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Autore: d r e e m    30/09/2016    0 recensioni
Alla fine dell'inverno dei loro vent'anni, un ragazzo di nome Sergio e una ragazza di nome Allegra fecero la loro reciproca conoscenza davanti ad una squallida fermata dell'urbano nei pressi di via Gorizia, durante un piovoso pomeriggio di sciopero dei mezzi pubblici.
Era il Marzo del 1989 e la primavera quell'anno non sarebbe mai stata così verde.

Questa storia partecipa al contest "Art for Art's Sake" di Panda e xSophia"
Genere: Introspettivo, Romantico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago, Universitario
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You made me spring

No, non ci amavamo. Per la verità non siamo mai stati innamorati. Ma qualcosa siamo stati: forse amici, quasi insieme. No, non ci siamo amati veramente, tranne forse quando, da soli, morivamo.
(Sergio, Marzo 2003, retro di un tovagliolo di un bar)


La vedeva, era impossibile non vederla. In mezzo a quel brusio di mille voci stonate, la folla gracidante e dai contorni acquerellati dall'acquazzone pomeridiano, c'era lei: un elemento caotico, cangiante in quella distesa di grigi monocromatica.
Era su un rettangolo di marciapiede, alla fermata dell'urbano, là dove le pozzanghere inghiottivano i riflessi dei passanti per poi essere strappate dalle ruote taglienti delle auto in corsa sotto la pioggia battente.
Era forse la pioggia che l'aveva fatta somigliare ad una fata dei boschi, lei che emergeva tra il fitto di persone in quella nicchia lacustre, con due orecchie sporgenti dai i capelli talmente corti da lasciarle la nuca scoperta. Ed era sfacciatamente e irrispettosamente verde.
No, non esageriamo. Se ci ripensa meglio, Sergio dubita che il verde della giacca a vento della ragazza avesse qualcosa a che fare con ciò che i suoi occhi avevano visto. Qualcosa nel colorito poco salubre della ragazza deve avergli fatto credere che fosse una qualche specie aliena o forse era tutta colpa dei suoi occhi: due pozze di smeraldo che lo guardavano furbescamente interrogativi.
“Mi stavi aspettando?” esordì la Fata sgusciando gli stivali in gomma contro una conca d'acqua piovana. Sergio, vinto lo stupore del momento, vedendola uscire da quel capanno di persone le tese istintivamente l'ombrello. Sarebbe stato un peccato se si fosse bagnata, lei che sembrava non viverci bene con la pioggia addosso.
“Siamo decisamente in ritardo e tu, stranamente in anticipo” commentò Melchiorre, detto ironicamente Kurt, al fianco di Sergio mentre si affannava ad evitare le schegge d'acqua che gli rigavano gli occhiali. A quanto pare il nomignolo affibbiatogli era una creazione di Sergio, quando l'amico aveva deciso di farsi crescere i capelli ed assumere le sembianze di un Kurt Cobain tarchiato e panciuto. Insomma, una brutta copia. Lui che non ascoltava neanche i Nirvana. Che tipo.
“Non c'è molto da fare affidamento sugli autobus” confessò la ragazza con un tono tra lo scocciato e il fintamente offeso, appendendosi di più all'ombrellino in plastica il cui manico continuava a rigirarsi tra le dita.
Kurt la incalzò. “O sui treni” disse e con un gesto estrasse dalla carpetta che teneva sotto l’ascella un album da disegno che consegnò alla sua interlocutrice. “Per Lory”.
Kurt studiava architettura a tempo perso e benché fosse incline a mollare l'università, erano due le ragioni che lo spingevano a rimanere e queste si chiamavano Sergio, il suo migliore amico, e Loredana, la sua si-spera-quasi-ragazza nonché coinquilina della suddetta Fata-senza-nome.
Avvenuto lo scambio, dopo aver controllato che le lancette dell'orologio che teneva al polso non segnassero già l'ora della ritirata, Sergio si decise a scollare la lingua dal palato.
“Se fossi un treno, sarei in ritardo tutto il tempo”
Nonostante i suoi sforzi nel trovare un nuovo discorso su cui tuffarsi, si ritrovò a sguazzare in quello precedente. Per la verità, Sergio non sapeva neppure da quale recondito angolo della sua mente avesse estratto quel pensiero. Sentiva un desiderio impellente di sentirsi gli occhi verdi di lei addosso, come un manto erboso su cui rotolarsi.
Le luci dei fanali delle auto sul cavalcavia e dei lampioni creavano giochi luminescenti sulle pozzanghere ai loro piedi, increspate dagli ultimi fili di pioggia. Era come se da tutta quell'acqua sbocciassero fiori dorati, quasi a farsi beffe degli ultimi colpi di coda dell'inverno.
“Sarà meglio aspettarti” concluse allora d'improvviso la ragazza, regalandogli un sorriso. “Sarebbe un peccato perderti” aggiunse poi facendo roteare il manico dell’ombrello tra le mani. Le finissime gocce di pioggia perlescenti che cadevano simmetriche. Un fresco profumo d’erba che proveniva dalle campagne.
Alla fine dell'inverno dei loro vent'anni, un ragazzo di nome Sergio e una ragazza di nome Allegra fecero la loro reciproca conoscenza davanti ad una squallida fermata dell'urbano nei pressi di via Gorizia, durante un piovoso pomeriggio di sciopero dei mezzi pubblici.
Era il Marzo del 1989 e la primavera quell'anno non sarebbe mai stata così verde.



“Ti fa male?” domanda, poggia la stampella alla sua destra accanto alla borsa.
Sergio la ignora. Si massaggia il ginocchio con la mano ancora intera. Poi risponde.
“Non proprio. Solo quando cambia il tempo”
Stanno in silenzio per un tempo indefinibile. L'aria ancora fresca vibra contro le cortecce degli alberi quando una nuvola di passaggio zittisce il sole, euforico e scalpitante dopo un inverno lungo tre mesi. Le aiuole brillano di un verde colmo di speranza e tutto il parco sembra bisbigliare teneri segreti. Flora vorrebbe rimanere lì, nascosta tra le pieghe di quel silenzio, con la sua spalla sinistra che sorregge l’angolo destro del corpo di lui, il calore di quel contatto che scioglie l'imbarazzo. Non dura a lungo.
“Che giorno è oggi?”
“Un martedì”
Sergio piega gli angoli della bocca con amara consapevolezza. “È sempre un martedì quando usciamo insieme”.
“Già, il dottore dice che fa bene scandire i giorni con degli appuntamenti fissi. Potrebbe aiutarti…sai, a stare meglio. A riacquistare la voglia di pensare al futuro. A noi”
“Mh-mh” risponde laconico, inchiodando lo sguardo sullo spicchio di mare che si intravede oltre la ringhiera che circoscrive i giardini pubblici.
“Non siamo mai stati al parco”
“È primavera, pensavo che gli alberi in fiore ti avrebbero messo di buon umore” si giustifica, portandosi dietro l’orecchio un ricciolo d’ebano, invisibile alla vista.
Flora lo sbircia sotto la frangia, ha i tratti del volto rilassati e sereni. Nessun espressione contrariata, niente eccessi d’ira. Gli occhi piccoli che si confondono tra i cespugli folti di capelli e barba. Sotto quel guscio di un uomo, stanco e distrutto, immagina Sergio a quarantasei anni ridere come se non fosse mai accaduto nulla.
“Ti ricordi quel Ferragosto—”
“Quando Kurt è caduto in acqua mentre ballava la Macarena?” afferrò subito Flora, un accenno di sorriso.
“Sotto il molo...sì, c'era lo scarico fognario e delle...alghe morte?”
“Già, per una settimana ha puzzato di pesce marcio”
Una risata gonfia l’aria, come un palloncino colorato e leggero, si libra alto per poi scomparire tra le chiome degli alberi.
Era bello starsene lì, stretti stretti, sotto il sole che pian piano esplodeva in cielo, penetrava nei pori della pelle, delle piante, attraversava la carne e ridestava l'anima nuda, dormiente, fredda. Esatto fredda perché l’anima non conosce il brivido di essere amata senza trascinarsi dietro la pesantezza dei corpi martoriati.
“Sarà meglio andare. Ho promesso che ti avrei riportato a casa prima di pranzo” si affretta a spiegare, ma il corpo non le risponde, il cuore è più pesante della ragione e la testa plana dolcemente sulla spalla di lui.
Ci riprova. “Dobbiamo andare”
Sergio non le dà ascolto, l'orecchio buono finge di essere sordo ed invece insiste. “Rimaniamo qui. Rimaniamo ancora un altro po', Flora”
Non induce oltre, Flora. Si arrende.
Dopotutto, glielo aveva chiesto Sergio. Cosa poteva fare?
“Sai che mi piace la pioggia primaverile”



Sai, Flora. Se potessi rinascere vorrei essere un fuoco d'artificio. Nascere d'improvviso ad ogni nuovo anno, esplodere di meraviglia sbracciandomi contro l'oscurità della notte, essere la prima cosa che i tuoi occhi vedono di questo nuovo anno e poi morire scivolandoti addosso come neve.
Ricordi ancora il capodanno di quattro anni fa, quando abbiamo fatto esplodere i petardi sul terrazzo? Dicevano che sarebbe stata la fine del mondo. Se dovevo morire l’avrei fatto volentieri con te, con Kurt, coi nostri amici su quel terrazzo pieno di neve.
Tu guardavi il cielo tingersi di rosso e verde. E io guardavo te.
Quest'anno che non ci sei, Flora, cosa farai?
Guarderai ancora il cielo o finalmente ti lascerai guardare?

(Sergio, 31 Dicembre 2004, SMS mai inviato)



Era venuta. Non c'era stato modo di sapere quando fosse arrivata di preciso né da quanto tempo fosse seduta ai piedi della scalinata granitica che portava al Rettorato. Gli olmi bassi dalle chiome gravide e pendenti creavano un perfetto contrasto con il vestito color pesca accentuato dalla tonalità rossiccia assunta dalla sua pelle per via del sole che si scioglieva in un tramonto di inizio autunno. I piedi erano nudi e con le punte solleticava l'erbetta fresca delle aiuole ai margini della scalinata.
“Non sapevo fossi qui” esclamò Sergio sporgendosi dalla balaustra, la cravatta sfatta, i primi due bottoni della camicia azzurrina saltati. Allegra si aprì in una smorfia prima di rispondere.
“Come potevo perdermi il giorno della laurea di Kurt” spiegò con fare teatrale rimettendosi su due piedi per poi aggiungere ironicamente “mi stupisco che non ne abbiano parlato i notiziari”.
Scalza, davanti a Sergio sembrava più piccola di quanto non potesse essere realmente. Un bocciolo di rosa canina in quel tardo settembre del 1992.
“Problemi?” chiese, facendo un cenno alle calzature che teneva in bilico tra il pollice e l’indice e ai piedi nudi. Allegra scrollò le spalle, un gesto che la caratterizzava.
“I sandali non hanno voluto collaborare”. Sergio rise come risposta.
Saranno state le bollicine dello spumante scadente offerto da Kurt ai presenti o il cicaleccio lontano di parenti festosi accorsi per le lauree dei loro figli e nipoti. Qualcosa infuse a Sergio il coraggio per invitare Allegra, con un inchino esagerato, a concedergli un ballo improvvisato. La ragazza squittì a denti stretti e con una riverenza poco aggraziata dentro il suo vestito scampanato, colse la mano tesa di Sergio. Accoccolò l'altra mano dietro la nuca di lui, dove piccoli sbuffi di peluria le solleticarono i polpastrelli. Sapeva di dopobarba e di Arbe Magique. Teneva nella mano destra i sandali stretti a penzolare per le cinghie sfaldate e le punte dei piedi nudi erano salite silenziosamente sopra i mocassini di Sergio.
Il ragazzo cominciò ad intonare un motivetto che faceva compagnia agli ultimi cinguettii degli uccelli che, nascosti tra le foglie degli olmi, osservavano i loro movimenti poco esperti.
Allegra si lasciò cullare dal fischiettare umido di Sergio contro il suo orecchio sinistro. Era una melodia briosa che sapeva di conoscere e che riecheggiava tra le pareti del suo pensiero e per tutto il giardino. “Vivaldi?” azzardò.
Era un dondolio lento il loro, quasi un molleggiante assopirsi, tanto che Sergio non le rispose subito. La fece attendere per poi parlarle sfiorandole con il naso i capelli vanigliati.
“Sì. Hai un buon orecchio per la musica. Sai, ho studiato…beh, studio al Conservatorio.”
“Cosa suoni?”
“Flauto traverso e pianoforte”
D'improvviso Allegra si ridestò e presa dall'entusiasmo esclamò enfaticamente “Adoro il flauto traverso!”.
Il suo entusiasmo era contagioso, la tenerezza in quell'abbraccio impacciato lo rendeva euforico più dello spumante che gli era andato alla testa. E il sole al tramonto non era niente paragonato alle due guance di Allegra accese per l'imbarazzo.
“Ci stanno guardando” aveva mormorato, slacciandosi da quella presa. Le persone scendevano le scale come un piccolo corteo festoso, gli sguardi indiscreti si posavano su di loro con fare insistente.
A quel punto Sergio avrebbe dovuto dire qualcosa, fare qualcosa, fregarsene, baciarla forse. Avrebbe potuto fare tante di quelle cose ma la verità è che avrebbe voluto dirle solo una cosa. No, non ti stanno guardando. Non ti guardano mai abbastanza. Dovresti, invece. Dovresti essere guardata, spesso e da un paio di occhi esperti che saprebbero guardarti meglio e farti vergognare di essere così dannatamente stupenda. Invece non ti guardano, se ne fregano e ci sto solo io che ti guardo e io non so, non so come guardarti.
Invece aveva continuato a fischiettare quella melodia contro l’orecchio di lei come se quello fosse il suo flauto. Una melodia che si andava perdendo tra gli spazi tra di loro.
E Allegra bisbigliava. “Suonami ancora qualcosa, Sergio”
“Suona per me”.



Flora era felice lì, su quella panchina, mentre Sergio le carezzava l’onda di capelli con la mano ancora intera.
“Ieri ho pranzato con tuo padre”
“Mh-mh” Il solito mugolio di risposta.
“E che ti ha detto?” aggiunge, disinteressato. Flora scrolla le spalle.
“Nulla, si sente solo e spera che presto gli farai una visita. Ha una nuova badante, si chiama Katya”
Silenzio da parte sua. Forse non avrebbe dovuto parlargli del padre. Cercò di rimediare.
"E a scuola, sai, c'era questa bambina che non sapeva suonare il flauto, è proprio negata e....beh, sai quanto ci esercitiamo con le scale musicali, no? Ha soffiato così forte che è diventata tutta paonazza”
Ride al ricordo dell’episodio scolastico del giorno precedente, mentre attende una reazione da Sergio. Lo sguardo apatico si camuffa sotto i ciuffi ispidi dei capelli. Flora si chiede cosa che uomo sarebbe oggi Sergio se avesse ancora una mano e un orecchio sano, se non dovesse deambulare con l’aiuto di una stampella, se sarebbe stato lo stesso di un tempo, come quando si erano conosciuti, prima del—
“Anche io all'inizio non sapevo suonare il flauto traverso”
La confessione lascia Flora a dir poco sbalordita. “No, non ci credo”
“Tsk…Avevo le dita troppo corte e non chiudevo bene i fori. Così ho deciso per un po' di suonare il pianoforte. Avresti dovuto sentirmi, ero proprio pessimo nei primi tempi. Non sapevo suonare con due mani”
“Immagino, davvero un bambino prodigio” ribatte languida, assottigliando gli occhi e tirando fuori la lingua, complice il buonumore che stava finalmente contagiando anche lui.
“Sapevo suonare bene le opere di Vivaldi. Quelle elementari s’intende. De Le quattro stagioni, la Primavera era la mia preferita. Mi esercitavo quasi ogni giorno, ero diventato piuttosto bravo”
Uno sbuffo di brezza marina scompiglia le foglie sopra le loro teste e dei petali, simili a coriandoli, vorticosamente calano sulle loro spalle.
“Flora, un giorno di questi me la suoneresti con il violino?” domanda con tono supplichevole. Ed è di nuovo lui, il Sergio di un tempo, il Sergio musicista dalle mille virtù, il Sergio fattosi uomo che a poco a poco aveva cominciato ad amare.
“Certo. Sì, senz'altro.” Non può fare a meno di acconsentire.
“È da così tanto che non mi esercito. Chissà se riderai di me”



Allegra? Sono Kurt. Ascoltami, devi venire subito qui da noi. Fai le valigie. Si tratta...si tratta di Sergio. Lui...insomma, sbrigati a tornare. È combinato piuttosto male. Sono passati ormai quasi quattro anni, smetterai mai di scappare?
(Kurt, Agosto 2008, ore 2:46, messaggio di segreteria telefonica)


Nei giorni della merla del Gennaio dell’anno 1998, tra la sera ventosa del 30 e il mattino burrascoso del 31, Sergio e Allegra avevano per la prima volta dormito insieme sotto il piumone nel nuovo appartamento in via Settembrini. Stretti, non si erano accorti della neve che li aveva spiati dal balcone. L’inverno non gli poteva alcun male.
“È la Primavera” lo informò Allegra vedendo gli occhi di Sergio perlustrare quel minuscolo ritaglio di poster che la ragazza aveva attaccato alla parete ancora spoglia. La sigaretta a pendergli dal labbro inferiore.
Ne aspirò una boccata per poi emettere piccoli sbuffi di fumo opaco che salirono in cima al soffitto. Allegra svuotava gli scatoloni, il chiacchiericcio della televisione minuscola accesa a fare loro compagnia.
“Di Botticelli, sì?” proseguì Sergio, stringendosi nel suo maglione nero e grattandosi, con la sigaretta in bilico tra l’indice e il medio, attento a non bruciarsi, il minuscolo pizzetto che si era deciso a farsi crescere. Allegra lo detestava. Diceva.
“Ti somiglia, sai?”
La ragazza incuriosita lasciò perdere le pile di giornali e ciabattando raggiunse il fianco di Sergio. I capelli lunghi e ondulati a fasciarle il collo marmoreo e sottile.
Sergio indicò un punto preciso del quadretto per poi esclamare “Flora”.
Allegra roteò gli occhi, strinse le braccia sotto il seno e si voltò con aria teneramente offesa. Era solita ingrugnirsi quando Sergio la paragonava a qualche altra donna. Un grugno buffo, amorevole e irresistibile.
“Avresti potuto paragonarmi, almeno, a Venere” bofonchiò, pinzettandogli i fianchi e aprendosi in una risata che tentava di smorzare la serietà del tono che aveva assunto. Ma Sergio era rapito da quella composizione di corpi, da quel fitto fogliame che invadente sembrava impossessarsi della parete ed emergere dalla profondità di quel paesaggio.
“Non credi che Venere sia quasi triste?”
Continuò, spiegandosi meglio.
“È quasi al centro del quadro, ma è come se non prendesse parte ai festeggiamenti per il ritorno della primavera, è spaventata, immobile mentre gli altri personaggi si muovono attorno a lei, sono dinamici”
“E che mi dici delle Grazie, allora?”
Sergio schiodò lo sguardo da Venere per rivolgerlo alle tre deliziose fanciulle che, con fare gioioso, avevano disegnata in viso l’emozione palpabile del girotondo che conducevano. Allegra, curiosa, attendeva la sua spiegazione.
“No, vedi: girano, girano e ridono e non si accorgono di cosa c'è intorno a loro, non fanno caso a noi che le osserviamo. Se ne fregano”
“Guarda bene. Nessuno ci vede, sono troppo presi tutti dalla loro porzione di felicità. Solo lei ci nota. Solo Flora”
Allegra vedeva e trovava se stessa racchiusa in due perfetti emisferi degli occhi di Sergio, occhi scuri, profondi come quella natura sacra rappresentata su quel poster di carta.
“Quindi, perché Flora?” chiese infine, rubandogli il minuscolo mozzicone e affogandolo tra la cenere del piattino lì accanto.
Sergio pensò pensarci un attimo, le labbra contratte in una linea perfetta.
“Hanno sbagliato a chiamarti Allegra, sai. Dovevi chiamarti Flora. Sì, Flora, che è la natura Come quando piove e da una nuvola scopri una striscia di sole, come quando sboccia un fiore nel tempo di una notte. E non c’è molto da capire la natura. E’ maledettamente bella. E tu sei come la natura”
La televisione aveva continuato a borbottare in sottofondo, ma nessuno dei due aveva più prestato attenzione alla sua presenza in quella camera.
“Mi piace” aveva decretato Allegra sottovoce, sfregando il naso contro la schiena di lui.“Se tu lo vorrai, sarò la tua Flora”
“Lo voglio, Flora. Lo voglio”
Quella notte avevano dormito, solo innocentemente dormito. Non erano fatti per l’amore terreno. Silenziosamente erano sprofondati in un sonno ricco di dolci aspettative al loro risveglio.
Flora a mitigare i loro sogni invernali.


“E poi?”
Parlava, parlava, parlava. Era come un fiume in piena, come se avesse ripreso l'uso della parola dopo secoli di mutismo ingiustificato. Flora lo stava ad ascoltare, la testa di Sergio reclinata sulle gambe di lei.
“E poi nulla. Lei se n'è andata e non ho avuto granché modo di pensarci. Mio padre lavorava tutto il giorno in fabbrica e io stavo da mia zia Lauretta”
“Aveva questa strana ossessione per gli animali impagliati ed era pessima a cucinare. Però mi voleva bene”
“Una volta mi ha costretto a mangiare del fegato di merluzzo per due giorni consecutivi. Al terzo giorno ho dato di stomaco”
Un accenno di risata, gli angoli della bocca si piegano all'insù tirando laddove la cicatrice si increspa.
Flora lo asseconda, gli accarezza una guancia. 'Decisamente un esserino delicato'
“Che tu dicevi di amare immensamente” si difende portandosi alle labbra le dita di lei.
“Ehi non ho mai detto questo. E le mie confessioni da ubriaca non fanno testo”
“Un invalido e un'ubriacona. Formiamo davvero una bella coppia”
“Non sei per niente spiritoso” si lamenta, offesa.
L'attrae a sé, strappandole un bacio. 'Lo so, Flora'
C’era stata una prima volta anche per quello, per quelle conversazioni sbarazzine a cui erano seguite tante, tante altre. C’erano state tante prime volte, ma per Sergio, mai nessuna aveva il sapore delle pesche.



Grazie. Con la tua presenza, mi hai resa primavera, io che provenivo dai più rigidi degli inverni.
(Allegra, Ottobre 2009, Clinica oncologica— un martedì. L'ultimo.)



“Sergio, ti ricordi il nostro primo bacio?”

“Sì, è stato proprio laggiù”

“Era una sera di Novembre”

“Il sole stava quasi tramontando”

“Avevamo finito la lezione al Conservatorio.
Io ero ancora tua alunna. Tu hai insistito per accompagnarmi a casa”



“C'era odore di zagara e tutti gli alberi del parco si erano fatti più scuri con l'imbrunire.
Tu volevi a tutti i costi salire sul palchetto della musica”



“Avevi infilato la mia mano fredda nella tasca del tuo cappotto e la trattenevi tra le tue dita”



“Eri una bellezza. Eri un'opera d'arte, facevi parte di un quadro.
Sì, esatto un quadro, come quello incorniciato sulla parete della tua camera.
Ed eri Flora, la mia Flora”



“Ti sei chinato su di me e mi hai dato un bacio sulle mie labbra screpolate,
augurandomi la buonanotte”



“I bambini che giocavano e ridevano sulle altalene, intonavano un girotondo mentre una coppia di ragazzini quindicenni era appartata e si baciava.
Dio, perché io non ti ho baciata? Per quanto volessi che tu fossi Flora, in realtà eri, sei e rimarrai la Venere dalla bellezza triste, in disparte e irraggiungibile.”



“Ti ho baciata nella mia testa su quel palco almeno mille volte, ogni giorno, alla stessa ora. Ed ora che tu non ci sei, adesso che non sei qui, non so più come pensarti”



Le guance di Flora rigate dalle lacrime profumano di limone. Lo riportano alla realtà.
“Dobbiamo andare a casa, Sergio.”
Sergio non parla, sta in silenzio. Flora lo aiuta ad alzarsi.
“Dobbiamo aspettarla qui, Flora. Gliel'ho promesso” obietta, ma è stanco anche lui.
Gli infila la stampella sotto un braccio.
“Lo so. Domani, arriverà vedrai”





Una mano gli sfiora il mento. Allegra si accoccola gentilmente contro il petto di lui, i suoi capelli sparpagliati sul suo sterno. Questo desiderio spasmodico di sentirsi vicini, uniti, stretti: lembi di pelle cuciti a misura d'anima.
Sergio è sdraiato su una coperta, sopra il pavimento piastrellato del palco, finge di dormire.
“È sempre primavera qui” constata Allegra, gli occhi verdi spalancati che inghiottono tutto ciò che incontra.
“Perché qui sei tu a portarla” bisbiglia, le sue labbra emettono un sibilo impercettibile, mentre l'ombra delle sue ciglia chiuse si allarga sul suo viso. Dietro di loro, un tramonto dagli arancioni sfumati, immutabile nella sua meraviglia e nell'aria una fragranza fruttata, dolce, che invita al sonno, un sonno profondo.
“Sergio?” attira la sua attenzione, deve far presto prima che anche lei scivoli incautamente nell'incoscienza di quel sogno.
“Mh?”
“Una volta ti ho detto che se tu fossi stato un treno, io ti avrei aspettato anche se fossi arrivato in ritardo. Ora io ti chiedo: se fossi primavera, se fossi davvero Flora, mi aspetteresti qui? Aspetteresti tutto l'inverno solo per rivedermi?”
Gli occhi di Sergio si schiudono, la mano sui fianchi larghi di Allegra si fa più presente. Soffre il solletico, Allegra, ma sorride in silenzio.
“Flora, sei proprio stupida a volte” le mormora stuzzicandole la fronte con le labbra.
Il nomignolo affibbiatole le riporta a galla ricordi eterei, talmente splendenti che al sol confronto l'arancione del tramonto illividisce diventando sempre più pallido, chiaro, sino a tramutarsi in una distesa di candidi gelsomini, soffici come la neve appena caduta.
“Qui non è mai inverno”

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NdA: Questa storia partecipa al contest "Art for Art's Sake" di Panda e xSophia” e mi è stata assegnata come opera La Primavera di Botticelli.

Salve a tutti, abitanti di minimondo Efp.
Come avete potuto leggere questa storia è stato un ritaglio di un progetto più grande a cui sto lavorando e in quanto partecipante al contest l’ho dovuta adattare per renderla calzante al tema. La storia principale si snoda nell’arco di una mattinata mentre i flashback in diversi anni, tutti opportunamente indicati eccettuato l’ultima parte che ho deciso di lasciarla alla vostra immaginazione. La storia si risolve nei personaggi di Sergio e Allegra, talmente vicini da non saper vivere l’uno senza dell’altra, ma non abbastanza per amarsi completamente. La notte del Dicembre del 2004, Sergio ha un incidente con un petardo, perdendo le dita di una mano e un orecchio. Da quel momento entra in uno stato di depressione accentuato anche dalla lontananza di Allegra, sentendosi in parte responsabile del malessere di Sergio. Nel racconto ho evitato di narrare l’anno in cui i due hanno finalmente fatto pace con se stessi, accennando in breve al fatto che Allegra purtroppo non riesce per molto a stare accanto a Sergio: un cancro al seno infatti la porterà via nell’Ottobre del 2009. Flora con cui Sergio parla nel presente è la sua compagna, ex-alunna con la quale aveva intrattenuto una relazione nel periodo di lontananza da Allegra.
Spero che con questa mia sintetica spiegazione abbia reso più chiaro questa follia, a cui tuttavia tengo particolarmente.
Senza alcun impegno, fatemi sapere cosa ne pensate.
See ya.

   
 
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