Prologo: fuga dall'inferno.
Tamao p.o.v.
Il rumore ritmico delle macchine da cucire segna il tempo
della mia prigionia e delle mie giornate.
Mi chiamo Tamao Ishida e da dieci anni lavoro come sarta
in questo buco, insieme alle mie compagne di sventura. Sono per la
maggior parte
cinesi e comunico con loro a gesti, tanto basta, i nostri carcerieri
non
incoraggiano i rapporti tra di noi.
Ho venticinque anni e a quindici i miei genitori mi hanno
venduta alla yakuza, erano povera gente che lavorava in compagna e si
erano
ritrovati il peso di una figlia primogenita. Volevano che mio fratello
studiasse nelle migliori scuole del paese e hanno deciso di finanziarlo
con la
mia vendita.
Il giorno prima di quello che avrebbe dovuto essere il mio primo
giorno di liceo mio padre è venuto nella mia misera camera e
mi ha detto di
dimenticarmi dell’istruzione, nonostante i miei buoni voti.
Avrei lavorato, avevano bisogno di soldi per mio fratello
che era più importante di me e poteva farsi strada nel mondo
più di una debole
femmina.
“Scendi in cucina, Tamao.
C’è una persona che vuole vederti.”
Mi disse.
Io scesi con la mia nuova uniforme da liceale e trovai un uomo pieno di
tatuaggi e cicatrici seduto al nostro tavolo con mia madre che teneva
gli occhi
bassi.
“Questo è il signor Fujimoto, da oggi è
il tuo padrone e
farai tutto quello che dice lui.
Presentati.”
“Io sono Ishida Tamao, piacere di conoscerla.”
Avevo detto velocemente abbassando la testa.
“Sai cucire a macchina?”
“Un po’, signore.”
“Beh, imparerai.
Domani fatti trovare con una valigia pronta e senza questa
ridicola uniforme.”
“Sì, signore.”
“Adesso va via, la merce è buona.”
Io ero salita in camera mia, messo via la mia divisa con il cuore
spezzato e
preparato una valigia aiutata da mia madre. Il giorno dopo ero salita
su di una
macchina che mi aveva portato all’aeroporto, lì
prendemmo un aereo che ci avrebbe
portato a New York e vi arrivammo diverse ore dopo.
E così sono arrivata qui, la mia valigia è stata
requisita, così come i pochi soldi che avevo e mi hanno dato
la divisa. Un paio
di calze, un vestito lungo fino alle ginocchia grigio e stinto, vecchie
scarpe
da tennis e una felpa pesante per l’inverno.
E ho iniziato a cucire e cucire per gli occidentali per
venti ore al giorno, piangendo ogni notte fino ad addormentarmi,
maledicendo la
mia famiglia.
Oggi però sarà diverso, oggi scapperò.
Finito di cucire mi ritiro in silenzio nel mio letto,
l’uomo ci controlla e ci chiude a chiave dentro lo stanzone.
Io mi metto le
scarpe, la felpa e una giacca di pelle difettata che avrei dovuto
ricucire
domani. Tiro fuori una forcina dalla mia crocchia e faccio saltare il
lucchetto, l’uomo di guardia dorme e io corro veloce e
silenziosa come il vento
verso la stazione delle metro rabbrividendo per il freddo newyorchese.
Scendo i gradini più veloce che posso e salto su un
vagone, dalla porta vedo due dei miei carcerieri scendere le scale. Io
mi
abbasso per non farmi vedere, ma è troppo tardi.
Alla stazione successiva cambio treno e così faccio anche
in quella dopo, dribblandoli, spaventata come un animaletto. Alla fine
scendo
dal treno ed esco, sono davanti a un locale con un ampio parcheggio,
decido di
andare lì. Posso entrare in una macchina e riposare un
attimo.
Comincio ad aprire tutte le macchine, ma sono tutte
chiuse e sento delle voci che urlano in giapponese, il cuore mi sale in
gola.
Non devono trovarmi o rischio di essere uccisa.
Alla fine mi ritrovo davanti a un grande pullman con
scritto “Pierce The Veil” ed entro, mi metto in un
punto da cui non posssono
vedermi rannicchiata.
Ho il respiro corto e stringo con forza il mio logoro
vestito.
Le voci si allontanano e la mia tensione inizia a calare
e finisco per addormentarmi.
Vengo svegliata dal suono di voci maschili, ho quasi del
tutto dimenticato l’inglese, ma credo si stiano chiedendo chi
sono e perché
sono qui.
Io apro gli occhi e mi trovo davanti a quattro ragazzi,
due sono alti e pieni di tatuaggi, portano entrambi un cappellino, poi
c’è un
ragazzo più basso con i capelli castani lunghi fino alle
spalle, infine uno
leggermente più tarchiato con i capelli scuri irti.
Il mio sguardo si focalizza su di lui, ha qualcosa che mi
attrae, forse il sorriso luminoso di chi sa reagire bene in qualsiasi
situazione.
Il ragazzo con i capelli lunghi mi guarda negli occhi e
mi chiede qualcosa.
“Io parla poco inglese.”
Articolo con fatica io, lui mi fa cenno di aspettare e
poco dopo arriva una ragazza con gli occhiali, i capelli azzurri e
viola, i
dilatatori alle orecchie e parecchi tatuaggi.
“Ciao. Io sono Yukari, posso sapere il tuo nome?”
“Parli la mia lingua?”
“La parlo.”
“Mi chiamo Ishida Tamao.”
Lei mi sorride.
“Come mai sei qui?”
“Loro… loro mi stanno cercando e ho paura che mi
trovino.”
“Loro chi?”
Io mi guardo attorno spaventata.
“La mia famiglia mi ha venduta alla yakuza a quindici
anni, confeziono vestiti, ma sono scappata.
Stasera sono scappata e, visto che mi cercavano, mi sono
infilata in questo pullman.”
“Capisco.”
“Voi chi siete?”
“Loro sono una band, si chiamano Pierce The Veil, io sono la
loro merch girl.”
“Come si chiamano?”
Indica il ragazzo dai capelli lunghi.
“Vic Fuentes.”
Poi il ragazzo dal bel sorriso.
“Jaime Preciado.”
Il primo ragazzo alto, quello con il piercing sotto il
labbro.
“Mike Fuentes.”
E infine il ragazzo con il piercing sotto l’occhio.
“Tony Perry.”
Io annuisco.
“Yukari-san, questo pullman si sta muovendo?”
“Sì, verso sud. Stiamo facendo un tour.”
Forse se mi unirò a loro, i miei nemici non mi troveranno.
Forse loro sono il mio unico mezzo verso la libertà.
Mi inchino profondamente verso la ragazza dai capelli azzurri.
“Yukari-san, ho un grande favore da chiederle.
Posso rimanere?
Se rimango forse quelli che mi cercano non mi
troveranno.”
Lei sembra colpita dalla domanda.
“Io ne devo discutere con la band, non è una
decisione
che posso prendere da sola.”
Si alza in piedi e parla a lungo con
quattro ragazzi, le loro voci si alzano e si
abbassano e gesticolano parecchio, il più scettico sembra il
ragazzo con il
piercing sotto il labbro. Il ragazzo dal bel sorriso interviene spesso
e mi
sembra a mia difesa, alla fine indicano Yukari-san e lei annuisce.
Torna di nuovo ad inginocchiarsi accanto a me.
“Tamao-chan, io e la band abbiamo parlato e abbiamo
deciso che potrai rimanere, ma dovrai aiutarmi a vendere.”
“Va bene.”
Io mi volto verso il gruppetto.
“Arigatou,
Vic-san, Mike-san, Tony-san, Jaime-san.”
“Ehm, prego.”
Mi rispondono in coro.
“Sarai stanca, fatti una doccia, cambiati e poi mangeremo
qualcosa.”
Yukari mi accompagna in un piccolo bagno in cui posso
lavarmi e mi lascia della biancheria e dei vestiti puliti. Io ne approfitto e faccio una
lunga doccia per
togliermi di dosso la tensione e la paura e poi indosso quello che mi
ha
portato: un paio di jeans strappati e una maglietta della band. Pettino
i miei
lunghi capelli neri e li raggiungo in cucina.
Mi siedo al tavolo un po’ a disagio e aspetto. Poco dopo
i ragazzi vengono serviti con quello che deve essere cibo messicano e
io ricevo
una pizza. Sono anni che non ne mangio una, perciò la divoro
e scopro che ho
ancora fame.
“Mangiavi abbastanza?”
Mi chiede premurosa Yukari.
“No, non molto. Ognuna di noi aveva diritto solo a un
po’
di riso a pranzo e a cena.”
Fa scaldare un po’ di cibo messicano anche per me e io divoro
anche quello,
nonostante sia un po’ troppo piccante per me.
Finita la cena improvvisata i ragazzi si trasferiscono in
quella che credo sia la zona relax, a me invece si chiudono gli occhi.
Vorrei aiutare Yukari, ma sono troppo stanca.
“Non devi aiutarmi, non sei obbligata.”
Mi dice sorridendo lei.
“La maggior parte di questa roba va in pattumiera, i
ragazzi amano mangiare con le posate di platica.
Tu sei stanca e farai meglio a riposarti. Devi imparare
un sacco di cose, tra cui l’inglese.”
Io annuisco, lei mi porta nella zona notte.
Ci sono due lettini a castello.
“In quello in basso ci dormo io, tu dormirai in quello
più in alto, spero che per te non sarà un
problema.”
Io scuoto la testa.
Lei mi consegna un pigiama.
“Grazie.”
“Prego. Appena sarà possibile ti compreremo dei
vestiti e dovremo renderti meno
riconoscibile.”
“Cosa vuoi fare, Yukari-san?”
“Via quel san, pensavo di tingerti i capelli. Basta solo che
tu diventi bionda,
non devi diventare come me se è questo che ti
preoccupa.”
“Oh, grazie.”
“Buonanotte.”
“Buonanotte anche te.”
Mi lascia da sola e io mi metto il pigiama e poi salgo la scaletta per
arrivare
al lettino più alto.
Mi sdraio sfinita, pensando che per me sta iniziando una
nuova avventura e che non so come finirà.
Potrei metterli tutti nei guai e mi dispiacerebbe visto
che sono stati tanto carini con me.
Questo vortice di pensieri mi porta dritta tra le braccia
di Morfeo, consegnandomi a un sonno agitato e costellato da incubi in
cui
rivivo il mio passato.
Spero tanto che vada bene e di non mettere in pericolo
nessuno, non me lo perdonerei mai.
Chissà come sarà la mia vita d’ora in
poi?