavicola sporgente, aveva le spalle ossute e i seni piccolissimi e bianchissimi, si intravedevano le costole ad ogni respiro e le gambe erano lunghe e  affilate come le zampe di un ragno. Passò la mano sul bacino sentendolo più gonfio del solito e poi guardò con criticità le cosce.
Erano ancora troppo grosse.
Si mise di profilo sempre con la mano sulla pancia e studiò la curva della sua schiena, trattenne il respiro facendo ritirare la pancia e marcando ancor di più le costole. Si morse il labbro mentre dal naso buttava fuori tutta l’aria. Era così che avrebbe dovuto essere, era così che sarebbe diventata. Ci sarebbe riuscita, a qualsiasi costo. Si studiò i polsi delle mani così fini dai sempre fin troppo fragili, fatti di un qualche cristallo. Accucciandosi tirò fuori la bilancia e ci salì per guardare a che punto fosse.
Quando vide il numeretto spigoloso il respiro le si mozzò nei polmoni.
47.8
Spalancò gli occhi scendendo e allontanandosi, scuoteva la testa dicendosi che non era possibile. Era semplicemente impossibile. Attese un po’, poi salì ancora e quando il risultato fu lo stesso sentì un grido bloccarsi in gola e gli occhi inumidirsi. Si sedette per terra prendendosi la testa con le mani, aveva voglia di urlare e singhiozzare e sbattere la testa contro il muro. Si morde le labbra a sangue per non farlo, come può essere diventata improvvisamente così cicciona? Per forza aveva quella pancia e quelle cosce da tacchino. Era impossibile, fino al giorno prima era 46 chili, come aveva fatto a prendere più di un chilo in una notte soltanto?
Aveva cenato, e dopo le avevano fatto mangiare la pizza. La pizza. Quante calorie ci sono in una sola fetta di pizza? Tante, troppo e ora erano lì a manifestarsi in quella ciccia sporgente. E i due bicchieri di alcool che aveva bevuto. Gesù, perché si era messa a bere? Eppure lo sapeva bene quanto potesse essere calorico e dannoso per il fisico, si era documentata. Stupida, stupida, stupida. Come poteva essere stata così incosciente? Aveva rovinato tutto il lavoro che stava facendo. In una sola notte. Iniziò a piangere desiderando di mettersi a correre e correre finché nono stramazzava al suo priva di energia, cancellare quel numero così alto e insopportabile e... voleva vomitare.
Devo vomitare.
Si asciugò le guance con il dorso della mano, si strofinò il viso e gattonò verso la tazza del wc.  Non aveva mai vomitato volontariamente e non sapeva nemmeno bene come si facesse, ma quella era un’emergenza e doveva fare qualcosa. Si sporse verso il cesso e fissò l’acqua, poi  si portò l’indice e il medio dentro nella bocca appoggiandoli sulla lingua e li fece scorrere verso la gola. Era una sensazione bruttissima, le veniva quasi difficile respirare. Quando toccò la gola strinse gli occhi e spinse verso il basso con la punta delle dita, fu sgradevole e qualcosa le si mosse nello stomaco. Si stuzzicò la gola con le dita finché un forte conato non la fece quasi soffocare e sfilò velocemente le dita protendendosi ancor di più verso la tazza. Vomitò una sostanza disgustosa e salivata dall’odore nauseabondo, quasi bastò quella a farla rimettere un’altra volta. Ma aveva lo stomaco vuoto, ormai era troppo tardi.
Aveva già assorbito tutte le calorie.
La faccia si deformò in una smorfia orribile mentre riprendeva a piangere e questa volta senza nemmeno preoccuparsi di far piano, aveva ancora in gola quel saporaccio orribile e la sensazione di qualcosa che la soffocava e sul mento un rivolo della sostanza appiccicosa che aveva rimesso ma non se ne curò, si sporcò la faccia con le lacrime e quella saliva mentre si passava le mani sul volto per nascondere gli occhi. Si sentiva così ripugnante e in colpa da non riuscire a pensare, c’era solo un ceco terrore nella sua mente. Era come se la avessero tolto ogni forza. Era la stessa sensazione che aveva provato anche alla clinica specializzata ma qui era peggio. Lì aveva ripreso il peso non per colpa sua, ma dei medici che la ingozzavano in ogni modo come un maiale al macello, invece qui era stata lei. Nessuno l’aveva costretta a mangiare, nessuno l’aveva attaccata a degli integratori. Era colpa sua.
Era colpa sua se in quel momento era una balena piaggiata. Era stata lei a buttare in una solo sera tutti quei mesi di controllo, non aveva saputo controllare. Si era ingozzata come un’animale. Singhiozzò più forte con le spalle ossute che tremavano e le labbra martoriate mentre le stringeva negli incisivi per non urlare. Era una persona orribile, una persona grasse e orribile e incapace di controllarsi.
Quasi non si accorse della porta del bagno che si apriva finché non sentì la compagna di stanza lanciare un gridolino sorpreso facendola sussultare più forte.
“Calypso!” la chiamò Rachel immobilizzata al tuo posto “Va tutto bene?!”
Domanda stupida, no che va tutto bene, sono una cicciona obesa e sono ingrassata ed è colpa mia, sono una stupida obesa.
Si portò le mani al volto per asciugarsi gli occhi dalle lacrime nel tentativo di apparire meno miserabile ma l’unico risultato fu quello di sporcarsi ancor di più la faccia.
“M-m-i v-vie-vien-e d-da... da vom-i-mitare-re—“ singhiozzò traballante inciampando in ogni sillaba.  Avrebbe tanto voluto vomitare tutto quello schifoso grasso che le appesantiva il corpo.
La rossa spalancò gli occhi e si affacciò nuovamente nella stanza chiamando Hazel a gran voce, poi si accucciò accanto a lei cercando di tirarle dietro i capelli.
“Va tutto bene, non preoccuparti” cercò di rassicurarla a disagio, la vista di quel viso sporco di lacrime e vomito la turbava tantissimo, soprattutto perché aveva gli occhi così rossi che sembravano sul punto di sciogliersi in sangue. “Se devi vomitare, fallo. Meglio fuori che dentro”
“Che succede?” biascicò Hazel appoggiandosi assonnata allo stipite della porta ma appena vide l’amica accucciata con la testa nel cesso divenne immediatamente vigile. “Cal, cos’hai?”
“Le viene da vomitare” rispose al suo posto Rachel continuando a pettinarle i capelli all’indietro con le dita.
“Buon Dio!” esclamò Hazel con un lampo di comprensione negli occhi “Cosa l’avete fatta bere?!” e subito dopo sbadigliò.
“Ma niente” sbottò Rachel. Calypso intanto continuava tremare per quanto si stesse sforzando di trattenersi ma quel numero comparso sulla bilancia appariva davanti a lei ogni volta che sbatteva le palpebre e una voce maligna le canticchiava nelle orecchie ‘cicciona’ in mille tonalità diverse; dapprima acuto, poi strascicata, in maniera beffarda, veloce e lapidaria, delusa, robotica, sprezzante. Quella di suo padre.
Ciicciooona.
“E’ strano che le venga da vomitare adesso” sentì dire dalla rossa “Solitamente non passa tutto quel tempo”
Hazel annuì come se stesse ricordando qualcosa. “Hai già vomitato?” le domandò.
Annuì, non aveva neanche un respiro di voce per parlare. Se avesse aperto lo bocca, lo sapeva, avrebbe urlato fino a svenire.
Ciicciooona.
“Ed era... ehm, consistente?”
Scosse la testa, aveva vomitato per lo più saliva e succhi gastrici.
“Forse è solo sfinita” ipotizzò Rachel continuando ad accarezzarle la testa “Magari deve mangiare qualcosa”
“Possiamo andare a fare colazione” concordò Hazel.
A quelle parole la mente di Calypso fu letteralmente invasa dal panico e smise di pensare lucidamente. Non poteva andare a mangiare, era già abbastanza obesa così, non doveva mangiare, non doveva mangiare, non doveva mangiare, non doveva mangiare! La sola idea il suo stomaco faceva mille capriole e la sgradevole sensazione dei conati tornava alla sua gola bloccandole il respiro come se stesse per vomitare ancora. Era soffocante. Si sentì claustrofobica in quel bagno.
“No” ma aveva la voce talmente roca che dovette tossire e ripeterlo “No” la fissarono perplessa e lei cercò di spiegarsi “L’idea del cibo mi fa tornare la nausea” il che era del tutto vero. La sola idea del profumo della brioche la faceva rimettere.
“E se fosse un’influenza?” domandò retoricamente la più piccola “Forse si è presa un virus. Non lo so...”
“Bisognerebbe chiamare la mamma di Percy” costatò nervosamente l’altra.
“Sei proprio sicura di non voler qualcosa? Magari potrebbe aiutare...” la guardava con gli occhi dorati ricolmi di preoccupazione come se fossero sorelle. Fu un pensiero che la fece stare sia bene che male allo stesso tempo, era da tanto che qualcuno non la guardava così.
Scosse la testa con forza.
“Con la nausea?” le domandò Rachel “Se si è attenuata credo che tu debba tornare a letto. Ma prima è la caso di pulirti un po’ il viso”.
L’acqua gelato fu un po’ un sollievo anche se la fece rabbrividire ma almeno si tolse quei succhi gastrici dalla faccia, si risciacquò anche la bocca per scacciare quel saporaccio. Quando Hazel le porse la sua maglia del pigiama si accorse di essere stata per tutto quel tempo solo negli slip e abbassò lo sguardo vergognandosi tantissimo. Non era abituata a girare senza vestiti, la nudità la facevano sentire esposta; nei vestiti poteva nascondersi.
“Cosa facciamo, noi?” chiese Rachel mentre Calypso tornava fra le lenzuola, desiderava tirarle fin sopra la testa e nascondersi lì sotto per sempre.
“Scendiamo, tanto vale” rispose l’altra “E magari passiamo per l’infermeria”
Quando le due compagne di stanza finirono si sistemarsi e uscirono dalla camera, lei ricominciò a piangere. Si promise che non sarebbe mai successo mai più, che avrebbe rimediato e tutto si sarebbe risolto, avrebbe saltato sia il pranzo che la cena e avrebbe fatto un po’ di sport.
Voleva solo scomparire.
 
**
Mentre camminava con passo spedito e allegro per i corridoi, Piper si intrecciava distrattamente una ciocca di capelli e un sorriso timido le incurvava le labbra verso l’alto. Sentiva che quella era la domenica giusta, sicuramente suo padre le aveva spedito qualcosa.  Forse le aveva scritto che aveva prenotato una vacanza solo per loro due lontano dai paparazzi e tutti i problemi. Sicuramente era così.
Pensò distrattamente che se avesse trovato quella lettera lo avrebbe perdonato, gli avrebbe perdonato tutti quei mesi di silenzio e tutto sarebbe tornato a posto.
Lo pensava con quel bellissimo sorriso timido e le dita che formavano una piccola treccina quando alzando gli occhi mise a fuoco una figura alla reception.
Una ragazza dalla camicetta bianca e una rigogliosa chioma  nera e lucente parlava con la segretaria inclinando la testa di lato di tanto in tanto. Era di spalle, ma non le ci volle molto per riconoscerla.
Proprio in quel momento la ragazza si voltò e sembrò notarla anche lei da come sogghignò. Con passo sicuro la raggiunse, le labbra rosso scure distese in una finta espressione benevole.
“Vedo che anche tu sei ancora qui” le cinguettò quando le fu vicino “McLean”
“Boreade” costatò stringendo i pugni “Sei tornata”
Chione fece una smorfia come se avesse appena ingoiato qualcosa di schifoso come un cavolino di bruxells. “Non che io ne sia felice, l’ho già detto al piccolo piromane”
Piper spalancò gli occhi rendendosi conto di chi si riferiva.
“Sì, anche lui ha fatto quella faccia sconvolta” la informò noncurante, poi la superò altera iniziando a salire la scale “Ci vediamo”
Lei rimase qualche secondo immobile a fissare la reception con sguardo smarrito, poi capì cosa fare e si girò tornando indietro. Doveva cercare Leo.
 
**
 
 
 
 
NDA:
Questo capitolo doveva essere più lungo, ma ho pensato di tagliarlo in due perché... be’, qui la situazione si fa un po’ più seria e non vorrei appesantire troppo la narrazione. Non lo so, avendo messo il rating arancione non vorrei andare troppo sul pesante, anche perché questa storia dovrebbe avere anche un contorno fluff.
E nulla, ditemi voi, qui compaiono solo i nostri due protagonisti alla fine. E non lo so, mi piacerebbe un pochino sapere anche l’idea generale che vi siete fatti su tutti i personaggi. Lo sapete, no, che sono paranoica e ogni tanto ho davvero la sensazione di star scrivendo una grande stupidata e/o di star parlando in maniera del tutto inappropriata.
Mi dispiace l’ora tarda ma con la scuola sono iniziati anche i mille impegni c_c
E nel caso a qualcuno interessasse, ho anche pubblicato una piccola one-shot sulla Caleo, la trovate nel mio profilo se la volete^^
Spero di leggere qualche vostro commento,
con affetto
Hatta

   
 
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