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Autore: yua    26/09/2016    2 recensioni
Tesurou Kuroo ha una gran passione per le cose usate, per quelle che tutti gli altri considerano ormai senza valore.
Le va a cercare, passa giorni e giorni a cercare di rimetterle a posto ed è una cosa che lo riempie di soddisfazione.
Kenma Kozune è un ragazzino che ha tanto l'aspetto di quelle cose che affascinano tanto Kuroo.
Genere: Fluff, Generale, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Kozune Kenma, Tetsurou Kuroo
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
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allora, note iniziali probabilmente inutili: questa storia nasce intorno al titolo, sopraggiunto causa noia dal momento che fissare le macchinette scrostate e piene di graffi sembrava molto più interessante che studiare quello che avrei dovuto studiare. Seconda nota inutile, questa storia non doveva essere pubblicata, anzi, questo account non doveva più pubblicare. Proposito evidentemente fallito.
Alla fine l'ho passata pc anche se ho detto un sacco di volte che non l'avrei fatto, ma non ho nulla da fare e di nuovo dovrei studiare ed è evidente che di nuovo io non ne abbia nessunissima voglia.
L'ooc ci sta, non sono proprio riuscita a liberarmene; forse è per l'au, boh. Comunque sono ooc.
Perciò ecco il figlio della noia e della mia estrema capacità di distrarmi con il niente e della mia scarsa decisione nel prendere posizioni XD








****

Il Fascino delle Cose Usate








Kuroo aveva sempre considerato le cose usate assolutamente piene di fascino; la sua macchina, ad esempio, aveva probabilmente più anni di lui. Aveva dovuto assolutamente comprarla – per due spicci, ovviamente, e solo per l'intervento di suo padre non si era messo a discutere, indignato col rivenditore per il prezzo così basso. Quella macchina aveva una storia, una personalità ben definita e migliaia di chilometri di strade percorse. C'erano state persone prima di lui sedute in quella vettura, e durante i lunghi viaggi si divertiva a fantasticare su di loro.
Aveva dovuto lavorare per ore su quella macchina, spesso erano necessarie ancora piccole operazioni per permetterle di continuare a vivere.
I suoi amici lo prendevano in giro per tutto il tempo che doveva dedicare alla manutenzione, ma a lui non era mai importato molto dei giudizi altrui: quella macchina era fantastica, e se non lo capivano era peggio per loro, si sentiva autorizzato a non scarrozzarli in giro.
A quell'acquisto ne erano seguiti altri sullo stesso genere: il suo appartamento era pieno di vecchi mobili e suppellettili trovate in giro per mercatini, i quaranta metri quadri scarsi in cui viveva erano stati riempiti di storie e di vite.
Non erano molte le persone che portava lì, quello era il suo personalissimo rifugio: il suo migliore amico, l'unica ragazza con cui avesse provato ad avere una storia seria, qualche persona a cui potesse dire di tenere davvero – sua madre, per esempio, che aveva storto il naso ed evitato di commentare quanto fosse piccolo quel monolocale strapieno in modo inverosimile di cose di dubbio gusto e utilità.
Per le sue avventure, per esempio, preferiva di gran lunga andare altrove – a casa del tipo o della tipa, per dirne una, non si poneva limiti in ambito sessuale ma ne metteva decisamente tanti per quanto riguardava l'intimità.
Molto banalmente, bisognava guadagnarselo l'ingresso in casa sua.

Il giorno del ventiseiesimo compleanno di Bokuto, il suo migliore amico, erano usciti a festeggiare con un gruppo di amici decisamente numeroso. La festa era cominciata subito dopo cena, ed era proseguita per ore, contando in effetti numerose perdite sulla loro strada. Talmente tante che alla fine erano rimasti solo loro due.
Non avrebbe saputo dire come fossero finiti in uno dei peggiori quartieri della città, né tantomeno quando avessero cominciato a trovare divertente l'idea di ingaggiare una prostituta. Per far cosa, poi, rimaneva un mistero dal momento che nessuno dei due avrebbe avuto bisogno di pagare per ottenere quel particolare genere di servizio – Bokuto aveva un ragazzo, e lui parecchi numeri nella rubrica del telefono da chiamare in caso di noia.
Era quasi l'alba ormai, ridacchiavano ancora in preda al residuo di alcool che non avevano smaltito quando cominciò a far rallentare la macchina, rendendosi conto di trovarsi in una zona in cui battevano esclusivamente ragazzi, per lo più giovanissimi. Non volevano trovarsi lì, non sapevano nemmeno come avevano fatto ad arrivarci.
Cominciò a guardarsi intorno sentendosi addosso un senso di disagio mai effettivamente sperimentato, e poi – e poi – il suo sguardo fu attirato come una calamita su un ragazzo che stava evidentemente contrattando con un cliente che parlava con lui attraverso il finestrino aperto. Lo osservò annuire, lo vide girare attorno alla vettura per salire sul sedile del passeggero – alzò lo sguardo, puntò gli occhi dorati nei suoi.
Kuroo ne rimase folgorato: come era successo per la sua macchina, per il suo appartamento, per tutte le cose che aveva voluto davvero nella sua vita gli era bastato uno sguardo per sapere che non sarebbe stato felice finché non avesse saputo tutto di lui, finché non lo avesse avuto. Quel ragazzino aveva lo stesso fascino antico di quegli oggetti che lo facevano impazzire, aveva il fascino di chi ha una storia da raccontare. E non era un oggetto, stavolta, era una persona; tutto sembrava più interessante così.
La macchina col ragazzino partì velocemente, sparendo presto nelle ombre residue di quella notte che andava consumandosi.
«Bro» la voce di Bokuto lo riscosse da quello stato di trance e si rese conto di essersi completamente irrigidito, con le mani che stringevano il volante come una morsa.
«Ohi» provò a rispondere «andiamo» non lasciò all'amico il tempo di aggiungere nulla e ripartì in fretta, in testa solo la voglia di tornare a casa; la serata era finita, aveva davvero bisogno di fermarsi e farsi passare quella strana frenesia che gli ballava nelle vene.

Tornò ancora in quella strada, tornò ancora sullo stesso punto, tornò a osservare il ragazzino con gli occhi dorati e i capelli chiari, tornò a guardare da lontano quella figura esile e sottile che si sporgeva verso le automobili, che senza cambiare espressione parlava a bassa voce con uomini che lo avrebbero portato chissà dove, che avrebbero fatto di lui un giocattolo o poco più per forse un paio d'ore per scaricarlo subito dopo sul ciglio di un marciapiede - ormai non servi più.
Tornò a osservare il ragazzino lavorare, tornò ad osservare quella persona che lo aveva letteralmente incantato in maniera assolutamente esagerata e inopportuna, a cercare di immaginare la sua vita di tutti i giorni.
Dopo oltre una settimana, quando cominciava ormai ad accusare la stanchezza – ci aveva provato, ma non riusciva a dormire immaginando il ragazzino con le movenze da gatto e gli occhi pieni di sfiducia nei confronti del mondo che viveva la sua vita nel quartiere della prostituzione, salendo su macchine di estranei che sceglievano proprio lui in mezzo a quella masnada di anime perse – trasalì al suono di un bussare feroce. Abbassò il finestrino e nell'esatto momento in cui lo fece si rese conto di una serie di terribili errori fatti in quei giorni che avrebbero potuto portarlo con buona probabilità ad un ricovero in ospedale con un paio di costole rotte. Come minimo. Quando aveva pensato che fosse una buona idea rimanere in una macchina parcheggiata sempre nello stesso punto a guardare per tutta la notte minorenni che si prostituivano?
Il gorilla che aveva bussato aveva cominciato a chiedergli chi fosse e cosa volesse, cosa ci facesse lì, che loro non volevano problemi o scocciatori.
La mente di Kuroo lavorava frenetica per cercare una soluzione, ma non riusciva a trovare una risposta che gli sembrasse abbastanza valida da scongiurare la visita in ospedale.
«Ehi. Lui è con me. Garantisco io per lui» il ragazzo aveva i capelli lunghi, per la maggior parte biondi: era comparso al suo fianco senza che si accorgessero di nulla, in silenzio. Aveva posato una mano sul braccio del gorilla – come sembrava piccola e morbida, come sembrava delicata quella mano!
Kuroo stava impazzendo, era evidente, se si perdeva in considerazioni di quel genere. Era ancora piuttosto spaesato per quello che non poteva che considerarsi un salvataggio in piena regola da parte dell'estraneo che spiava da giorni.
Il gorilla se ne andò dopo aver scambiato un altro paio di battute con il ragazzo, e quando fu abbastanza lontano anche quest'ultimo fece per allontanarsi – Kuroo fu letteralmente preso dal panico «Aspetta!» il giovane si voltò di nuovo, veloce, i capelli sottilissimi gli frustarono il collo «credo tu mi abbia appena salvato la vita.» Gli rivolse il suo miglior sorriso, che parve però non sortire alcun effetto «e non ci conosciamo nemmeno» continuò «permettimi di ringraziarti in qualche modo.»
Il ragazzo parve valutare – l'eccentrico – proprietario di quella – eccentrica – macchina che da giorni sostava davanti al suo solito posto.
«Stai cercando di rimorchiarmi?» chiese non riuscendo da solo a darsi una risposta logica al perché perdesse tanto tempo lì.
Kuroo tossicchiò, preso alla sprovvista dalla domanda inaspettata «no, no! Volevo solo offrirti una colazione come si deve. Mi sembra il minimo.»
Il biondo strinse le labbra e dopo quella che all'altro parve un'eternità buttò fuori l'aria «sto lavorando. Se non passa nessuno tra mezz'ora ho finito. Poi vado sempre a fare colazione al bar all'angolo, quello con la scritta arancione che sta qualche strada più in là» disse indicando col braccio la direzione che avrebbe dovuto prendere.
Non poteva saperlo, Kuroo, ma quello era probabilmente uno dei discorsi più lunghi che il ragazzo avesse mai fatto spontaneamente.
«E adesso te ne devi andare. Non ci piace la gente che gira qui intorno a curiosare» nonostante il tono piatto e l'espressione rimasta praticamente invariata, a Kuroo parve cogliere una vena di ironia sul fondo di quelle parole. Gli sorrise e annuì, ed il ragazzo lo lasciò lì mentre riprendeva il suo posto in strada.
Avrebbe voluto rimanere al suo posto, Kuroo, avrebbe voluto far salire l'altro in macchina e portarlo lontano, avrebbe voluto impedire a chiunque di avvicinarsi – come una bestiola abbandonata a cui chi si avvicinava tirava un calcio bisognava portarlo via prima che diventasse cattivo – ma intervenne il suo residuo di razionalità ad impedirgli di fare qualcosa di davvero stupido e che lo indusse a lasciare quella strada.
Andò direttamente a cercare quel famoso locale indicatogli dal ragazzo ancora senza nome, con addosso la fastidiosa sensazione di essere un perfetto idiota: non sapeva se si sarebbe presentato, non capiva perché volesse tanto vederlo ancora – Yaku probabilmente gli avrebbe tirato le orecchie fino a staccargliele se avesse saputo quella storia.
Che poi, cosa voleva effettivamente da quel ragazzino? Per il momento voleva conoscerlo. Per il momento doveva conoscerlo.
Si era seduto ad un tavolo da quattro persone proprio vicino alla finestra che dava sulla strada. Era incredibile quanto sentisse salire l'attesa e l'aspettativa mentre osservava lo scorrere lentissimo dei minuti sull'orologio a parete, e restava fermo in quel locale che sembrava lontano anni luce dalla strada appena lasciata: era un posticino caldo, accogliente, pulito e curato in ogni aspetto. Cominciò a fantasticare sul ragazzo che passava lì dentro il suo tempo libero, tra i cuscini di quello stesso divanetto con qualcosa di caldo per difendersi dal freddo di quella fine di ottobre con una compagnia di amici. Cercò di immaginare la sua risata, il suo pianto – si stupì a non riuscire a farlo. Cercò di immaginare la sua vita, la sua storia – proprio come faceva coi suoi oggetti, solo che stavolta aveva la possibilità di chiedere davvero, di sapere davvero.
Quando vide il giovane varcare la soglia del locale scattò in piedi: il nuovo arrivato storse il naso in una smorfietta adorabile mentre occhieggiava un altro tavolo. Kuroo rifletté sul fatto che probabilmente aveva un tavolo preferito, ma non fece in tempo a sentirsi in qualche modo in imbarazzo che il ragazzo lo aveva raggiunto e si era seduto.
Si scrutarono per qualche secondo «Tetsurou Kuroo, piacere di conoscerti» decise di rompere il ghiaccio.
«Kenma. Kenma Kozune, ma per tutti sono solo Kenma.»
Il cameriere si avvicinò al loro tavolo dopo una manciata di minuti con una fetta di torta e una tazza di cioccolato che non avevano ordinato: il ragazzo doveva avere più o meno la sua stessa età, considerò Kuroo, ma gli aveva anche incoerentemente dato l'impressione di essere una mamma che si occupa del suo pulcino. Capelli bianchi e occhi marroni, il ragazzo posò le cose davanti a Kenma «hanno fatto la torta di mele che ti piace tanto» gli disse con un sorriso estremamente caldo. Poi si voltò verso Kuroo e parve passarlo ai raggi X «è uno dei tuoi ̶ »
«è un amico, Suga, tranquillo» gli rispose accennando ad un sorriso stanco ma evidentemente sentito e rivolto solo a lui. Kuroo si rese conto di essere già stato rapito, completamente.
«Mh. Vedi di fare il bravo con questo piccoletto, qui.» lo minacciò il ragazzo-mamma, puntando l'indice contro di lui, che sollevò le mani come per arrendersi «ovvio amico. Non vedi come sono un bravo ragazzo?»
Il cameriere aveva un'espressione assolutamente scettica, completata da un sopracciglio alzato «sembri uno stronzo, altroché. Kenma, per qualunque cosa sai dove trovarmi» gli disse dandogli una carezza sulla testa e guardando ancora male Kuroo e i suoi capelli neri, sparati in aria da un tentativo evidentemente riuiscito di battere la forza di gravità.
«Certo Suga» gli disse quasi con un pigolio che tranquillizzò il ragazzo-mamma, che li lasciò soli – Kuroo col suo caffé ormai freddo.
«Suga mi fa un po' da mamma» gli spiegò stringendo la tazza calda fra le mani e inspirando profondamente l'odore del cioccolato con un'espressione terribilmente rilassata.
Cominciarono a chiacchierare, e Kuroo scoprì che Kenma ne aveva anche una vera, di mamma, e un patrigno che si occupava di loro – in che modo non lo aveva ancora detto, ma non faceva fatica ad immaginarlo. Scoprì che Kenma adorava i cibi estremamente dolci, le giornate di piggia senza tuoni quando non doveva passarle in strada, i videogiochi e i romanzi. Scoprì che non gli piacevano le persone e che avrebbe volentieri passato intere giornate a letto. Scoprì che aveva lasciato la scuola appena possibile, che aveva dovuto cominciare a fare il lavoro di sua madre quando il padre era morto ammazzato.
Kuroo si accorgeva che quel ragazzino – non aveva ancora diciannove anni – non era abituato a parlare in quel modo. Le frasi gli arrivavano alle labbra a stento, e sul suo viso si susseguivano un migliaio di espressioni nascoste appena sotto un velo di indifferenza e insofferenza.
Anche Kuroo aveva parlato, anche se aveva scelto di lasciare il suo discorso sui toni leggeri della normalità: aveva parlato di Bokuto, dell'università, delle sue passioni, di sua madre e del padre che era stato presente a intermittenza. Ma soprattutto aveva bevuto le parole di Kenma, tutte, fino all'ultima, le aveva raccolte tutte le parole di quel ragazzo che sembrava non sprecarne mai una di troppo.
E avrebbe continuato ad ascoltarlo ancora – avrebbe continuato per tutta la vita – ma si rese conto che l'alba di fine ottobre era stata sostituita dalla piena mattinata: quando si era riempito a quel modo il locale?
Erano le otto passate, per più di tre ore avevano parlato senza accorgersi che il mondo intorno a loro si era messo a girare al ritmo frenetico di un mercoledì mattina e lui doveva andare a lavorare.
Pagò il conto per entrambi, salutò Kenma come fossero stati amici da una vita intera.
Solo quando arrivò in ufficio – quaranta minuti di ritardo e nemmeno dieci di sonno – si rese conto di non avergli chiesto il numero di telefono.
Quella giornata fu disastrosa, fu sgridato dal suo responsabile e non ebbe tempo di pranzare per rimediare ai suoi errori della mattina; si accorse di aver lasciato il portafogli nella giacca in macchina, quindi non poteva prendere nemmeno un caffè; il telefono si era scaricato chissà quando nella notte e la macchina era praticamente senza benzina. Eppure quando tornò a casa sua non riuscì a smettere di sorridere all'idea di Kenma che soffiava sulla tazza di cioccolato e continuava a cercare parole per spiegare qualcosa che forse non capiva nemmeno lui. Kenma che assaporava quella bevanda terribilmente dolce, che raccoglieva il residuo col cucchiaino, che parlava mentre mangiava la sua fetta di torta con evidente soddisfazione.
A casa accese il cellulare mentre si scolava una birra presa dal frigo e si accorse che c'erano una marea di messaggi. Gli unici importanti erano quello di sua madre e le centinaia che gli aveva mandato Bokuto chiedendogli se era vivo o se doveva chiamare la polizia per far dragare il lago. Quale lago poi sarebbe stato carino saperlo, ma era troppo stanco anche per pensare. Che poi, ancora più interessante sapere come mai Bokuto conosceva quella parola: doveva ricordarsi di chiederlo a lui.
Mangiò qualcosa al volo mentre guardava la televisione – mise la sveglia alle cinque del mattino: doveva assolutamente incontrare Kenma di nuovo, lo avrebbe aspettato in quel locale.

Da quando si erano scambiati i numeri si sentivano praticamente in continuazione.
Al contrario di Kuroo, Kenma era un tipo decisamente abitudinario. Aveva i suoi rituali, non gli piaceva il contatto con gli altri, non dava mai confidenza. Ma Kuroo aveva stravolto tutto, senza saperlo, senza capirlo.
Erano passate due settimane da quando avevano cominciato a sentirsi con regolarità, e Kuroo sentiva la sua vita riempita di qualcosa di nuovo. Aveva parlato con Bokuto che aveva riso e non aveva capito esattamente quello che gli stava succedendo, ma gli aveva dato una pacca sulla spalla e tutto il suo sostegno: andava bene così, non capiva fino in fondo nemmeno lui.
Stava mandando un messaggio a Kenma mentre stava facendo la spesa, ridendo come un cretino in mezzo alle scatole dei cereali. Fu allora che lo vide, e si accorse di essere felice in maniera sinceramente sproporzionata; ma non lo aveva mai incontrato per caso e in quel momento ebbe la sensazione che, semplicemente, il cuore gli sarebbe scoppiato in gola da un momento all'altro. Gli girava leggermente la testa al pensiero che lui, proprio lui fosse lì in quel momento, sapeva che esisteva anche quando non stava lavorando, anche lontano da quella strada e quel bar, ma vederlo coi suoi occhi era stata tutt'altra cosa.
«Ehi micetto!» Lo chiamò con un sorriso enorme che gli si allargava sul viso.
L'altro si voltò sorpreso e spaventato, mentre stringeva al petto una scatola di biscotti al cioccolato. Quando lo riconobbe si rilassò, e lasciò posto sul viso ad una smorfia strana e dolcissima che doveva essere di rimprovero.
Appena il maggiore gli fu abbastanza vicino gli scompigliò i capelli per godersi la sua espressione indignata. Indicò la scatola «quella non è la tua cena, vero?»
Kenma abbassò gli occhi e borbottò qualcosa, facendo ridere il moro «Senti, io abito proprio qui vicino. Se ne hai voglia vieni a casa con me, così quelli li tieni per domani» si accorse che il più giovane si era irrigidito tutto, che sotto allo schermo dei capelli lunghi sino alla fine del viso aveva cambiato ancora espressione – si rese conto di quello che poteva sembrare.
«Ehi... ehm... non sto cercando di abbordarti, lo giuro. Voglio solo offrire una cena ad un amico a casa mia. E poi se dopo devi... lavorare... ti porto io. Non ho secondi fini, lo giuro» Kenma era arrossito appena: alzò lo sguardo e puntò gli occhi dorati nei suoi come a voler capire quanto di vero ci fosse, come a voler capire se poteva davvero esistere qualcuno che non avesse intenzione di approfittarsi dell'unica cosa che aveva: le persone erano cattive, le persone facevano paura. Ma Kuroo lo aveva chiamato amico, e gli aveva già dimostrato di non essere come gli altri. Gli aveva già dimostrato che di lui non doveva avere paura «va... va bene.» sussurrò, sorridendo impercettibilmente al suono brillante della risata di Kuroo.
Stava bene con lui.
Aveva sentito il cuore andare in pezzi quando, per quell'attimo infinito, aveva pensato che fosse alla fine come tutti gli altri, che voleva portarlo a letto, che era solo un altro cliente che aveva semplicemente cominciato quel rapporto in maniera diversa. Aveva davvero pensato che fosse stato tutto un modo per portarselo a letto, un modo per scoparsi un ragazzo che si prostituisce e non pagarlo.
Ma poi Kuroo lo aveva guardato, e aveva usato quel tono di voce, e non era proprio riuscito a non credere nella sua sincerità.
Sicuramente non avrebbe dovuto. Sicuramente non era un rapporto che avrebbe dovuto coltivare.
Fu davvero strano, per Kenma, salire al quarto piano di quel palazzo dall'aspetto malandato. Fu davvero strano, per Kenma, entrare nell'appartamento di quel ragazzo che aveva preteso di entrare nella sua vita e sapere che non ci sarebbe stato nessun rapporto sessuale.
Fu quasi incredibile, per Kenma, sentirsi completamente a proprio agio.
Cucinarono insieme, risero insieme, parlarono insieme come se dalla vita non avrebbero potuto chiedere niente di meglio.
L'appartamento di Kuroo era piccolo e più simile ad un bazar che a qualsiasi altra cosa Kenma avesse mai visto: era assurdo, caotico, era difficile muoversi senza rischiare di buttare giù qualcosa. Non aveva nessun senso ed era stupendo.
Quando si accorse dell'interesse che aveva per quel suo piccolo e delirante spazio privato, Kuroo gli spiegò che aveva scelto ogni cosa personalmente, con cura. Che ogni oggetto aveva una storia, e che le cose con qualcosa da raccontare erano le uniche che valesse davvero la pena avere intorno a sé «così come le persone. Non le sopporto le persone senza carattere, senza nulla da dire che... che parlano tanto e non sanno niente. Sai cosa intendo, no? All'università era pieno di gente così. E, oddio, avresti dovuto davvero vedere Bokuto quando questi gli si avvicinavano... lui è così spontaneo che non ci pensa al fatto che dovrebbe evitare di dire tutto quello che pensa. Quando uno gli sta sul cazzo deve dirlo e basta, senza pensare che forse sarebbe meglio evitare... non sai quante volte abbiamo finito per fare a botte perché lui non ci vedeva niente di male a dire esattamente quello che pensa di qualcuno» gli raccontò ridendo mentre mangiavano, praticamente arrampicati intorno ad un tavolo troppo piccolo per due: il tavolo da pranzo era stato eliminato per lasciar posto al letto – troppo grande e troppo occidentale – che fungeva anche da divano, di cui Kuroo si era innamorato qualche mese prima: aveva tipo duecento anni, gli aveva detto. Il più giovane era convinto che fosse un'esagerazione, ma lo aveva capito già che era una persona esagerata.
Kenma adorava quei discorsi di Kuroo, gli piaceva sentite com'era la vita normale di quel ragazzo fuori dal comune.
Quella bolla di semplicità esplose quando Kenma si rese conto che doveva tornare nel suo mondo; Kuroo, che non voleva lasciarlo andare, lo convinse a permettergli di accompagnarlo. Si sentiva felice, stupido e felice, troppo a suo agio con un ragazzo che conosceva appena.
E Kenma sentiva il cuore sul punto di esplodere anche solo nel ricevere un suo messaggio – ed era sbagliato, Dio se era sbagliato, ed era rischioso e pericoloso per entrambi. Ed era strano, al di là di ogni immaginazione, che lui si sentisse così vivo, così entusiasta per qualcosa – meglio, qualcuno: aveva smesso di emozionarsi per qualunque ragione da bambino, quando i suoi genitori lo avevano buttato tra le braccia di un uomo che aveva dato loro un mucchio di soldi per portarlo in uno squallido motel di periferia per ventiquattro ore.
Non credeva davvero che dopo una vita passata così, a trascinarsi fra i giorni sempre uguali cercando di annullare la propria coscienza potesse sentirsi ancora sinceramente felice all'idea di passare il proprio tempo in compagnia di un altro essere umano.
Si accorse solo dopo che la macchina fu ripartita di aver lasciato la scatola di biscotti da Kuroo. Gli scrisse un messaggio con un mezzo sorriso, poi mise via il telefono: i clienti non potevano certo trovarlo che messaggiava, o non si sarebbe mai fermato nessuno.
Diverse ore più tardi si accorse che gli aveva risposto: sarebbe dovuto andare a riprenderla a casa sua. Kenma era ancora felice: l'altro aveva mandato un altro messaggio dicendo che sarebbe passato a prenderlo alle quattro del pomeriggio al solito posto, che per pagare il riscatto dei biscotti tenuti in ostaggio avrebbe dovuto offrirgli un caffè.
Quando rientrò nell'appartamento di sua madre fu grato di non trovarla in giro o non avrebbe saputo spiegarle il motivo di un sorriso completamente fuori luogo che non riusciva a mandar via da quando era rimasto da solo.

Passare il tempo libero insieme era diventata un'abitudine.
Kenma restava a casa di sua madre solo il tempo di dormire, poi usciva e aspettava che Kuroo finisse di lavorare.

Kenma rideva, quel giorno.
Rideva di cuore mentre con Kuroo correva sotto un diluvio torrenziale di metà marzo verso il palazzo in cui viveva il maggiore.
Erano usciti per cena e all'improvviso il cielo si era oscurato, era esploso un tuono che aveva fatto saltare il più giovane che era intimamente terrorizzato dai temporali: la catapecchia in cui viveva si riempiva di acqua e i vetri tremavano quando pioveva a quel modo, e sin da bambino ricordava solo i tuoni e la paura che il tetto sarebbe crollato sotto il peso dell'acqua – e nessuno li avrebbe cercati, nessuno li avrebbe trovati, loro, gli ultimi tra gli ultimi.
Quando Kuroo lo aveva visto sobbalzare gli aveva sorriso e gli aveva preso la mano «ehi... va tutto bene. È tutto okay» Kenma lo aveva guardato con occhi enormi e poi aveva capito che era vero, che finché fosse rimasto con lui sarebbe andato tutto bene.
Erano usciti dal locale che scendeva ancora il diluvio.
«Micetto, mi sa che dobbiamo correre. Casa mia è qua dietro e non sembra che il cielo abbia intenzione di schiarirsi» gli aveva detto scrutando i nuvoloni neri che sovrastavano la pioggia. Kenma non aveva fatto una piega al nomignolo che ogni tanto gli affibbiava, aveva imparato ad ignorare quell'aspetto di lui, anche perché se avesse detto qualcosa non avrebbe mai più smesso di discutere.
«Ma sta piovendo! Ci bagneremo! E non mi va di correre...»
Kuroo aveva sorriso e aveva annuito «Dammi la mano. Al tre corriamo. Tra cinque minuti saremo a casa, al caldo!» gli aveva detto allungando la mano verso la sua. Kenma l'aveva guardata un istante e poi l'aveva stretta, ancora un po' scettico ma Kuroo aveva gridato “tre!” prima che fosse pronto. Lo aveva trascinato sotto l'acqua scrosciante, costringendolo a chiedere alle sue gambe uno sforzo immane; Kuroo era alto e veloce, ma Kenma non sarebbe potuto rimanere indietro nemmeno volendo – la mano dell'altro, grande e calda contro la sua, non sembrava volerlo lasciar andare nemmeno per sogno.
Dopo i primi passi impacciati divenne più semplice, correre con lui per le stradine di una città che sembrava paralizzata da quel piovoso imprevisto.
Kuroo non si sarebbe fermato per così poco, e non lo avrebbe permesso nemmeno a lu. Fu allora che cominciò a ridere.
La pioggia che gli scivolava sul corpo portava via la paura dei tuoni e degli esserei umani, portava via la noia delle giornate sempre uguali della sua vita prima di Kuroo, portava via le ansie, le preoccupazioni, le speranze abortite del bambino che aveva smesso troppo presto di essere. Kenma rideva di una risata che arrivava dritta al cuore dell'altro, che non aveva mai sentito un suono così bello.
«Vuoi fare una doccia?» gli chiese il maggiore una volta entrati nel suo appartamento, con una leggera tensione nella voce, con un impaccio che veniva dal fatto che ormai ne era sicuro: i sentimenti che provava erano del tutto fuori luogo – inaspettati e violenti erano esplosi senza che riuscisse davvero a rendersi conto di come la sua curiosità si fosse trasformata nella voglia di non lasciarlo andare mai più.
Il più giovane, che era riuscito a recuperare un certo contegno, provò a scuotere la testa per non abusare della sua ospitalità.
«E così ti prenderai un raffreddore. Non se ne parla. Aspetta, ti prendo un asciugamano... e qualcuno dei miei vestiti, così puoi cambiarti. È evidente che non puoi tenerti addosso i tuoi.» «Ma... saranno enormi per me!»
«devi tenerli addosso solo il tempo di far asciugare i tuoi. Giuro sul mio onore che farò di tutto per non farti ammalare» promise, sottolineando la frase mettendosi solennemente una mano sul cuore. Kenma ridacchiò «e tu?»
«Io sono un ragazzone grande e forte, me la caverò» disse facendogli l'occhiolino ed entrando in bagno.
Non chiuse bene la porta, era abituato a stare da solo e non lo faceva mai.
Nonostante sapesse che non era giusto, Kenma si spostò un poco per spiarlo mentre buttava in un cesto i vestiti bagnati tenendosi addosso solo i boxer prima di avvolgersi in un grosso asciugamano: aveva le spalle larghe e la vita sottile, e muscoli che guizzavano appena sotto lo strato della pelle leggermente più scura della sua. I capelli gocciolavano sulle sue spalle, e finalmente avevano un aspetto umano. Lo vide gettarsi un secondo asciugamano, più piccolo, intorno al collo.
Kenma era arrossito completamente nel rendersi conto che no, proprio non ci riusciva a smettere di guardare se non si imponeva di farlo.
Fu in quel momento che, per la prima volta, rifletté seriamente sulla sua sessualità: aveva sempre avuto solo rapporti con uomini, ma quello era lavoro e passava quasi tutto il tempo a cercare di annullarsi per non sentire nulla, per non sentire lo schifo di mani estranee sul suo corpo, per non sentire l'odore di sudore misto a quello del preservativo che aveva sempre preteso fosse utilizzato – era una delle poche cose che si potesse dire sua madre gli aveva insegnato.
Kenma Kozume non aveva mai pensato di poter essere attratto da qualcuno, di poter provare sentimenti per qualcuno ma stava succedendo; quali non avrebbe saputo dirlo. Dei sentimenti nessuno gli aveva mai detto nulla, e anche quelli più naturali aveva con gli anni imparato a reprimerli o non sarebbe riuscito a convivere con se stesso. Eppure Kuroo, in qualche modo, gli piaceva. Gli piaceva più di Suga, gli piaceva più di chiunque.
«Ti lascio i vestiti puliti e l'asciugamano in bagno. Fa con calma» Kuroo non gli aveva fatto notare che si era come bloccato. Si riscosse al suono della sua voce e si affrettò ad entrare in bagno chiudendo bene la porta. Era strano, erano strane le sensazioni che provava, voleva solo tornare al suo stato di tranquilla apatia e dimenticarsi di tutto quel caos che gli si agitava tra il cuore e il cervello.
Kuroo si asciugò i capelli come poteva con un asciugamano troppo piccolo e si vestì nuovamente prima di sedersi sul letto-divano e si mise a guardare qualcosa in tv senza seguirlo davvero: Kenma era nel suo bagno, a una distanza irrisoria, e solo questa consapevolezza bastava a scombussolarlo completamente. Provò a distrarsi leggendo qualche messaggio ma si accorse che lo infastidiva il fatto che gli avesse scritto di nuovo la ragazza con cui si sentiva prima di cominciare a vedere Kenma, ragazza che aveva semplicemente cominciato ad ignorare e che a quel punto doveva aver capito: non voleva avere più niente a che fare con lei, e si sentì un po' Bokuto quando le scrisse le cose chiare e tonde, senza mezzi termini. Lo stesso fece con il tipo che gli scriveva se aveva voglia di andare a trovarlo a casa; a lui scrisse che non si sarebbero visti per un po', in caso lo avrebbe contattato lui. Si accorse che erano quattro mesi che non cercava rapporti occasionali.
Kenma riemerse dal bagno in una nuvola di vapore, apparentemente minuscolo con addosso una sua maglia e un paio di calzoncini della tuta che gli arrivavano fino a metà polpaccio.
«Ho freddo» si lamentò arricciando il naso e socchiudendo gli occhi.
«Vieni qui. Devi asciugare bene i capelli e poi ti do una felpa» gli disse facendogli segno di raggiungerlo sul letto. Non aveva pensato a come avrebbe potuto prenderla, perché il ragazzino non protestò quando prese posto accanto a lui.
Kuroo lo convinse a spostarsi tra le sue gambe lunghe, in modo da potergli asciugare i capelli, frizionandoli con cura «cosa stiamo guardando?» gli chiese il biondo che si godeva quelle attenzioni come se fossero la cosa più naturale del mondo.
«Un film sui supereroi. Adoro queste cose» confessò mentre asciugava bene le punte di quei capelli tinti. Tra le braccia e le gambe di quel ragazzone, col suo petto praticamente a contatto con la schiena, Kenma si sentì rilassato e protetto come non mai.
«Ma questo non ha senso!» Sbottò il più giovane all'ennesima scena assolutamente esagerata.
«Sssh! È stupendo!»
Kenma si era girato verso di lui in quello che ormai era un abbraccio vero e proprio per guardarlo male, ma il moro era davvero troppo preso da quelle scene senza senso che continuavano a susseguirsi in un climax delirante: come facevano le bombe a buttare giù solo quello che serviva al protagonista?! Andiamo! Visto che tanto non lo degnava di nessuna attenzione si accoccolò meglio tra le sue braccia, borbottando di tanto in tanto contro lo stupido film.
Kuroo lo strinse meglio, beandosi del suo calore e del profumo del suo shampoo che saliva dai capelli dell'altro. C'era qualcosa di incredibilmente giusto a stringerlo tra le braccia, a sentirlo borbottare contrariato per il film, a sentire il profumo dei suoi capelli puliti.
Solo alla fine del film si rese conto che si era addormentato. Sorrise intenerito e non resistette alla tentazione di dargli un bacio sulla fronte, sentendosi poi subito dopo una specie di ladro: non gli bastava, non voleva solo quello, voleva tenerlo con sé per sempre.
Sapeva che avrebbe dovuto svegliarlo, ma si mosse in modo da non farlo, lo sistemò meglio nel suo letto troppo grande per lui solo e lo coprì con cura dopo aver spento la tv. Si alzò a bere un bicchiere d'acqua, perché la sua mente gli stava giocando dei brutti scherzi: tra lui e Kenma non ci sarebbe stato più di una bella amicizia, non avrebbe mai – e per nessun motivo – osato chiedergli qualcosa di diverso. Lo sapeva che non glielo avrebbe mai perdonato.
Era solo una manciata di mesi che si frequentavano, ma già sentiva di aver bisogno di lui nella sua vita, anche se solo come un amico. Perché avrebbe fatto qualunque cosa per quel piccoletto, anche soffocare quello che effettivamente si era sentito nascere dentro dal primo momento in cui lo aveva visto per offrirgli l'amicizia che fino a quel momento non aveva avuto.
Avrebbe dormito sul pavimento, quella notte, era meglio non complicare ulteriormente le cose.

Il giorno dopo si era svegliato e aveva visto gli occhi di Kenma aprirsi lentamente su di lui.
Dormiva tutto raggomitolato su un fianco, minuscolo e avvolto nella coperta coi capelli sparsi sul suo cuscino. Ci mise un po' a riprendere conoscenza, ma era domenica mattina e lui non aveva fretta: poteva osservarlo svegliarsi pigramente, poteva osservarlo sbadigliare e mugugnare prima di arrotolarsi meglio la stoffa intorno, poteva osservarlo stropicciarsi gli occhi e stiracchiarsi sbadigliando ancora. Poi Kenma parve rendersi conto di non essere a casa sua, e sbattè le palpebre un paio di volte prima di realizzare che c'era Kuroo in piedi con una tazza di caffè che lo guardava sogghignando «buongiorno» gli disse ammiccando.
Poi Kenma si mise a sedere, ancora stropicciandosi gli occhi «non ho cioccolata calda. Solo caffè e the verde, ma si possono sempre zuccherare molto» gli disse prima che lui potesse aprire bocca.
«Caffè» pigolò il biondo «dolce» aggiunse avvolgendosi di nuovo nelle coperte.
Poi vide il cuscino a terra, e la coperta accanto a letto – lo capì subito che gli aveva lasciato il suo letto, che aveva trovato uno spazio sul proprio pavimento per non metterlo a disagio. Sorrise segretamente contro il cuscino che aveva l'odore dell'eccentrico proprietario di quell'eccentrico appartamento – stupendi entrambi.
«Ha smesso di piovere giusto poco fa, ha continuato tutta la notte» lo informò sedendosi sul bordo del letto e porgendogli la tazza calda il moro che ridacchiava ancora «tieni micetto.»
Kenma si stiracchiò di nuovo, contro le sue gambe stavolta, e si rimise a sedere e dopo averlo guardato negli occhi con espressione serissima disse semplicemente «miao» prima di prendere il suo caffè – Kuroo dovette mordersi l'interno della guancia molto forte per costringersi a rimanersene buono e al suo posto.
Mentre beveva lo informò che i suoi vestiti erano di nuovo asciutti.
Mugugnò qualcosa «devo tornare a casa.»
Kuroo annuì «lo immaginavo. Ci vediamo domani?» gli chiese riprendendo la tazza ormai vuota e mettendola nel lavandino. A Kenma piacque da morire quella domanda, quella richiesta in quel momento e annuì.
«Allora in bagno ti ho messo uno spazzolino nuovo. Lo tenevo per Bokuto, ma non lo ha mai usato quindi se vuoi diventa tuo.» gli disse.
Il biondo si alzò un po' a malincuore e raccolse le sue cose per portarle in bagno.
Tornare alla sua vita di tutti i giorni non era mai stato così difficile.

Il giorno successivo Kenma non si fece vedere. Kuroo gli scrisse diversi messaggi, ma non ottenne nessuna risposta, e non osò chiamarlo per paura di fare qualche danno.
Il giorno dopo ancora non sapeva nulla, così come quello dopo ancora.
Si decise ad andare in quel bar dove si erano parlati la prima volta, quello in cui andava praticamente ogni mattina; individuò subito il cameriere dai capelli bianchi – solo in quel momento cominciò a temere per la propria incolumità, di fronte a quel ragazzo-mamma al quale avrebbe dovuto dire che non riusciva a comuncicare con Kenma, che lo aveva perso da qualche parte.
Non arrivò la sgridata che si aspettava, ma uno sguardo pieno di compassione – per chi, poi, non avrebbe saputo dirlo.
«No, non l'ho visto nemmeno io da qualche giorno. Ma non è la prima volta che succede, e se ti interessa davvero di lui forse dovresti lasciarlo perdere. O trovare il modo di portarlo via. E comunque adesso è inutile che lo cerchi, per un altro paio di giorni non lo vedrà nessuno, poi apparirà di nuovo come al solito.» Non aveva capito nulla, Kuroo, ma quel ragazzo aveva l'aspetto di uno di cui ci si poteva fidare, di uno che prendeva sul serio a cuore le persone.
Kuroo aveva annuito e se ne era andato dopo avergli chiesto di dire a Kenma che lo aveva cercato, nel caso lo avesse visto; era tornato però il giorno successivo a vedere se per caso poteva trovarlo al solito posto – si era fatto prestare la macchina da Bokuto: gli aveva spiegato la situazione e come al solito si era mostrato disponibile ad aiutarlo come poteva. Ma Kenma non c'era, e continuava a non rispondere, e lui aveva di nuovo smesso di dormire.

Ci volle più di una settimana perché lo vedesse di nuovo.
Era quasi l'alba quando una macchina lo scaricò al suo posto sul marciapiede: aveva il viso stanco e gli occhi spenti, e Kuroo si sentì improvvisamente furioso. Si avvicinò a lui e lo guardò senza sapere cosa aspettarsi «sali» gli disse.
E Kenma era troppo stanco per rispondere, si strinse il corpo con le braccia e scosse la testa «sto lavorando.»
Fu allora che Kuroo lo vide, il livido che usciva dal bordo della maglietta. E quello che il trucco non riusciva a coprire sullo zigomo, e quello sul collo che sembrava tanto simile alla morsa di una mano.
«Sali» sibilò sentendo la rabbia che gli montava dentro. Stringeva il volante con entrambe le mani e teneva gli occhi fissi davanti a sé, dove decine di altri ragazzi come Kenma continuavano a cercare di attirare l'attenzione di clienti.
«Sali!» Ringhiò con un tono spaventoso – Kenma non seppe far altro che obbedire. Kuroo era arrabbiato? No, non sembrava rabbia la sua, ma qualcosa di intimo e diverso. Era partito a tutta velocità, subito, senza aspettare neppure un istante. Aveva guidato per andarsene da lì, per portare la macchina lontano – non importa dove, solo non qui.
Kenma era leggermente spaventato per quella reazione, non sapeva come comportarsi né dove guardare: i muscoli delle braccia del moro eran tesi e gonfi, come se lui stesse facendo uno sforzo enorme. Si rannicchiò sul sedile per guardare fuori, cercando di ricordare che c'era Kuroo al suo fianco e che non doveva aver paura.
Il cielo si schiariva mentre loro uscivano dalla città.
«Cos'è successo?» La domanda lo colpì con forza, nonostante se la fosse sinceramente aspettata. Kuroo aveva fermato la macchina in uno spiazzo in mezzo al nulla, e Kenma sentiva i suoi occhi insistenti sulla nuca pur ostinandosi a non voler incrociare il suo sguardo: doveva smettere, doveva smettere di vederlo e sentirsi vivo, doveva smettere di vederlo e sentirsi al sicuro.
«Niente.» rispose, lo sguardo fisso sul proprio riflesso.
«Kenma, che cosa è successo? Chi è stato?» Lo sentiva che si stava sforzando il più possibile per rimanere calmo, e fu costretto a reprimere qualunque emozione verso quel bizzarro ragazzo col sorriso ambiguo e l'abbraccio più bello del mondo.
«Chi ti ha... » Kuroo insisteva, Kenma si voltò di scatto «nessuno. Nessuno mi ha fatto niente.» la voce era uscita appena, un miagolio strozzato per niente credibile anche alle sue orecchie.
Kuroo allungò le dita verso la sua gola, dove il suo protettore – l'uomo di sua madre – aveva stretto fortissimo solo pochi giorni prima, togliendogli l'aria e la voglia di provare a respirare. Cominciò a tremare, ma il tocco di Kuroo era delicato e non faceva male: uno sfiorare gentile e premuroso, preoccupato. Ma non poteva aspettarsi nulla nemmeno da lui, in fondo.
Distolse lo sguardo dal suo viso e voltò la testa.
«Cos'è successo?» Insisteva ancora, ma Kenma sembrava aver finito di nuovo le parole.
Sentì che il maggiore sospirava come a cercare di mantenere ancora la calma «Sono giorni che ti cerco e non riesco a trovarti. Il ragazzo-mamma di quel bar ha detto che non è la prima volta, che devo lasciarti perdere o portarti via» eh sì, erano parole di Suga quelle. Erano parole di un Suga che aveva classificato Kuroo come una brava persona, una persona di cui fidarsi.
«Sono giorni che penso che è colpa mia, che ti cerco e non riesco a raggiungerti...» Kenma si accorse che era difficile continuare a non reagire, e per una volta nella sua vita fu costretto ad imporsi il silenzio, una totale indifferenza «devi davvero dirmi qualcosa, o non riuscirò a fare altro. Devi dirmi qualcosa o impazzirò... sei così minuscolo che chiunque potrebbe farti a pezzi e buttarti in un secchio della spazzatura» ma Kenma continuava a tacere, costringendosi a non guardarlo.
«Yaku dce che sono uno stupido, che sono io che sbaglio, che non avrei dovuto nemmeno rivolgerti la parola che non si comincia un rapporto con uno che fa il tuo mestiere per poi aspettarsi qualcosa di serio o di vero.» Kenma sentì il proprio cuore andare in frantumi, aveva stretto gli occhi fortissimo per non piangere.
«Dice che sarà sempre così se continuo a starti dietro, se continuo a cercarti. Dice che sparirai ancora, perché non ti importerà mai davvero»
Solo a quel punto, molto lentamente, Kenma si girò di nuovo. Non capiva bene quali sentimenti gli stessero facendo bruciare il petto, ma si impose freddezza nel parlare «allora forse dovresti dar retta a Yaku.»
Non pensava potesse succedere, ma negli occhi di Kuroo vide il suo cuore spezzarsi «vuoi che lasci perdere? Tu vuoi che me ne vada?»
Distintamente, Kenma percepì che gli occhi gli si riempivano di lacrime, e che il viso arrossiva, e il naso cominciava a pizzicare – segni inequivocabili di un pianto imminente a cui non aveva intenzione di abbandonarsi. Annuì, troppo insicuro della voce per parlare.
«Non ci credo. Non ci credo, devi dirmelo.» Tremava appena la sua voce. Tremava appena anche se cercava di infondere nel suo tono una sicurezza che, evidentemente, non aveva più.
«Sì. Devi andartene, devi lasciarmi perdere. Non capisci, tu non puoi capire... l'uomo di mia madre non ha problemi ad ammazzarmi se pensa che gli ho mancato di rispetto mentre sto lì. Sono un suo giocattolo, e continuerà ad essere così fino a che starò a casa sua... e non ho un altro posto dove andare. Non finisce solo perché tu sei una brava persona, non gli importa di questo né di altro. Tutto questo me l'ha fatto capire bene.» La voce era uscita strascicata e portarsi la mano destra alla gola era stato istintivo.
Kuroo rimase in silenzio per un momento che era sembrato infinito «vieni a vivere con me» la frase era sembrata salirgli improvvisamente alle labbra.
«Non ho bisogno della tua pietà» rispose istintivamente.
«Non sarebbe pietà. Potresti vivere con me» disse con ancora più convinzione.
«Non ci sarebbe spazio nemmeno volendo» Kenma stava cercando con tutte le proprie forze di rimanere razionale.
«Ma vorresti?» Avrebbe voluto? Non gli era dorse mai stato chiesto, così rimase in silenzio abbastanza perché l'altro decidesse di insistere «devi solo dirmi che lo faresti, me la vedo io poi» Kenma non parlava ancora, così Kuroo continuò «conosci già il mio appartamento, e sei l'unico al mondo che può muoversi lì dentro con tanta disinvoltura»
«Non ho un lavoro.»
«Bokuto ha bisogno di una mano al pub» la sicurezza con cui aveva risposto non lasciava assolutamente intendere che in realtà non avesse la più pallida idea della quantità di personale impiegata in quel locale.
«Non so come funziona, non ho mai lavorato, non mi assumerebbe nessuno.»
«Non mi importa e non importa a Bokuto, lo capisci?!» Kenma sobbalzò: l'altro aveva alzato la voce. Voleva solo buttarsi tra le sue braccia, in realtà, voleva solo buttarsi tra le sue braccia e chiedergli di proteggerlo, di portarlo via, di dirgli che sarebbe andato tutto bene. Uscì di corsa dalla macchina e cominciò ad allontanarsi – quanto, poi? Erano in un'area di sosta n mezzo al nulla, nel sole tiepido di una mattina di fine marzo.
Kuroo lo aveva raggiunto presto, lo osservava in quel momento subito alle sue spalle. Molto lentamente percepì le mani risalirgli lungo le braccia, come fosse indeciso se stringerlo a sé o meno. Kenma lasciò passare quei secondi lunghi come ore, con tutti i sensi attivi a tal punto che gli sembrava di poter percepire qualunque cosa. Kuroo era lì, era immobile alle sue spalle e non lo toccava ancora, gli lasciava tempo ancora. Non lo aveva mai nemmeno sfiorato senza essere sicuro che fosse pronto, che fosse a suo agio – gli aveva portato nella vita qualcosa che non pensava nemmeno potesse esistere.
Si girò per trovarsi praticamente con il viso sul petto dell'altro, stretto in quell'abbraccio senza contatto; lo osservò bene negli occhi e si sollevò sulle punte dei piedi per posargli un bacio sulle labbra.
Fu un bacio un po' strano, infantile e curioso – occhi spalancati e labbra serrate – di un'intensità devastante.

Kuroo aveva sempre considerato le cose usate assolutamente piene di fascino; la sua macchina, per esempio, quella probabilmente più vecchia di lui, quella per cui aveva quasi litigato col rivenditore per un prezzo che non le rendeva giustizia, se ne stava in quel momento dimenticata in un'area di sosta chissà dove fuori città con gli sportelli spalancati – non importava più e basta.
Non importava nulla, ed era la prima volta: fin da quando era molto giovane era andato a cercare gli oggetti più strani, quelli più malridotti , quelli dimenticati da tutti. E bisognava lavorarci sopra, prendersi tempo per conoscerli per poi farli tornare all'antico splendore – e che soddisfazione quando tornavano ad essere la meraviglia di prima!
Aveva cercato sempre qualcosa, ma non in quel momento.
«E così sono una brava persona?» Ridacchiò Kuroo stringendo per bene il più giovane, che lo guardava attraverso le palpebre socchiuse con occhi che brillavano come stelle.
«Pff! Sta zitto» sbuffò Kenma prima che Kuroo lo baciasse di nuovo – seriamente, stavolta.










Io ci provo anche stavolta: se ci sono errori fatemeli presenti. Anche per quanto riguarda la gestione dei personaggi, è la prima volta che scrivo una KuroKen.
Grazie!
  
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