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Autore: Alexis Laufeyson    25/09/2016    2 recensioni
[DURING AVENGERS]
Sigyn è nata diversa.
È una figlia non voluta e mai amata, porta un nome che non vorrebbe le appartenesse, eppure sogna lo stesso. Conosce il norse arcaico, la mitologia nordica, ed è cresciuta leggendo le profezie della Völva per compensare alla condanna della cosa che le scorre vermiglia sotto la pelle.
Lei non crede in niente, e crede in tutto, e forse è per questo che accetta un contratto con lo S.H.I.E.L.D. -forse vuole solo trovare qualcuno che le somigli.
Di certo, però, non si aspetta di trovarlo negli occhi di sangue di un mostro.
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Tentando di mandar via il nodo alla bocca dello stomaco, la piccola Blóm -di nuovo ragazzina, piena di dubbi e sgomento- mosse qualche passo avanti con esasperante lentezza, lo sguardo ostinatamente puntato sull'unica sedia nei paraggi, proprio lì, di fronte al ponte che collegava l'anello del pavimento alla gabbia, e ad ogni respiro avvertiva le iridi elettriche di Loki sulla nuca… che stupida, aveva sperato non se ne accorgesse.
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Loki, Phil Coulson, Sigyn, Thor, Un po' tutti
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Eins og mig

 




A Sigyn non gliel'avevano mai detto che la vita può sempre prendere pieghe inaspettate.
Lei era nata strana, e tanto bastava perché mamma e papà si limitassero a guardarla di sottecchi, e a mormorare contro di lei, e contro i suoi capelli come piume di corvo che fra le genti nordiche è quasi come essere la pecora nera del gregge, specialmente se in famiglia sono tutti mezzi albini. Era un'aria opprimente, quella che aveva sempre respirato tra le quattro mura di casa propria, dove ovunque c'erano dita puntate e sibili velenosi che la costringevano a rifugiarsi in camera e cercare conforto tra libri, tanti, tanti libri pieni di simboli sconosciuti, e racconti che richiamavano tempi andati quando i temporali erano vivi e ad essere come lei erano in tanti.
Leggeva i racconti di Dei e demoni divorandoli pagina per pagina, mentre sotto la pelle bianca di ragazzina scandinava vedeva pulsare qualcosa di rosso che, di sicuro, era ben lungi dall'essere sangue.
Non ne conosceva l'origine, ci era nata e basta, ma sapeva benissimo di cosa la rendesse capace.
A diciassette anni, l'adolescente dagli occhi di giada si nascondeva dietro occhiali spessi e dentro felpe extralarge per passare inosservata, ancora inconsapevole che, oltre al cervello, sotto la frangia troppo lunga c'era una rara bellezza del nord.
Era nata e cresciuta a Reykjavík, tra i ghiacci e la neve, e non conosceva il calore di quella che chiamavano 'estate', o almeno non nel senso più stretto del termine. Passava ore sprofondata in una vecchia poltrona e avvolta da un coperta patchwork decisamente kitch ad imparare le rune e le storie di Thor, e Odino, e a leggere le profezie della Völva assieme alla Lokasenna, dizionario e matita alla mano per riconoscere e appuntare.
Il suo primo fidanzato l'aveva soprannominata "blóm", fiore, perché diceva che anche lei sarebbe sbocciata, ma tanto dopo un mese quel nomignolo non era più valso nulla, e così Sigyn 'Blóm' Iwaldidóttir continuava a rintanarsi nella solitaria sicurezza della carta e dell'inchiostro vecchio.
Sapeva tante cose, Sigyn, ma a mamma e papà importava più di avere una figlia come tutte che non un piccolo genio, e così, a vent'anni, finita la scuola, era scappata di casa per poter studiare all'estero ciò che le riusciva meglio, perché dire "Ciao, sono Sigyn e so tradurre il norse arcaico come la mia lingua madre" suonava meglio di "Ciao, sono Sigyn e sono andata via perché la mia famiglia mi odia" -e così era finita a New York, dove eri fortunato se riuscivi a trovare un po' di silenzio alle quattro del mattino.
Stabilitasi in un piccolo appartamento di Brooklyn, tra la trentacinquesima e la Snyder Ave, aveva trovato un lavoretto come cameriera in un pub al centro di Manhattan (grazie anche al suo essere "un'autentica gnocca nordica", per dirla con le parole del suo collega preferito), ed era entrata all'università con il proposito di uscirne diversa.
In tutto.
A volte, chiusa nella propria camera piena di poster e scaffali, si guardava le mani e cercava, con la forza dello sguardo, di far sparire quella cosa che le scorreva nelle vene e si intravedeva appena, senza successo.
Era parte di lei, forse era ciò che la definiva, ma avrebbe tanto voluto che non fosse mai esistita, perché se il prezzo della diversità sono gli sguardi delusi e disillusi del tuo riflesso nello specchio allora forse non vale la pena pagarlo.
Per il resto, conduceva una vita abbastanza monotona e le andava bene così. Si alzava la mattina, andava all'università, pranzava, lavorava, e poi tutti a casa a bere cioccolata calda e controllare la posta.
Ogni tanto, la sera, quando usciva per buttare la spazzatura, le capitava di incontrare il tizio del piano di sopra: un certo Steve Rogers1 -tanta succosa carne americana e due occhi blu da mozzare il fiato. Lui era gentile, la salutava, e, se capitava, l'aiutava persino a portare su le buste della spesa.
A Sigyn Steve piaceva, e non perché fosse bello (anche se di sicuro non era da buttar via), ma per il suo essere sempre così cordiale e simpatico persino con una che, all'inizio, a malapena sapeva mettere due parole una dopo l'altra e che rispondeva 'Takk' e 'Nei' invece di 'Thanks' e 'No'.
Non che fosse ignorante -conosceva bene l'inglese, e lo capiva- ma dopo ore passate con il naso infilato tra le rune era difficile conciliare tre lingue diverse, e allora le sue labbra optavano sempre per la propria lingua madre, creando un buffo risultato fatto di suoni messi a caso e che veniva fuori come un "Hello, Steve, hvernig ert þú?2"
Per due anni filati -salvo quell'unica volta in cui il collega del venerdì l'aveva invitata a cena- nella sua vita da finta americana non era mai successo nulla di eclatante: era una ragazza come tante che veniva da un paese lontano e studiava per diventare qualcuno, una che si faceva illusioni sul tizio incontrato la mattina sull'autobus, che beveva il tè col limone e aveva l'abbonamento settimanale al gratuito arrossire. Non era nessuno, una macchia tra tante, eppure dentro di lei albergava qualcosa a cui non sapeva dare un nome che non sapesse troppo di falsità, o sogni di bambina.
E forse fu proprio per quello che, la mattina del quindici febbraio duemiladieci, un tizio in nero che sembrava appena uscito da Matrix (e che con l'agente Smith ci prendeva parecchio) aveva bussato alla porta del suo appartamento, con gli occhiali da sole a coprirgli gli occhi, altrimenti di un bellissimo azzurro cielo, nonostante fuori stessero 'piovendo cani e gatti' -come amavano dire gli anglofoni.
L'agente Phil Coulson -così si era presentato quell'uomo affabile sulla quarantina- le aveva cordialmente stretto la mano, e altrettanto cortesemente le aveva chiesto il permesso di entrare, anche se più per pura educazione che per altro, visto che aveva già entrambi i piedi dentro all'appartamento.  Le disse di lavorare per la "Strategic Homeland Intervention, Enforcement and Logistics Division", altresì detta S.H.I.E.L.D., e che lei doveva assolutamente seguirlo; non una spiegazione, non un indizio, lei doveva e basta. Le aveva dato una busta chiusa dicendole "può aprirla in macchina, se desidera", e cosa puoi controbattere a uno che ha tanto di permesso governativo firmato dal presidente per poterti prelevare e portare chissà dove?
La busta conteneva un fascicolo grosso come quella metà della tesi che aveva appena finito di buttare giù, e le sarebbe quasi parso curioso e buffo in quella copertina blu decorata da un'aquila stilizzata, se non fosse stato che, all'interno, aveva trovato la storia della sua vita, compreso il nome del fidanzatino alla Leikskóli3 di cui non ricordava nulla, il tutto corredato da una sua 'bellissima' foto mentre serviva a un tavolo. Eppure, a spaventarla non fu tanto la presenza e testimonianza di eventi di cui lei non aveva neanche più memoria quanto la pagina finale dove si riportavano le sue 'peculiari abilità telecinetiche e di manipolazione degli elementi'.
Porco Loki benedetto!
E ciao ciao propositi di normalità.
Si era appoggiata all'agente Coulson per non rischiare il collasso, pallida come un cencio e con la vista appannata -e quel giorno aveva le lenti, quindi non c'era storia- ed era entrata in uno di quei giganteschi grattacieli di Lower Manhattan, dove, all'ultimo piano, l'attendeva un'altra serie di Neo capitanati dalla copia orba di Morpheus… se solo non si fosse sentita come un condannato al patibolo, forse si sarebbe persino messa a ridere.
«Ottimo lavoro, agente Coulson, ora, se non vi dispiace, vorrei parlare da sono con la signorina Sigyn.» Aveva detto il suddetto tizio di matrixiana memoria, e neanche aveva usato il cognome… per uomini pragmatici e forniti di poca diplomazia, d'altro canto, 'Iwaldidóttir' è decisamente troppo lungo.
E così si era ritrovata, nel tempo di un battito di ciglia che tuttavia era durato una vita intera, a parlare con un uomo di cui non sapeva niente e che pure conosceva tutto di lei. Nick Fury le aveva promesso protezione, di pagarle gli studi e, soprattutto, di aiutarla a controllare quella cosa in cambio del suo arruolamento nell'associazione governativa più stramba dell'intero pianeta. «Avremo bisogno delle tue abilità, prima o poi, ma ora come ora ci servono le tue conoscenze.» Le aveva detto, con voce roca e tono che non ammetteva repliche, ma a Sigyn non erano servite né moine né nulla per farle prendere la decisione migliore della propria vita.
E così aveva firmato un contratto di lavoro come non avrebbe mai sperato e, finalmente, aveva dato un nome alla ragnatela rossa sotto la pelle, arrendendosi ad una consapevolezza che, in fondo, le aveva sempre bussato alla porta del cervello.
Seiðr.
Per i nordici 'il più grande potere', per lei, semplicemente un'arma di riscatto.
 

 
***
 

«O no, Phil, ti prego, ti supplico, non puoi farmi questo!» Sigyn, traballante sul tacco dodici delle scarpe buone, arrancava dietro l'agente Coulson, incredula e disperata per ciò che le era stato appena ordinato di fare.
Era il venti aprile duemiladodici, fuori gli uccellini cantavano e il sole splendeva gioioso, come a prendersi beffa del caos che negli ultimi giorni era degenerato all'interno dello S.H.I.E.L.D, i cui operatori, spie e tecnici non facevano che andare da una parte all'altra come uno sciame impazzito di api laboriose, nel tentativo di evitare una catastrofe di dimensioni mondiali da far invidia ai migliori film fantascientifici.
Dopo due anni passati a tradurre testi arcaici, e dopo aver scoperto che Steve il-vicino-di-casa Rogers era in realtà più vecchio di sua nonna e nient'altri che Capitan America, Sigyn aveva creduto di aver visto tutto, e di non doversi più sorprendere di niente: era anormale tra gli anormali, quindi a che pro sentirsi fuori posto? Dopotutto, era bello scoprire di non essere l'unica strana al mondo.
Quella vita frenetica tutto sommato le piaceva, l'elettrizzava l'idea di collaborare al bene comune, persino se implicava dover passare la notte in bianco per conto di Fury o chi per lui. Il suo mentore -e incubo personale- era Phil, e a lui si rivolgeva in caso di bisogno. E proprio lui, una bella sera, le aveva detto di rispolverare la Lokasenna e compagnia, perché, quel giro, dio era davvero sceso in terra.
E non un dio qualunque.
A sentire il nome 'Thor', a Sigyn era venuto un infarto. A vedere il biondo asgardiano in carne ed ossa che la salutava con un baciamano rispettoso, aveva rischiato seriamente il collasso di metà degli organi vitali.
Era riuscita a sopravvivere al Dottor Banner e alla storia del suo 'amico verde' -ma d'altra parte, chi non poteva non amare Bruce?- e anche all'onda mortale di cinismo combinato che erano Barton e la Romanoff. Aveva persino imparato a trovare simpatico Stark e il suo ego smisurato che si traduceva in battute al limite del sopportabile e in una camminata da sovrano indiscusso dell'universo, ma restare nella stessa stanza con la personificazione vivente della sua laurea era davvero chiedere troppo.
Perciò, quando aveva fatto la propria entrata in scena anche il fratellino psicopatico del Tonante, con i suoi occhi verdi e il suo ghigno da lupo, Sigyn aveva invocato l'intero Pantheon nordico e supplicato Odino affinché le risparmiassero anche la sua vista.
Se Thor, a discapito dell'immortalità, era un'inguaribile ingenuo e persino una piacevole compagnia, Loki le incuteva timore persino dalla telecamera -e non perché, secondo la mitologia, aveva partorito lupi, cavalli e demoni, no, sarebbe stato il minimo- ma per l'apparente noncuranza con la quale affondava la prigionia e la sconfitta. Il fatto di essere una formica sotto la pericolosa ombra di uno stivale non sembrava scalfirlo, affatto.
E Sigyn si guardava le mani, guardava il Seiðr, e sentiva lo stomaco annodarsi.
«Ordini dall'alto.» Coulson alzò il dito indice e puntò al soffitto, continuando a camminare senza degnarla di uno sguardo o di una parola di conforto, pur consapevole di star compromettendo, con quel compito, la sua sanità mentale.
Sigyn si prese il viso tra le mani: «È la mia laurea, accidenti! Non posso fare la guardia alla mia laurea!» Protestò, mentre scendevano l'ennesima rampa di scale e i tacchi ticchettavano fastidiosamente sul metallo: «Fury non può chiedermi questo!»
Coulson si passò una mano tra i capelli unti di gel, ma non le rispose.
«Sai che ha partorito un cavallo a sei zampe?» Azzardò, nella vana speranza che l'agente nutrisse un minimo di compassione per lei e decidesse di sollevarla da quell'incarico assai poco gradito, ma senza successo. Phil continuava la propria strada verso -a proposito, dove stavano andando?- e sembrava deciso a non ascoltarla: «Dubito che quel mito sia vero.» Fece, mentre sfogliava distrattamente una cartellina rivestita di blu: «Ma se è per la tua virtù che temi, è rinchiuso in una cella a prova di Hulk, quindi sarai al sicuro.»
«E non pensi alla mia sanità mentale?» Sigyn era sul punto di una crisi di nervi, e persino la cosa pareva aver raggiunto il limite massimo dell'esasperazione.
Si fermarono di fronte ad una larga porta blindata con serratura a riconoscimento impronte digitali, accanto alla quale un cartello giallo brillante urlava di far attenzione, e solo lì Phil si voltò per posare gli occhi azzurri su di lei: «Eseguo solo gli ordini, principessa Sissi.» E le schiaffò la cartella in mano.
Principessa Sissi… Sigyn provò l'impulso di fare marcia indietro e ridurre Stark ad un arrosto di 'genio miliardario playboy filantropo' per quel ridicolo soprannome, eppure, atterrita e ormai rassegnata, si limitò a sospirare e a chiedere indicazioni riguardo i successivi sessanta minuti.
«Baby-sitting a distanza.» Fu l'unica risposta che ricevette, prima di ritrovarsi, sola e spaurita, in una stanza con vetro a specchio, in compagnia di un sociopatico maniaco con desideri di grandezza.
Loki stava passeggiando in tondo per la propria cella, le mani giunte dietro la schiena e il passo lento di chi misura ogni singolo centimetro con meticolosa attenzione: era straordinariamente calmo, quasi a proprio agio nella solitudine che permeava l'aria, e nonostante la cercasse, Sigyn non riuscì a trovare nelle sue movenze, nei suoi tratti affilati, nella posa regale la presunzione di conoscenza e la voglia di scappare tipica dei prigionieri. Il Dio degli Inganni sembrava quasi contento di essere lì, e questo le fece paura.
Tentando di mandar via il nodo alla bocca dello stomaco, la piccola Blóm -di nuovo ragazzina, piena di dubbi e sgomento- mosse qualche passo avanti con esasperante lentezza, lo sguardo ostinatamente puntato sull'unica sedia nei paraggi, proprio lì, di fronte al ponte che collegava l'anello del pavimento alla gabbia, e ad ogni respiro avvertiva le iridi elettriche di Loki sulla nuca… che stupida, aveva sperato non se ne accorgesse.
Il Seiðr gorgogliava come un fiume, assieme al nervosismo che non sembrava disposto ad andarsene; avrebbe voluto trovare il coraggio di alzare lo sguardo e cogliere l'occasione di studiare il suo mito di bambina, il bugiardo tra i bugiardi, la lingua d'argento, ma quanto di quel Loki corrispondeva a verità? Ormai, tutti i suoi libri erano diventati più menzogna di quanto non avesse mai creduto.
 «Chi sei?» La sua voce era fredda, e tagliente, e Sigyn trasalì nel sentirla. Finse indifferenza, ben consapevole di risultare alquanto ridicola agli occhi di un dio che di bugie ne sapeva sicuramente più di lei, ma accavallò lo stesso le gambe e aprì il fascicolo, scegliendo di adottare la 'filosofia Coulson' e non rispondere.
«Ti ho fatto una domanda.» Scandì Loki, le labbra serrate con evidente fastidio, gli occhi che lanciavano saette.
Sigyn strinse le dita bianche attorno al dossier quasi fosse un'ancora, e deglutì, e poi sospirò, e poi deglutì ancora… e sperò che la gabbia fosse davvero resistente come Fury aveva assicurato, perché altrimenti non avrebbe saputo come controllare il Seiðr, sempre più insistente, rumoroso, che si contorceva sotto la pelle come un serpente.
Una volta, ricordò, aveva fatto esplodere la finestra della cucina in un attacco di panico, mentre papà Iwaldi la inseguiva per la casa con la mano levata per 'darle il resto'.
Aveva solo fatto cadere un vaso.
«Potrei schiacciarti come un insetto molesto, insulsa ragazzina, se lo desiderassi.» La voce del dio era roca e piena di disprezzo, mentre si avvicinava pericolosamente al vetro, minaccioso, letale come un leone rinchiuso: una sola falla, e potrebbe liberarsi. Allora come scapperesti?
Fu in quel momento, forse più per paura che per altro, che Sigyn alzò lo sguardo per vedere il volto di Loki per la prima volta: appuntito, scavato, bianco come la neve; i suoi capelli erano lucidi come il manto di un corvo, e le sue iridi brillanti erano cristalli di ghiaccio.
Non era bello, no -bello era Thor, con i suoi occhi color del mare e i capelli di sole. Bello era Steve, e il suo profilo greco- tantomeno affascinante -una parola che si addiceva a Stark, non di certo al lygari 4- eppure c'era qualcosa in lui che la catturò, oltre gli abiti strani, oltre i tratti e la posa di principe, oltre anche la bestia sanguinaria e smaniosa. Oltre, e basta.
Aggrottò le sopracciglia, ascoltando quella variazione di aria, e tempo, e spazio che la chiamava e l'attirava a sé, e che probabilmente persino Loki avvertiva, perché ora aveva dischiuso le labbra, e la fissava.
Sigyn posò la cartellina a terra, e si alzò, la testa inclinata, la mente che le gridava gli insulti peggiori e le intimava di tornare indietro, che era pericoloso, che non c'era nulla per cui valesse la pena rischiare.
Ma cosa vuoi saperne tu? Blóm -questa volta bambina, infante piena di sogni- scacciò via la pulce fastidiosa della coscienza, e continuò ad avanzare fino a che non si ritrovò faccia a faccia con l'Ingannatore. La superava di molto, alto e flessuoso, completamente diverso da colui che ancora si ostinava a chiamarlo fratello, ma Sigyn riuscì lo stesso ad allungare la mano all'altezza del suo viso, e poggiò il palmo sul vetro. Il Seiðr le colorava la pelle di bagliori vermigli, e creava arabeschi ove la pelle incontrava l'invisibile muro della gabbia.
Loki la raggiunse poco dopo, incredulo, forse senza davvero volerlo, e con le dita cercò di sfiorare le sue: «Chi sei tu?» Chiese, un'altra volta ancora, e Sigyn sollevò il mento per poterlo guardare negli occhi. Erano limpidi, specchi di una vita passata nell'ombra, raccontavano di speranze dissolte nel vento, e di castelli d'orgoglio e dignità ormai in macerie; c'era una vita nata e vissuta nella bugia dentro di essi, ricordi felici offuscati dalla rabbia di non essere mai stato amato abbastanza. Poteva vedervi riflesso il proprio passato, tutto ciò che l'aveva segnata: disprezzo, dolore, il desiderio di avere di più, più affetto, più amore, più tutto.
Erano occhi troppo tristi per appartenere ad un criminale.
Dalle dita di Loki, ora si propagavano fili di Seiðr smeraldini, e Sigyn sentì gli angoli delle labbra sollevarsi, in un misto di sorpresa e genuina pena. «Eins og þú.5»
Come te.
Ha davvero tanta importanza l'immortalità di un dio di fronte ad un battito di ciglia, se puoi vedere il tuo riflesso?
«Come me?» Loki rise una risata amara, e mutò sotto i suoi occhi nel figlio maledetto di una stirpe dannata -pelle di ghiaccio, e occhi di sangue: «Con quale pretesa ti compari al figlio di Laufey?»
Sigyn fece scorrere lo sguardo sui solchi delle sue braccia, del suo volto, sulle iridi liquide di mostro e carnefice… di bimbo lasciato a morire perché troppo piccolo, perché vergogna, perché diverso. E più del disgusto, più del biasimo, provò compassione.
«Eins og mig.6» Ripeté, avvertendo il Seiðr di Loki pulsare potente a ritmo del proprio.
Come me.
Loki socchiuse le palpebre bluastre sugli occhi di plasma: «Io sono un mostro e un assassino, stupida midgardiana, ho ucciso mio padre e la tua gente, cos'hai da sorridere?»
E Blóm -dolce, ingenua Blóm- si specchiò nel sangue: «E io? Tu sai che sono io, Laufeyson
Ék er skrímsli eins og þú.7
 

 
***
 
 
«Ho saputo che hai parlato con Loki.»
Thor l'aveva fermata quella stessa sera in un corridoio deserto poco distante dalla sala delle armi, ed ora la fissava con occhi grandi e lo sguardo di un bambino, probabilmente alla ricerca di qualche certezza che i secoli alle spalle non gli avevano ancora dato.
Sigyn annuì, e si sistemò la gonna della divisa.
Un'ombra scura scese sul volto del Tonante: «Anche tu lo reputi un mostro?»
Sorrise, allora, e gli mostrò il palmo aperto. Sotto la pelle pallida, il Seiðr si vedeva appena: «Eins og mig.» Rispose, e quando il dio la guardò senza capire, Sigyn alzò le spalle: «Non sono forse un mostro anch'io?»

 
 




1Mi sono presa questa piccola licenza a fin di trama, e spero che non me ne vogliate. 'Capitan America-Il primo vendicatore' è uscito nel duemiladodici, quindi suppongo che per il movieverse il risveglio del nostro caro Capitan Ghiacciolo sia avvenuto in quell'anno, ma per motivi che spero capiate ho deciso di anticipare l'evento di qualche anno.
2"Come stai?" in islandese.
3Il corrispondente del nostro asilo in Islanda.
4"Bugiardo" in islandese.
5"Come te" in islandese.
6"Come me" in islandese.
7"Sono un mostro come te" in islandese.


 
*Angolo dell'autrice:*
È stato un parto trigemellare questa storia, lo giuro, ma mi ronzava in testa da un po', e chi sono io per dire di no alla sacra vena ispiratrice?
Conosco zero di mitologia nordica e tantomeno del comicverse, e ammetto che se non fosse stato per alcune stupende fanfiction di questo fandom non avrei mai accettato appieno Sigyn come compagna di Loki, eppure eccoci qui, con un personaggio alternativo rispetto all'originale ma che ho cercato di inserire al meglio in una One-shot di poche pretese, e che spero vi piaccia lo stesso.
Mi rendo conto che, probabilmente, Loki risulti un po' OOC, ma ho cercato di scavare nel suo passato e nella sua mente, e ho pensato che per un bambino cresciuto nella bugia e che comunque è stato sempre preso in giro dai coetanei per il suo essere mago, trovare qualcuno di simile a lui sia qualcosa ai limiti dell'utopistico -e lo stesso vale per Sigyn. Oltretutto sono troppo innamorata di lui per arrendermi alla sua completa cattiveria, quindi anche se non è propriamente quello che si definisce 'un angelo', faccio parte di quelli che reputano il suo attacco a Midgard un ordine di Thanos.
Come sempre, vi ringrazio per essere arrivati fin qui, e vi invito a lasciare una recensione e fare contenta una piccola Laufeyson selvatica. <3
 
-Alexis


 
 
 
 
   
 
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