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Autore: FRAMAR    01/10/2016    30 recensioni
C'era sempre la questione della rivoltella a tormentarmi e l'intenzione di Matteo di regolare i conti con Simone in maniera cruenta: se lui lo avesse ucciso anche io mi sentivo responsabile.
Genere: Commedia, Generale, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Me lo dai un bacio?


 
Un’altra Domenica stava per finire: Fuori dall’Astrolabio nella nebbia partivano le utilitarie stracariche e si toglievamo i lucchetti alle moto e ai motorini. Io avevo vagato nel parcheggio alla ricerca di un posto qualsiasi, ma nessuno era in grado di darmi un passaggio per il ritorno.

“Ma dai non vedi che non ci stiamo?”.  Mi ero sentito dire. Poi dall’interno di un’utilitaria qualcuno aveva esclamato: “Quello lì è il solito scemo, si fa mollare, e poi non riesce a rientrare”.  Erano seguite delle risate.

L’enorme discoteca  con due piste da ballo aveva ingoiato tutti senza distinzione sin dalle prime ore del pomeriggio e ora li rigettava fuori nel buio dopo averli intontiti di musica e fatti sgambettare come forsennati. Spinsi i pugni nelle tasche del giaccone, l’umidità mi penetrava nelle ossa, ma non mi decidevo ad avviarmi. Dalla balera sfolgorante di luci in mezzo al prato giungeva la musica che intratteneva gli ultimi rimasti.

Era inutile sperare di imbattersi in Vincenzo e Alberto. Quelli se l’erano squagliata per conto loro. Era logico essersi persi di vista nella calca, ma credevo  probabile incontrarli all’uscita.
Ancora grazie che m’avevano rimorchiato fin lì, in fondo li conoscevo appena e non avrei dovuto fidarmi. Alberto con gli occhioni rotondi e la magrezza da deportato mi pareva un ragazzo privo d’attrattive almeno quanto me. Non mi garbava di accompagnarmi con quei bamboloni che ti fanno sentire un verme. In quanto a Vincenzo andava pazzo per il ballo: anche quando vendeva chiodi nella bottega del padre, si muoveva continuamente come avesse le pulci. Però cosi adesso io avevo capito che oltre il ballo  gli piacevano anche le ragazze.

Mi mossi verso lo stradone. L’autobus passava ogni quaranta minuti, ma a volte ne saltava uno e allora l’intervallo diventava mostruoso. Un  gruppo di maximoto mi sfrecciarono vicino, ognuno con una ragazza appollaiata dietro. Rombavano da impazzire. Otto chilometri a piedi non erano uno scherzo, specialmente se si metteva a piovere. Alzai il naso. La nebbia si era diradata, il cielo era buio e indecifrabile. Uno il sabato si crede  chissà  cosa combinare alla domenica, poi finisce col ritrovarsi soli di sera a marciare sulla provinciale, sperando che non piova. Dentro la balera la musica non aveva cessato un  attimo, il disc jockey nella sua cabina da astronauta  metteva su un disco dietro l’altro per far divertire quella marea di ragazzi, me compreso. Nessuno mi aveva agganciato se non per obbedire ai rituali della musica, sotto le luci  psichedeliche le facce erano delle maschere con le quali era impossibile comunicare. La colpa non è perché sono brutto pensai, tirandomi su il bavero, è che la discoteca non è per le persone timide.

La strada era un processione di fari, che guardai con invidia. Mi dolevano i piedi entro le scarpe, ma non potevo permettermi di sentirmi stanco se non volevo arrivare a casa troppo tardi.
“Ehi, tu, cammina più adagio”. Affrettai il passo. La voce mi era sconosciuta, e poi di uno appiedato in quel momento  non me ne facevo niente.

“Ti ho detto di andare più piano”, la voce si fece perentoria, una mano mi trattenne per la manica, mentre imboccavamo il ponte sul fiume. Girai gli occhi infastidito: “Che vuoi” e scrollai il braccio per liberarmi.

“Compagnia”, cantilenò il ragazzo mollandomi. Mi si affiancò e riprendemmo a camminare. Era un ricciolone bruno con un giubbotto da impiegato che gli stava largo. Il fiume sotto di noi era gonfio e minaccioso per le piogge dei giorni precedenti”.

“Ho letto una storia cinese dove un soldato dà battaglia a un fiume in piena e riesce a farlo rientrare negli argini”, disse il ragazzo con un’enfasi come se quel soldato fosse lui.
“E’ solo fantasia”, pensai poi aggiunsi ad alta voce, “come la storia della balena di Pinocchio”.
“Cosa ti viene in mente”.

Mi fermai e gli indicai in lontananza la sagoma dell’astrolabio che sfumava nella nebbia: “Non sembra una balena?”, e risi.

“Tu eri nella pancia della balena?”, mi chiese il ragazzo.

“Si, come Pinocchio”, e risi di nuovo, In fondo mi faceva piacere avere trovato da chiacchierare, così la strada si sarebbe accorciata. Alla fine del ponte gli dissi: “Non ti ho visto là dentro”

“Infatti non c’ero”. Mi guardò di sfuggita. S’era immusonito, forse era già stanco di parlare. Ora c’erano i campi ai lati dello stradone, punteggiati sul fondo dai lumi dei casolari. A ogni fermata d’autobus, mi voltavo per scrutare se in mezzo al traffico distinguevo avanzare il macchinone.

“Che ore sono?”. Lui rispose che erano le otto. S’era levato un leggero vento che gli rialzava le falde del giubbotto e gli scompigliava i riccioli intorni al viso olivastro.

“Sei calabrese?”

“Di Palmi e tu?”.

Gli nominai un paese vicino Catanzaro.

“Come ti chiami?”.

“Matteo”.

“Io Enrico: E’ bello, no?”.

“Favoloso”, fece lui, ma il sorriso gli costò sforzo. A me non andava giù che questo Matteo non avesse un paio di ruote qualsiasi, dato che pareva persino un  signore per via del Giubbotto. Mi venne in mente il protagonista di Anonimo Veneziano, ma mi trattenni da fare un raffronto che mi pareva confidenziale.

Arrischiai invece: “Certo che se avevi almeno una motoretta?”.

Lui per tutta risposta sollevò le sopracciglia.

“Come mai sei venuto da queste parti, se non eri all’Astrolabio?”.

“Per uccidere un ragazzo”, rispose senza esitazione.

Vuole scherzare, pensai, ma avvertii un brivido lungo la schiena.

“Il tuo ragazzo?”, gli domandai con la gola asciutta.

“Si, si è messo con un altro, erano insieme in discoteca, ma in quel putiferio non potevo fare le cose per bene, andrò ad aspettarlo al portone di casa”.

Io cercai di minimizzare, anche se mi sentivo scombussolato: “Uhm, sono cose che capitano, pure io credevo di essere   il ragazzo di Vinicio e lui mi ha preferito le quattro ossa di Alberto”. Poi nascosi il collo nelle spalle per non far vedere che ero arrossito.

Forse nelle tasche del giubbotto quel matto teneva la rivoltella. Gli rivolsi un’occhiata sospettosa. Non rilevai nessun rigonfiamento e risalendo con lo sguardo il profilo di Matteo mi apparve cupo e bellissimo. Il rigonfiamento lo aveva altrove, e che rigonfiamento. Peccato che sia infelice, pensai.

“Lavori?”,  mi informai per distrarlo dall’idea di far fuori uno svampito che era magari  secco come Alberto.

“In una fabbrica di plastica, sto tutta la settimana dentro la polvere con una mascherina sulla bocca”.

“E io mi cavo gli occhi in una fabbrica di apparecchiature elettroniche, metto insieme dei pezzi piccolissimi, prendono solo ragazzi molto giovani che hanno una buona vista”, replicai quasi stizzito. Lui si fermò a gambe larghe e disse nel vento: “Guarda che a Simone gli sparo davvero”.

Feci spallucce: “Fa pure, intanto in galera ci vai tu”. Quindi si mise a sventolare la mano e a fare salti sul bordo del marciapiede, perché stava arrivando l’autobus. “Ehi, che aspetti? Non saliamo?”.


Restammo sulla piattaforma, accostati al vetro a fissare la strada che fuggiva sotto le ruote.

“Sai, io per colpa di Simone per poco in galera ci andavo davvero, il salario non basta mai, così mi ero messo a sgraffignare in giro”.

“Perché le dici a me queste cose?”.

“Perché mi sembri un bravo ragazzo, uno che sa tenere la bocca chiusa”.

“Non è vero che sono bravo, e poi i brutti sono maligni”.

“Tu non sei brutto”.

“E come sono?”, lo sfidai ma a occhi bassi.

“Sei un ragazzino che è stato bambino fino all’altro giorno e devi farti”. La definizione mi piacque. Era matto, ma simpatico. Sollevai gli occhi e dissi per convincerlo a convincersi:  “Se Simone non l’hai ammazzato oggi, non ritroverai più il coraggio”.

Lui sbirciò la gente alle spalle e mi sussurrò all’orecchio: “Parla piano, ci sentono”.

“Intento poi ti metteranno sui giornali”. E risi come uno stupido. Mi scottavano le guance. Avevo una gran voglia di buttare fuori parole a vanvera.

“Com’è Simone?”.

“Biondo alto con una faccia da schiaffi”.

“Oggi com’era  vestito?”.

“Con Jeans e maglione”.

Sorvolai con lo sguardo. Mi tirai indietro i capelli, li portavo lunghi, lisciandoli con le mani immaginai di averli biondi, anziché castani. Matteo diceva che Simone era ambizioso ed egoista come quel studente che ha adesso come compagno.

“E ti sembra il caso di prendertela? Per orgoglio o per amore?”

Ero un divoratore di libri erotici gay e certe frasi li imparavo dalle pagine stampate. Pure Matteo ne fu colpito. Per evadere la domanda mi fece una specie di carezza sui capelli, come si fa ai bambini. “Vuoi una gomma?”, e me la passò, dopo averla pescata in una tasca dei Jeans.

“Lo fai per orgoglio o per amore?”, sospirai, cercando di cancellare quella scena.

Lui rispose gravemente: “Non fa differenza”.

“Io non mi sono ancora innamorato. Forse è presto. I sedici anni li ho appena compiuti un mese fa”, confessai.

“Aspetta, c’è sempre tempo”.

“E’ che a volte mi sento solo e allora mi piacerebbe…”.

“Anche io mi sento solo, i miei sono in Calabria, le ore libere le passo tra la camera d’affitto e il bar”.

L’autobus diede una frenata, a momenti perdevo l’equilibrio, mi trovai con la faccia a un millimetro da quella di Matteo. Le braccia di lui si stesero per proteggermi. Avvertii un sapore di miele in bocca.

Matteo mi sbirciò. “Avevo una Panda vecchia con un motore truccato, l’ho venduta l’estate scorsa perché Simone è venuto andare al mare e non avevo i soldi”.

“Certo che il mare è bello, quando abitavo in Calabria a marzo si stava già sulla spiaggia”.

Lo guardai: ancora due fermate e sarei arrivato. Lui abitava in un paese vicino e ne aveva un pezzo in più. C’era sempre la faccenda della rivoltella a tormentarmi e l’intenzione di Matteo di regolare i conti con Simone in maniera cruenta. Dopotutto ora che sapevo come stavano le cose, mi sentivo responsabile di quello che sarebbe successo. Lui teneva la fronte appoggiata al vetro tutto concentrato nelle sue rivalse, ma prestò attenzione quando gli confidai: “So già l’accoglienza che mi aspetta, appena metto piede a casa, mio padre mi prenderà a cinghiate, è sempre ubriaco la domenica”.

“Dici sul serio?”.

“Eh, già, a volte mi tocca andare a dormire dalla vicina per aspettare che gli passi”.

“Queste cose non dovrebbero accadere”.

“Poveraccio, si consola col vino di tanto affanni”.

“La vita è una gran fregatura”, considerò Matteo a denti stretti.

L’autobus si fermò. “Devo scendere”, annunciai, con la morte nel cuore. Contro ogni previsione Matteo scese dietro di me. Adesso avrei perfino  smesso di respirare per la gioia di sentire quei passi accompagnarmi lungo il marciapiedi. Non osavo aprire bocca, infilavo una strada dopo l’altra come un automa. Matteo mi guardava attorno e diceva che tutti i paesi alle estreme periferie delle grandi città si assomigliavano. Diceva che quella pioggerella gli dava i nervi e l’indomani si  doveva alzare alle sei. Quando arrivammo neo pressi del portone lui alzò gli occhi a quel casermone popolare pene di finestre e disse che era uguale a quello dove abitava a Castelnuovo.

La luce fioca della lampadina nell’androne rese lividi i nostri visi.

“Sei sicuro che tuo padre sia rientrato?”.

Alzai le spalle rassegnato.

“Hai l’espressione di un cane bastonato, se hai paura resto qui”.

“Con me?”, mi meraviglia , puntandomi un dito al petto, “Con me?”.

Mi pareva di sognare.

“La mia paura è che tu appena mi lasci, corri ad aspettare Simone e gli spari”, feci ad un certo punto.

“Sono fatti miei”.

“A quest’ora ti dovrebbe essere passata”.

“Tu non capisci  niente di certe cose, Simone nemmeno lo conosci”.

“Che c’entra? Non si distruggono così due vite”, sospirai.

“Intanto la vita è schifosa e non vale la pena di viverla”.

“E allora io cosa dovrei dire? Mia madre è spesso malata, mio padre è un ubriacone, uno dei miei fratelli ha messo incinta la sua ragazza, che ora verrà a vivere con noi, così la casa diventerà ancora più stretta”.

Matteo mi ascoltava accigliato: “Il fatto è che autocompatirsi non serve a niente, bisogna esser pronti a un’azione che ti chiarisca le idee”.

“Bell’azione sparare a un povero ragazzo”, commentai sconsolato.

Matteo fece una risatina secca, cattiva: “Vuoi che ti faccia vedere la rivoltella?”, e portò la destra alla tasca del giubbotto.

“Ci manca altro che ti metti a fare il cowboy!”, esclamai e poi sottovoce, “l’ami tanto?”.

“Non lo so”.

“Se non lo sai perché lo vuoi far fuori? Credi che sia l’unico mezzo per levartelo di testa? Sei pieno di rabbia e confusione, alla fine ti rimarrà incollata addosso una gran melanconia, così come rimane a me la domenica quando esco dall’Astrolabio”.

“Ma va! Che paragoni sono?!”.

“Uno si crede nel frastuono della musica e nel mescolarsi con ragazzi che ti somigliano di dimenticare i tuoi guai, ma uscendo ti accorgi che non è cambiato niente e tutto ricomincia come prima”.

“E allora?”, s’incuriosì Matteo, toccandomi sulla spalla per invitarmi a proseguire. Mi feci più piccolo, stavo rannicchiato sul gradino come un gatto infreddolito. “Allora uno si ritrova brutto, inutile e insoddisfatto”, mormorai.

“Dai che storie sono?”. Matteo aveva il tono di chi non ti prende sul serio. Mi passò un braccio attorno alle spalle a mo’ di consolazione.  Avevo schiacciato il chewing-gum sotto un dente e ogni tanto lo toccavo con la lingua, come facevo da bambino con la caramella  che tenevo in bocca a lungo per vincere la solitudine.

“La violenza non serve a niente, scarica lì per lì, ma ti lascerà disperato”.

“E allora?”, ripeté Matteo. Fingeva di credermi e io non sapevo niente se c’era un filo logico in quello che pretendevo di insegnargli. Parlavo per stanchezza, malinconia, paura, per quella triste dolcezza che mi comunicava questo ricciolone che voleva fare il duro a ogni costo.

“La forza di accettare la realtà dobbiamo trovarla in noi, non sarà facile, ma è una conquista che ci aiuterà a maturare, cosa siamo giovani a fare se non sappiamo tenere d’occhio la speranza?”, dissi e mi pareva  che fossi un altro a parlare. Siccome Matteo mi fissava senza ironia, anzi con un barlume di gratitudine, mi incominciarono a pizzicare gli occhi e finii col mettermi a piangere. Lui dapprima non se ne rese conto, mi teneva sempre abbracciato e mi diceva: “Sei un ragazzo romantico, un po’ credulone, tu leggi troppa roba, troppi libri, ma non è facile, Enrico, sentirsi forti come intendi tu”.

Allorché si rese conto che la mia schiena sussultavo per i singhiozzi, divenne tenero, mi strinse a sé, mi tempestò i capelli e le guance di piccoli baci e nel frattempo si preoccupava: “Enrico che ti prende? Piangi per me? Oddio che ho fatto! Mica sono cattivo come credi, sai… guarda”.  Si alzò in piedi, rovesciò le tasche del giubbotto, lo spalancò, si tastò tutto per dimostrare che non nascondeva nessuna arma, fece una giravolta su se stesso: “Niente pistola, ti giuro! D’accordo, all’Astrolabio sono venuto a cercare Simone, volevo provare la mia reazione a vederlo con quell’altro, poi ho voluto darmi le arie con te, ma in fondo buttare fuori il veleno  mi ha fatto bene”.

Attraverso il velo delle lacrime alzai gli occhi su di lui. Mi sentivo indolenzito e strano come avessi avuto la febbre.

“Guarda che l’unica pistola che possiedo è quella che ho in mezzo alle gambe e quella se non sbaglio la possiedi anche tu ah ah ah”.

“Buffone!”, sillabai sbriciolando un sorriso, quindi di nuovo allarmato, “e allora?”

Matteo si chinò sui talloni. Mi rialzò il mento con la punta delle dita: “Allora mi piaci, Enrico, uno come te vale cento Simone”.

Non disse altro. Sembrava improvvisamente intimidito, e mi guardava come se io fossi bellissimo. Mi lasciavo contemplare tutto sorrisi e lacrime. Strofinò il naso contro il mio. “Anche tu mi piaci, Matteo, è bella la storia di quel soldato che ha sconfitto un fiume in piena”.

“Te ne racconterò delle altre, Enrico”.

“Si mi piacciono le tue storie e ti prego stammi sempre vicino, ho bisogno di te, tu sarai il mio Alpha ed io sarò il tuo Omega”.

“Cosa è sta storia?”.

“Poi ti spiegherò tutto ti piacerà”.

“Tu leggi troppi libri erotici ah ah ah”.

“Me lo dai un bacio?”.
 
 

   
 
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