You
made me spring
No,
non ci amavamo. Per la verità non
siamo mai stati innamorati. Ma qualcosa siamo stati: forse amici, quasi
insieme. No, non ci siamo amati veramente, tranne forse quando, da
soli,
morivamo.
(Sergio,
Marzo 2003, retro di un tovagliolo di un bar)
La
vedeva, era impossibile non vederla. In mezzo a quel brusio di mille
voci stonate, la folla gracidante e dai contorni acquerellati
dall'acquazzone
pomeridiano, c'era lei: un elemento caotico, cangiante in quella
distesa di
grigi monocromatica.
Era
su un rettangolo di marciapiede, alla fermata dell'urbano,
là dove le
pozzanghere inghiottivano i riflessi dei passanti per poi essere
strappate
dalle ruote taglienti delle auto in corsa sotto la pioggia battente.
Era
forse la pioggia che l'aveva fatta somigliare ad una fata dei boschi,
lei che emergeva tra il fitto di persone in quella nicchia lacustre,
con due
orecchie sporgenti dai i capelli talmente corti da lasciarle la nuca
scoperta.
Ed era sfacciatamente e irrispettosamente verde.
No,
non esageriamo. Se ci ripensa meglio, Sergio dubita che il verde della
giacca a vento della ragazza avesse qualcosa a che fare con
ciò che i suoi
occhi avevano visto. Qualcosa nel colorito poco salubre della ragazza
deve
avergli fatto credere che fosse una qualche specie aliena o forse era
tutta
colpa dei suoi occhi: due pozze di smeraldo che lo guardavano
furbescamente
interrogativi.
“Mi
stavi aspettando?” esordì la Fata sgusciando gli
stivali in gomma
contro una conca d'acqua piovana. Sergio, vinto lo stupore del momento,
vedendola uscire da quel capanno di persone le tese istintivamente
l'ombrello.
Sarebbe stato un peccato se si fosse bagnata, lei che sembrava non
viverci bene
con la pioggia addosso.
“Siamo
decisamente in ritardo e tu, stranamente in anticipo”
commentò
Melchiorre, detto ironicamente Kurt, al fianco di Sergio mentre si
affannava ad
evitare le schegge d'acqua che gli rigavano gli occhiali. A quanto
pare il nomignolo affibbiatogli era una creazione di Sergio, quando
l'amico
aveva deciso di farsi crescere i capelli ed assumere le sembianze di un
Kurt
Cobain tarchiato e panciuto. Insomma, una brutta copia. Lui che non
ascoltava
neanche i Nirvana. Che tipo.
“Non
c'è molto da fare affidamento sugli autobus”
confessò la ragazza con
un tono tra lo scocciato e il fintamente offeso, appendendosi di
più
all'ombrellino in plastica il cui manico continuava a rigirarsi tra le
dita.
Kurt
la incalzò. “O sui treni” disse e con un
gesto estrasse dalla carpetta
che teneva sotto l’ascella un album da disegno che
consegnò alla sua
interlocutrice. “Per Lory”.
Kurt
studiava architettura a tempo perso e benché fosse incline a
mollare
l'università, erano due le ragioni che lo spingevano a
rimanere e queste si
chiamavano Sergio, il suo migliore amico, e Loredana, la sua
si-spera-quasi-ragazza nonché coinquilina della suddetta
Fata-senza-nome.
Avvenuto
lo scambio, dopo aver controllato che le lancette dell'orologio
che teneva al polso non segnassero già l'ora della ritirata,
Sergio si decise a
scollare la lingua dal palato.
“Se
fossi un treno, sarei in ritardo tutto il tempo”
Nonostante
i suoi sforzi nel trovare un nuovo discorso su cui tuffarsi, si
ritrovò a sguazzare in quello precedente. Per la
verità, Sergio non sapeva
neppure da quale recondito angolo della sua mente avesse estratto quel
pensiero. Sentiva un desiderio impellente di sentirsi gli occhi verdi
di lei
addosso, come un manto erboso su cui rotolarsi.
Le
luci dei fanali delle auto sul cavalcavia e dei lampioni creavano
giochi
luminescenti sulle pozzanghere ai loro piedi, increspate dagli ultimi
fili di
pioggia. Era come se da tutta quell'acqua sbocciassero fiori dorati,
quasi a
farsi beffe degli ultimi colpi di coda dell'inverno.
“Sarà
meglio aspettarti” concluse allora d'improvviso la ragazza,
regalandogli un sorriso. “Sarebbe un peccato
perderti” aggiunse poi facendo
roteare il manico dell’ombrello tra le mani. Le finissime
gocce di pioggia
perlescenti che cadevano simmetriche. Un fresco profumo
d’erba che proveniva
dalle campagne.
Alla
fine dell'inverno dei loro vent'anni, un ragazzo di nome Sergio e una
ragazza di nome Allegra fecero la loro reciproca conoscenza davanti ad
una
squallida fermata dell'urbano nei pressi di via Gorizia, durante un
piovoso pomeriggio
di sciopero dei mezzi pubblici.
Era
il Marzo del 1989 e la primavera quell'anno non sarebbe mai stata
così
verde.
“Ti
fa male?” domanda, poggia la stampella alla sua destra
accanto alla
borsa.
Sergio
la ignora. Si massaggia il ginocchio con la mano ancora intera. Poi
risponde.
“Non
proprio. Solo quando cambia il tempo”
Stanno
in silenzio per un tempo indefinibile. L'aria ancora fresca vibra
contro le cortecce degli alberi quando una nuvola di passaggio zittisce
il
sole, euforico e scalpitante dopo un inverno lungo tre mesi. Le aiuole
brillano
di un verde colmo di speranza e tutto il parco sembra bisbigliare
teneri
segreti. Flora vorrebbe rimanere lì, nascosta tra le pieghe
di quel silenzio,
con la sua spalla sinistra che sorregge l’angolo destro del
corpo di lui, il
calore di quel contatto che scioglie l'imbarazzo. Non dura a lungo.
“Che
giorno è oggi?”
“Un
martedì”
Sergio
piega gli angoli della bocca con amara consapevolezza.
“È sempre un
martedì quando usciamo insieme”.
“Già,
il dottore dice che fa bene scandire i giorni con degli appuntamenti
fissi. Potrebbe aiutarti…sai, a stare meglio. A riacquistare
la voglia di
pensare al futuro. A noi”
“Mh-mh”
risponde laconico, inchiodando lo sguardo sullo spicchio di mare
che si intravede oltre la ringhiera che circoscrive i giardini pubblici.
“Non
siamo mai stati al parco”
“È
primavera, pensavo che gli alberi in fiore ti avrebbero messo di buon
umore” si giustifica, portandosi dietro l’orecchio
un ricciolo d’ebano,
invisibile alla vista.
Flora
lo sbircia sotto la frangia, ha i tratti del volto rilassati e
sereni. Nessun espressione contrariata, niente eccessi d’ira.
Gli occhi piccoli
che si confondono tra i cespugli folti di capelli e barba. Sotto quel
guscio di
un uomo, stanco e distrutto, immagina Sergio a quarantasei anni ridere
come se
non fosse mai accaduto nulla.
“Ti
ricordi quel Ferragosto—”
“Quando
Kurt è caduto in acqua mentre ballava la
Macarena?” afferrò subito
Flora, un accenno di sorriso.
“Sotto
il molo...sì, c'era lo scarico fognario e delle...alghe
morte?”
“Già,
per una settimana ha puzzato di pesce marcio”
Una
risata gonfia l’aria, come un palloncino colorato e leggero,
si libra
alto per poi scomparire tra le chiome degli alberi.
Era
bello starsene lì, stretti stretti, sotto il sole che pian
piano
esplodeva in cielo, penetrava nei pori della pelle, delle piante,
attraversava
la carne e ridestava l'anima nuda, dormiente, fredda. Esatto fredda
perché
l’anima non conosce il brivido di essere amata senza
trascinarsi dietro la
pesantezza dei corpi martoriati.
“Sarà
meglio andare. Ho promesso che ti avrei riportato a casa prima di
pranzo” si affretta a spiegare, ma il corpo non le risponde,
il cuore è più
pesante della ragione e la testa plana dolcemente sulla spalla di lui.
Ci
riprova. “Dobbiamo andare”
Sergio
non le dà ascolto, l'orecchio buono finge di essere sordo ed
invece
insiste. “Rimaniamo qui. Rimaniamo ancora un altro po',
Flora”
Non
induce oltre, Flora. Si arrende.
Dopotutto,
glielo aveva chiesto Sergio. Cosa poteva fare?
“Sai
che mi piace la pioggia
primaverile”
Sai,
Flora. Se potessi rinascere vorrei
essere un fuoco d'artificio. Nascere d'improvviso ad ogni nuovo anno,
esplodere
di meraviglia sbracciandomi contro l'oscurità della notte,
essere la prima cosa
che i tuoi occhi vedono di questo nuovo anno e poi morire scivolandoti
addosso
come neve.
Ricordi
ancora il capodanno di quattro
anni fa, quando abbiamo fatto esplodere i petardi sul terrazzo?
Dicevano che sarebbe stata la fine del
mondo. Se dovevo morire l’avrei fatto volentieri con te, con
Kurt, coi nostri
amici su quel terrazzo pieno di neve.
Tu
guardavi il cielo tingersi di rosso e
verde. E io guardavo te.
Quest'anno
che non ci sei, Flora, cosa
farai?
Guarderai
ancora il cielo o finalmente ti
lascerai guardare?
(Sergio,
31 Dicembre 2004, SMS mai inviato)
Era
venuta. Non c'era stato modo di sapere quando fosse arrivata di preciso
né da quanto tempo fosse seduta ai piedi della scalinata
granitica che portava
al Rettorato. Gli olmi bassi dalle chiome gravide e pendenti creavano
un
perfetto contrasto con il vestito color pesca accentuato dalla
tonalità
rossiccia assunta dalla sua pelle per via del sole che si scioglieva in
un
tramonto di inizio autunno. I piedi erano nudi e con le punte
solleticava
l'erbetta fresca delle aiuole ai margini della scalinata.
“Non
sapevo fossi qui” esclamò Sergio sporgendosi dalla
balaustra, la
cravatta sfatta, i primi due bottoni della camicia azzurrina saltati.
Allegra
si aprì in una smorfia prima di rispondere.
“Come
potevo perdermi il giorno della laurea di Kurt”
spiegò con fare
teatrale rimettendosi su due piedi per poi aggiungere ironicamente
“mi stupisco
che non ne abbiano parlato i notiziari”.
Scalza,
davanti a Sergio sembrava più piccola di quanto non potesse
essere
realmente. Un bocciolo di rosa canina in quel tardo settembre del 1992.
“Problemi?”
chiese, facendo un cenno alle calzature che teneva in bilico
tra il pollice e l’indice e ai piedi nudi. Allegra
scrollò le spalle, un gesto
che la caratterizzava.
“I
sandali non hanno voluto collaborare”. Sergio rise come
risposta.
Saranno
state le bollicine dello spumante scadente offerto da Kurt ai
presenti o il cicaleccio lontano di parenti festosi accorsi per le
lauree dei
loro figli e nipoti. Qualcosa infuse a Sergio il coraggio per invitare
Allegra,
con un inchino esagerato, a concedergli un ballo improvvisato. La
ragazza
squittì a denti stretti e con una riverenza poco aggraziata
dentro il suo
vestito scampanato, colse la mano tesa di Sergio. Accoccolò
l'altra mano dietro
la nuca di lui, dove piccoli sbuffi di peluria le solleticarono i
polpastrelli.
Sapeva di dopobarba e di Arbe Magique. Teneva nella mano destra i
sandali stretti
a penzolare per le cinghie sfaldate e le punte dei piedi nudi erano
salite
silenziosamente sopra i mocassini di Sergio.
Il
ragazzo cominciò ad intonare un motivetto che faceva
compagnia agli
ultimi cinguettii degli uccelli che, nascosti tra le foglie degli olmi,
osservavano i loro movimenti poco esperti.
Allegra
si lasciò cullare dal fischiettare umido di Sergio contro il
suo orecchio
sinistro. Era una melodia briosa che sapeva di conoscere e che
riecheggiava tra
le pareti del suo pensiero e per tutto il giardino.
“Vivaldi?” azzardò.
Era
un dondolio lento il loro, quasi un molleggiante assopirsi, tanto che
Sergio non le rispose subito. La fece attendere per poi parlarle
sfiorandole
con il naso i capelli vanigliati.
“Sì.
Hai un buon orecchio per la musica. Sai, ho studiato…beh,
studio al
Conservatorio.”
“Cosa
suoni?”
“Flauto
traverso e pianoforte”
D'improvviso
Allegra si ridestò e presa dall'entusiasmo
esclamò
enfaticamente “Adoro il flauto traverso!”.
Il
suo entusiasmo era contagioso, la tenerezza in quell'abbraccio
impacciato
lo rendeva euforico più dello spumante che gli era andato
alla testa. E il sole
al tramonto non era niente paragonato alle due guance di Allegra accese
per
l'imbarazzo.
“Ci
stanno guardando” aveva mormorato, slacciandosi da quella
presa. Le
persone scendevano le scale come un piccolo corteo festoso, gli sguardi
indiscreti si posavano su di loro con fare insistente.
A
quel punto Sergio avrebbe dovuto dire qualcosa, fare qualcosa,
fregarsene,
baciarla forse. Avrebbe potuto fare tante di quelle cose ma la
verità è che
avrebbe voluto dirle solo una cosa. No, non ti stanno
guardando. Non ti
guardano mai abbastanza. Dovresti, invece. Dovresti essere guardata,
spesso e
da un paio di occhi esperti che saprebbero guardarti meglio e farti
vergognare
di essere così dannatamente stupenda. Invece non ti
guardano, se ne fregano e
ci sto solo io che ti guardo e io non so, non so come guardarti.
Invece
aveva continuato a fischiettare quella melodia contro
l’orecchio di
lei come se quello fosse il suo flauto. Una melodia che si andava
perdendo tra
gli spazi tra di loro.
E
Allegra bisbigliava. “Suonami ancora qualcosa,
Sergio”
“Suona
per me”.
Flora
era felice lì, su quella panchina, mentre Sergio le
carezzava l’onda
di capelli con la mano ancora intera.
“Ieri
ho pranzato con tuo padre”
“Mh-mh”
Il solito mugolio di risposta.
“E
che ti ha detto?” aggiunge, disinteressato. Flora scrolla le
spalle.
“Nulla,
si sente solo e spera che presto gli farai una visita. Ha una nuova
badante, si chiama Katya”
Silenzio
da parte sua. Forse non avrebbe dovuto parlargli del padre.
Cercò
di rimediare.
"E
a scuola, sai, c'era questa bambina che non sapeva suonare il flauto,
è
proprio negata e....beh, sai quanto ci esercitiamo con le scale
musicali, no?
Ha soffiato così forte che è diventata tutta
paonazza”
Ride
al ricordo dell’episodio scolastico del giorno precedente,
mentre
attende una reazione da Sergio. Lo sguardo apatico si camuffa sotto i
ciuffi
ispidi dei capelli. Flora si chiede cosa che uomo sarebbe oggi Sergio
se avesse
ancora una mano e un orecchio sano, se non dovesse deambulare con
l’aiuto di
una stampella, se sarebbe stato lo stesso di un tempo, come quando si
erano
conosciuti, prima del—
“Anche
io all'inizio non sapevo suonare il flauto traverso”
La
confessione lascia Flora a dir poco sbalordita. “No, non ci
credo”
“Tsk…Avevo
le dita troppo corte e non chiudevo bene i fori. Così ho
deciso
per un po' di suonare il pianoforte. Avresti dovuto sentirmi, ero
proprio
pessimo nei primi tempi. Non sapevo suonare con due mani”
“Immagino,
davvero un bambino prodigio” ribatte languida, assottigliando
gli occhi e tirando fuori la lingua, complice il buonumore che stava
finalmente
contagiando anche lui.
“Sapevo
suonare bene le opere di Vivaldi. Quelle elementari
s’intende. De Le quattro stagioni,
la Primavera era la
mia preferita. Mi esercitavo quasi ogni giorno, ero diventato piuttosto
bravo”
Uno
sbuffo di brezza marina scompiglia le foglie sopra le loro teste e dei
petali, simili a coriandoli, vorticosamente calano sulle loro spalle.
“Flora,
un giorno di questi me la suoneresti con il violino?” domanda
con
tono supplichevole. Ed è di nuovo lui, il Sergio di un
tempo, il Sergio
musicista dalle mille virtù, il Sergio fattosi uomo che a
poco a poco aveva
cominciato ad amare.
“Certo.
Sì, senz'altro.” Non può fare a meno di
acconsentire.
“È
da così tanto che non mi esercito. Chissà se riderai di me”
Allegra?
Sono Kurt. Ascoltami, devi venire
subito qui da noi. Fai le valigie. Si tratta...si tratta di Sergio.
Lui...insomma, sbrigati a tornare. È combinato piuttosto
male. Sono passati
ormai quasi quattro anni, smetterai mai di scappare?
(Kurt,
Agosto 2008, ore 2:46, messaggio di segreteria
telefonica)
Nei
giorni della merla del Gennaio dell’anno 1998, tra la sera
ventosa del
30 e il mattino burrascoso del 31, Sergio e Allegra avevano per la
prima volta
dormito insieme sotto il piumone nel nuovo appartamento in via
Settembrini.
Stretti, non si erano accorti della neve che li aveva spiati dal
balcone.
L’inverno non gli poteva alcun male.
“È
la Primavera” lo
informò
Allegra vedendo gli occhi di Sergio perlustrare quel minuscolo ritaglio
di
poster che la ragazza aveva attaccato alla parete ancora spoglia. La
sigaretta
a pendergli dal labbro inferiore.
Ne
aspirò una boccata per poi emettere piccoli sbuffi di fumo
opaco che
salirono in cima al soffitto. Allegra svuotava gli scatoloni, il
chiacchiericcio
della televisione minuscola accesa a fare loro compagnia.
“Di
Botticelli, sì?” proseguì Sergio,
stringendosi nel suo maglione nero e
grattandosi, con la sigaretta in bilico tra l’indice e il
medio, attento a non
bruciarsi, il minuscolo pizzetto che si era deciso a farsi crescere.
Allegra lo
detestava. Diceva.
“Ti
somiglia, sai?”
La
ragazza incuriosita lasciò perdere le pile di giornali e
ciabattando
raggiunse il fianco di Sergio. I capelli lunghi e ondulati a fasciarle
il collo
marmoreo e sottile.
Sergio
indicò un punto preciso del quadretto per poi esclamare
“Flora”.
Allegra
roteò gli occhi, strinse le braccia sotto il seno e si
voltò con
aria teneramente offesa. Era solita ingrugnirsi quando Sergio la
paragonava a
qualche altra donna. Un grugno buffo, amorevole e irresistibile.
“Avresti
potuto paragonarmi, almeno, a Venere” bofonchiò,
pinzettandogli i
fianchi e aprendosi in una risata che tentava di smorzare la
serietà del tono
che aveva assunto. Ma Sergio era rapito da quella composizione di
corpi, da
quel fitto fogliame che invadente sembrava impossessarsi della parete
ed
emergere dalla profondità di quel paesaggio.
“Non
credi che Venere sia quasi triste?”
Continuò,
spiegandosi meglio.
“È
quasi al centro del quadro, ma è come se non prendesse parte
ai
festeggiamenti per il ritorno della primavera, è spaventata,
immobile mentre
gli altri personaggi si muovono attorno a lei, sono dinamici”
“E
che mi dici delle Grazie, allora?”
Sergio
schiodò lo sguardo da Venere per rivolgerlo alle tre
deliziose
fanciulle che, con fare gioioso, avevano disegnata in viso
l’emozione palpabile
del girotondo che conducevano. Allegra, curiosa, attendeva la sua
spiegazione.
“No,
vedi: girano, girano e ridono e non si accorgono di cosa c'è
intorno a
loro, non fanno caso a noi che le osserviamo. Se ne fregano”
“Guarda
bene. Nessuno ci vede, sono troppo presi tutti dalla loro porzione
di felicità. Solo lei ci nota. Solo Flora”
Allegra
vedeva e trovava se stessa racchiusa in due perfetti emisferi degli
occhi di Sergio, occhi scuri, profondi come quella natura sacra
rappresentata
su quel poster di carta.
“Quindi,
perché Flora?” chiese infine, rubandogli il
minuscolo mozzicone e
affogandolo tra la cenere del piattino lì accanto.
Sergio
pensò pensarci un attimo, le labbra contratte in una linea
perfetta.
“Hanno
sbagliato a chiamarti Allegra, sai. Dovevi chiamarti Flora.
Sì,
Flora, che è la natura Come quando piove e da una nuvola
scopri una striscia di
sole, come quando sboccia un fiore nel tempo di una notte. E non
c’è molto da
capire la natura. E’ maledettamente bella. E tu sei come la
natura”
La
televisione aveva continuato a borbottare in sottofondo, ma nessuno dei
due aveva più prestato attenzione alla sua presenza in
quella camera.
“Mi
piace” aveva decretato Allegra sottovoce, sfregando il naso
contro la
schiena di lui.“Se tu lo vorrai, sarò la tua
Flora”
“Lo
voglio, Flora. Lo voglio”
Quella
notte avevano dormito, solo innocentemente dormito. Non erano fatti
per l’amore terreno. Silenziosamente erano sprofondati in un
sonno ricco di
dolci aspettative al loro risveglio.
Flora
a mitigare i loro sogni invernali.
“E
poi?”
Parlava,
parlava, parlava. Era come un fiume in piena, come se avesse
ripreso l'uso della parola dopo secoli di mutismo ingiustificato. Flora
lo
stava ad ascoltare, la testa di Sergio reclinata sulle gambe di lei.
“E
poi nulla. Lei se n'è andata e non ho avuto
granché modo di pensarci.
Mio padre lavorava tutto il giorno in fabbrica e io stavo da mia zia
Lauretta”
“Aveva
questa strana ossessione per gli animali impagliati ed era pessima a
cucinare. Però mi voleva bene”
“Una
volta mi ha costretto a mangiare del fegato di merluzzo per due giorni
consecutivi. Al terzo giorno ho dato di stomaco”
Un
accenno di risata, gli angoli della bocca si piegano
all'insù tirando
laddove la cicatrice si increspa.
Flora
lo asseconda, gli accarezza una guancia. 'Decisamente un esserino
delicato'
“Che
tu dicevi di amare immensamente” si difende portandosi alle
labbra le
dita di lei.
“Ehi
non ho mai detto questo. E le mie confessioni da ubriaca non fanno
testo”
“Un
invalido e un'ubriacona. Formiamo davvero una bella coppia”
“Non
sei per niente spiritoso” si lamenta, offesa.
L'attrae
a sé, strappandole un bacio. 'Lo so, Flora'
C’era
stata una prima volta anche per quello, per quelle conversazioni
sbarazzine a cui erano seguite tante, tante altre. C’erano
state tante prime
volte, ma per Sergio, mai nessuna aveva il sapore delle pesche.
Grazie.
Con la tua presenza, mi hai resa
primavera, io che provenivo dai più rigidi degli inverni.
(Allegra,
Ottobre 2009, Clinica oncologica— un
martedì. L'ultimo.)
“Sergio,
ti ricordi il nostro primo bacio?”
“Sì,
è stato proprio laggiù”
“Era
una sera di Novembre”
“Il
sole stava quasi tramontando”
“Avevamo
finito la lezione al Conservatorio.
Io
ero ancora tua alunna. Tu hai insistito per accompagnarmi a
casa”
“C'era
odore di zagara e tutti gli alberi del parco si
erano fatti più scuri con l'imbrunire.
Tu
volevi a tutti i costi salire sul palchetto della
musica”
“Avevi
infilato la mia mano fredda nella tasca del tuo cappotto e la
trattenevi tra le tue dita”
“Eri
una bellezza. Eri un'opera d'arte, facevi parte
di un quadro.
Sì,
esatto un quadro, come quello incorniciato sulla
parete della tua camera.
Ed
eri Flora, la mia Flora”
“Ti
sei chinato su di me e mi hai dato un bacio sulle mie labbra
screpolate,
augurandomi
la buonanotte”
“I
bambini che giocavano e ridevano sulle altalene,
intonavano un girotondo mentre una coppia di ragazzini quindicenni era
appartata e si baciava.
Dio, perché io non ti ho baciata?
Per quanto volessi
che tu fossi Flora, in realtà eri, sei e rimarrai la Venere
dalla bellezza
triste, in disparte e irraggiungibile.”
“Ti
ho baciata nella mia testa su quel palco almeno
mille volte, ogni giorno, alla stessa ora. Ed ora che tu non ci sei,
adesso che
non sei qui, non so più come pensarti”
Le
guance di Flora rigate dalle lacrime profumano di limone. Lo riportano
alla realtà.
“Dobbiamo
andare a casa, Sergio.”
Sergio
non parla, sta in silenzio. Flora lo aiuta ad alzarsi.
“Dobbiamo
aspettarla qui, Flora. Gliel'ho promesso” obietta, ma
è stanco
anche lui.
Gli
infila la stampella sotto un braccio.
“Lo
so. Domani, arriverà vedrai”
Una
mano gli sfiora il mento. Allegra si accoccola gentilmente contro il
petto di lui, i suoi capelli sparpagliati sul suo sterno. Questo
desiderio
spasmodico di sentirsi vicini, uniti, stretti: lembi di pelle cuciti a
misura
d'anima.
Sergio
è sdraiato su una coperta, sopra il pavimento piastrellato
del
palco, finge di dormire.
“È
sempre primavera qui” constata Allegra, gli occhi verdi
spalancati che
inghiottono tutto ciò che incontra.
“Perché
qui sei tu a portarla” bisbiglia, le sue labbra emettono un
sibilo
impercettibile, mentre l'ombra delle sue ciglia chiuse si allarga sul
suo viso.
Dietro di loro, un tramonto dagli arancioni sfumati, immutabile nella
sua
meraviglia e nell'aria una fragranza fruttata, dolce, che invita al
sonno, un
sonno profondo.
“Sergio?”
attira la sua attenzione, deve far presto prima che anche lei
scivoli incautamente nell'incoscienza di quel sogno.
“Mh?”
“Una
volta ti ho detto che se tu fossi stato un treno, io ti avrei
aspettato anche se fossi arrivato in ritardo. Ora io ti chiedo: se
fossi
primavera, se fossi davvero Flora, mi aspetteresti qui? Aspetteresti
tutto l'inverno
solo per rivedermi?”
Gli
occhi di Sergio si schiudono, la mano sui fianchi larghi di Allegra si
fa più presente. Soffre il solletico, Allegra, ma sorride in
silenzio.
“Flora,
sei proprio stupida a volte” le mormora stuzzicandole la
fronte con
le labbra.
Il
nomignolo affibbiatole le riporta a galla ricordi eterei, talmente
splendenti
che al sol confronto l'arancione del tramonto illividisce diventando
sempre più
pallido, chiaro, sino a tramutarsi in una distesa di candidi gelsomini,
soffici
come la neve appena caduta.
“Qui
non è mai inverno”
______________________________________
NdA:
Questa storia partecipa al contest
"Art for Art's Sake" di Panda e xSophia” e mi è
stata assegnata come
opera La Primavera
di Botticelli.
Salve
a tutti, abitanti di minimondo Efp.
Come avete potuto leggere questa storia è stato un ritaglio
di un progetto
più grande a cui sto lavorando e in quanto partecipante al
contest l’ho dovuta
adattare per renderla calzante al tema. La storia principale si snoda
nell’arco
di una mattinata mentre i flashback in diversi anni, tutti
opportunamente
indicati eccettuato l’ultima parte che ho deciso di lasciarla
alla vostra
immaginazione. La storia si risolve nei personaggi di Sergio e Allegra,
talmente vicini da non saper vivere l’uno senza
dell’altra, ma non abbastanza
per amarsi completamente. La notte del Dicembre del 2004, Sergio ha un
incidente con un petardo, perdendo le dita di una mano e un orecchio.
Da quel
momento entra in uno stato di depressione accentuato anche dalla
lontananza di
Allegra, sentendosi in parte responsabile del malessere di Sergio. Nel
racconto
ho evitato di narrare l’anno in cui i due hanno finalmente
fatto pace con se
stessi, accennando in breve al fatto che Allegra purtroppo non riesce
per molto
a stare accanto a Sergio: un cancro al seno infatti la
porterà via nell’Ottobre
del 2009. Flora con cui Sergio parla nel presente è la sua
compagna, ex-alunna
con la quale aveva intrattenuto una relazione nel periodo di lontananza
da
Allegra.
Spero che con questa mia sintetica spiegazione abbia reso
più chiaro questa
follia, a cui tuttavia tengo particolarmente.
Senza alcun impegno, fatemi sapere cosa ne pensate.
See ya.