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Autore: SerenaTheGentle    03/10/2016    0 recensioni
Questa è la storia di una madre e sua figlia.
Questa è l'esperienza vissuta durante una delle più grandi tragedie americane.
Tratto da una storia vera.
[11 settembre 2001]
Genere: Drammatico, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Per me è difficile ricordare.

Però il ricordo è importante.

Il ricordo è la base della memoria.

Il ricordo è l’arma più potente che abbiamo.

Il ricordo dovrebbe migliorarci.

Si, ho usato il condizionale, perché purtroppo non è mai stato così finora.

La nostra storia inizia con il suono fastidioso della sveglia, ed è dedicata a te amore mio.

Erano le sei e mezza del mattino. Come tutte le mattine mi alzai per andare a preparare il caffè, mentre Happy, il nostro cane, scodinzolava felice aspettando la sua parte di colazione. Nonostante fosse appena l’11 di settembre, a quell’ora una brezza fresca attraversava i corridoi del nostro palazzo poco lontano dal centro di New York.

Tu dormivi tranquillamente con i capelli biondi e ricci sparsi sul cuscino. Decisi di non svegliarti e di gustarmi il caffè in pace: accesi la radio e al ritmo della musica rilassante di quella mattina incominciai a prepararti la colazione.                       

Cereali al miele, latte, pane e burro di arachidi, proprio come piaceva a te. Erano quasi le sette e a breve Happy ti avrebbe svegliato! Era così carino! Si ricordava esattamente l’orario in cui ti saresti dovuta svegliare la mattina! Veniva lì e con il suo musino freddo si avvicinava lentamente per poi leccarti la manina che usciva sempre dalla morsa delle coperte.

-Mamma?- la tua vocina debole raggiunse dopo un po’ le mie orecchie, e Happy dietro di te mi raggiunse scodinzolando.

-Si tesoro?- ti risposi io, appoggiando la tua ciotola di cereali sul tavolo della cucina.

-Devo per forza andare a scuola oggi?- mi guardasti con gli occhioni dolci, che facevi sempre per farmi intenerire, ma questa volta non l’avresti avuta vinta, anche perché nessuno si poteva occupare di te quel giorno.

-Si tesoro mio, la mamma non sarà a casa stamattina, quindi ci devi andare.- ti sorrisi debolmente sapendo che ci saresti rimasta male, visto che non ero spesso a casa.

-Ma perché non ci sei mai?- quando facevi queste domande mi si stringeva sempre il cuore, però non potevo fare altro.

-Perché la mamma deve lavorare e per lavorare deve alzarsi presto la mattina e andare a combattere contro i clienti cattivi dell’albergo per la sua bambina!-

-Come Wonder Woman?- mi chiedesti con un po’ più di allegria rispetto a prima.

-Si, come Wonder Woman!- risposi abbassandomi alla tua altezza e mi balenò in testa un’idea. –Che ne dici se oggi prima di andare a scuola ti porto da Jo?-          

-Davvero?- l’azzurro dei tuoi occhi si riaccese un pochino e mi sentii contenta.

-Davvero! E poi oggi pomeriggio staremo insieme! Okay?-

-Okay! Ma me lo prometti?-

-Certo, te lo prometto!- non ero molto brava a mantenere le promesse e sapevo che non avrei mantenuto nemmeno quella, ma cosa avrei potuto dirti? E tu sapevi in fondo al tuo cuore che non l’avrei mantenuta.

Ci preparammo insieme per uscire. Dalla felicità avevi deciso di indossare la gonnellina blu che ti avevo regalato per il compleanno e che di solito non volevi mettere! Li per lì non ci feci caso, ma dopo quello che è successo ho imparato a notare ogni piccolo dettaglio che colora la nostra giornata.

Uscimmo di casa verso le sette e mezza, mi assicurai di aver chiuso tutte le porte, di aver chiuso il gas e di aver preso le chiavi. Una volta me le sono dimenticate dentro e ho dovuto chiamare mio padre per farmi aiutare. Mi era costato molto chiedere aiuto a lui quella volta.
Happy abbaiò felice mentre scendeva le scale.

Avevo l’impressione che sarebbe stata una bella giornata e che forse la signora Hert avrebbe acconsentito a tenere per un mezz’ora te e il nostro cane, prima di accompagnarti a scuola.

La signora Hert possedeva un piccolo bar vicino all’albergo dove lavoravo, mi fidavo di lei, mi aveva assistita nei primi mesi della gravidanza e soprattutto mi aveva trovato quel lavoro come cameriera al Mariott World Trade Center che ci aveva salvato la vita per quel periodo.

Eri troppo piccola per ricordarti dei miei pianti nella notte, delle urla di mia madre che mi aveva cacciato di casa e di tuo padre che non mi voleva più vedere. La signora Josephine Hert è stata la mia ancora di salvezza, incontrata durante una brutta serata in cui mi ero fumata tutto il pacchetto di sigarette, nonostante sapessi che ti avrebbe fatto male.

Mi ricordo di quando mi aveva allungato un bicchiere di latte e un pancake allo sciroppo d’acero la mattina successiva e così tutte le mattine fino a quando sei nata. Mi ricordo di quando mi si ruppero le acque, lei era lì con me, chiamò l’ambulanza incitandoli a darsi una mossa, altrimenti avrei partorito nel suo bar.

Sei nata dopo cinque minuti dal mio arrivo all’ospedale. Non avevo ancora deciso il tuo nome, ma il primo che mi venne in mente quando me lo chiesero fu “Avery”, come mia nonna, quella nonna di cui ricordavo poco, ma che avevo tanto amato. Mi piaceva che i nostri nomi fossero uniti dalla stessa lettera, quindi decisi che quello era il nome perfetto per te.

La cosa che mi ricordo meglio è l’espressione malinconica dello sguardo di Jo alla visione di te; anche lei aveva avuto un brutto passato, ma tra noi c’era sempre stato questo patto non scritto: lei non mi chiedeva troppo del mio passato e io non le chiedevo quasi niente del suo. Allontanavamo il dolore allo stesso modo.

Alle otto meno dieci arrivammo al bar, ogni tanto dovetti richiamare Happy che rincorreva le foglie svolazzanti, ma alla fine eravamo in orario, e Josephine stava preparando dei caffè.

-Jo!- salutammo insieme mentre lei consegnava i caffè a due ragazzi sulla trentina.

-Ciao piccole mie! Come state?- ci chiese Jo con fare materno, mentre senza chiederci se avevamo già mangiato ci allungava dei pancake e dello sciroppo d’acero.

Tu accettasti subito e quel golosone di Happy ne approfittò per chiederti in silenzio di darne un po’ anche a lui.

-Senti, potresti accompagnarla tu stamattina a scuola? Non ce l’ho fatta a mandarcela mezz’ora prima oggi.- sussurrai, per non farti sentire, alla donna dai lunghi capelli bianchi, ma ancora arzilla come una ragazzina.

-Certo tesoro, non c’è nessun problema.- Jo mi sorrise e le diedi il tuo zainetto, mentre mi guardavi felice.

-Allora amore, ora la mamma va al lavoro, dopo ti viene a prendere Jo, okay?- ti chiesi abbassandomi alla tua altezza.

-Ma perché non vieni tu?- la tua voce delusa mi diede tanto dispiacere, ma dovevo andare a lavorare, non potevo stare dietro a tutte le tue richieste.

-Senti Avery, la mamma deve lavorare. Oggi pomeriggio staremo insieme, okay?- ogni giorno era la stessa storia, ero sempre più stanca e non sapevo come farti capire che non potevo occuparmi sempre di te. Ero sola. E fare la mamma non era per niente facile.

Uscii dal bar con in mente il tuo bel visino privo di gioia, quell’emozione che meglio ti rappresentava. Una volta, forse, rappresentava anche me: prima di averti ero sempre felice, ma soprattutto incosciente. Così incosciente da aver commesso uno degli sbagli più belli della mia vita, tu. Tuttavia ci sono delle conseguenze agli sbagli e io sono dovuta crescere in fretta.

Mia madre mi aveva detto che avevo buttato via la mia vita per il solo desiderio di dimostrare di essere grande, di affrettare i tempi; mentre mio padre mi aveva guardata come se non fossi nemmeno sua figlia; il tuo di padre invece, che diceva di amarmi tanto, si è tirato indietro all’ultimo, dicendomi che a vent’anni era ancora troppo immaturo per aiutarti a crescere.

E io? Non ero troppo giovane? Ero più giovane di lui, eppure ora siamo ancora qui.

Con i miei genitori non ho più avuto rapporti, né loro hanno mai chiesto di te.

Hanno provato ad aiutarci regalandoci un appartamento, solo per togliersi quei sensi di colpa che, sono certa, li tormentavano. Ma io testarda non lo accettai, e tu non sai quanto fu difficile per me, ma rifiutai nonostante sapessi che non avremmo avuto altro posto dove andare. Fortunatamente incontrai Jo, che mi trattò come una figlia fin dall’inizio, e ci diede ospitalità a casa sua, mi trovò un lavoro e poi poco alla volta potemmo sistemarci nella casa che adesso ci appartiene. Solo nostra, senza contare l’affitto che bussava ogni 17 del mese alle sette di sera.

Mi ricordo di quando all’albergo ho iniziato dal basso, pulendo i bagni, poi rimettendo in ordine le camere. Non era uno dei lavori più belli del mondo, ma mi permetteva di mantenerci, e ancora ringrazio il direttore che mi diede quest’opportunità di vivere una vita migliore.

Varcai la soglia dell’albergo quella mattina pensando positivo e togliendomi la tua smorfia triste dalla testa, per concentrarmi sui miei compiti. Il Marriott contava 825 camere, il che implicava un grande numero di personale, ma la cosa che più mi aveva sconvolta di quel palazzo enorme era l’altezza. E se i 22 piani del Marriott mi sembravano tanti, quelli che contavano le Torri Gemelle mi sembravano una grande scalinata per raggiungere il cielo. La prima volta che le avevo viste avevo pensato che sarebbe stato bello vedere il mondo da lassù, vedere la mia città da lassù e sentirmi forte più degli altri, per pochi secondi o attimi.

-Ciao Aubrey!- mi salutò Edith, una delle mie colleghe che lavorava con me al diciottesimo piano.

-Ciao tesoro! Come stai? Come sta Brianna?- le chiesi apprensiva sapendo che sua sorella era in ospedale per delle complicazioni dovute alla gravidanza.

-Meglio, il bambino è forte e vuole solo attirare l’attenzione!- Edith rise e io le sorrisi complice. Fortunatamente tu non mi avevi mai dato problemi di quel tipo, tra un po’ non mi accorgevo neanche di essere incinta! Non avevo avuto nausea o giramenti di testa come avevo sentito dire, poi un bel giorno ho notato il ritardo ed è stato l’inizio di tutto.

Persa tra i ricordi seguii Edith sull’ascensore mentre l’orologio nella hall mi informava che erano le otto e dieci. Ho pensato che vi eravate già incamminate verso scuola, tu, Jo ed Happy. Non so perché mi sentissi costantemente in colpa nei tuoi confronti, ma non ne avevo motivo. Dopotutto facevo solo quello che potevo per darti una vita migliore, mi impegnavo al massimo per non farti mancare nulla e rinunciavo alla mia vita per dare qualcosa di meglio alla tua.

Questi pensieri mi vorticavano velocemente nella testa, senza fermarsi e senza avere un minimo di compassione nei miei confronti. Andavano così veloci che non mi accorsi nemmeno del poco tempo che era passato, mancava poco alle nove, e io ti avrei rivisto solo tra sei ore. Sentivo che dovevo fare di più, altrimenti ti avrei persa.

Uno scossone enorme fece gridare Edith. Sentimmo muovere il Marriott e poi sentimmo delle urla che ci giungevano da fuori. Un altro scossone ci svegliò dal nostro stato di stupore o terrore. Edith mi implorò di non avvicinarmi alla finestra, ma non potei non farlo. La gente impanicata urlava e indicava qualcosa in alto , più in alto del ventiduesimo piano dell’albergo.

Per un momento pensai che fosse crollata una gru da costruzione, ma l’annuncio che diedero successivamente dopo mi fece credere che fosse successo qualcosa di diverso. 

Quel “Per favore, rimanete nelle vostre stanze” risuonava prepotentemente nelle mie orecchie. Oh figlia mia, non puoi capire quanto ho faticato per mantenere la calma e la lucidità soprattutto. Edith ed io ci mettemmo sedute sul pavimento sotto al tavolo, nel caso si fosse trattato di terremoto.

Abbiamo aspettato venti minuti abbracciate l’una all’altra in attesa di qualcosa, quando finalmente un uomo ci urlò di uscire e di andarcene dal palazzo.

Molto persone erano frastornate o confuse, alcuni poi si erano lamentati di quel disordine, mentre c’era chi come me teneva gli occhi aperti e i riflessi pronti, in attesa di qualcosa di più terribile.

Le urla, la confusione, la paura. Queste tre cose regnavano sovrane e io non sapevo quale emozione avrebbe prevalso su di me. Uscita dall’albergo insieme a un mucchio di altra gente ho visto l’orrore.

Mi ricordo che la prima cosa che aveva attirato la mia attenzione sono stati i fogli, milioni di fogli bianchi che volavano indisturbati sopra di noi.

Mi ricordo, con grande dolore, delle urla delle persone che si lanciavano dalla torre Nord, mi ricordo degli spintoni che molti mi avevano dato, mi ricordo del pompiere che mi aveva gentilmente chiesto di andarmene.

Mi ricordo e vorrei non ricordare.

Mi ricordo molto bene di una bambina che piangeva.

Aveva i capelli biondi come i tuoi, ma i suoi occhi erano colmi di lacrime, era piccola e sua madre la stava tenendo stretta a sé, mentre camminavano velocemente per andare il più possibile a sud.

Dopo il primo momento di shock ho pensato subito a te, la mia piccola Avery. Dovevo andare alla scuola, Jo non ti avrebbe mai portato da un’altra parte vedendo quel casino. Sapevo che eri lì, che dovevo raggiungerti, che avrei fatto l’impossibile pur di vederti ridere ancora un’altra volta.

L’unico problema era che dovevo andare esattamente dalla parte opposta dove ci stavano dicendo di andare, e a nulla valsero le mie preghiere, le mie richieste. Ero sola e sola dovevo riuscire a trovarti.

Dentro di me c’era il caos più incredibile. Avevo perso di vista Edith e sapevo che presto il palazzo sarebbe crollato, o almeno così immaginavo.

Dovevo andarmene immediatamente.

Man mano che mi allontanavo cercavo di non voltarmi indietro, sapevo che non avrei resistito per molto e che non avrei retto quello che probabilmente stava succedendo. Un forte rumore ci fece girare tutti, nonostante io mi fossi riproposta di non voltarmi e alla vista di un altro aereo che colpiva l’altra torre non potei non scoppiare a piangere.

Ti assicuro tesoro mio che il dolore che avevo provato nel breve arco della mia vita è stato niente in confronto a quel disastro che i miei occhi hanno sopportato quel giorno.

Era orribile quello che stava accadendo e se non fosse stato per un uomo che mi trascinò dall’altra parte della strada, probabilmente non mi avresti mai rivista. Il palazzo stava crollando lentamente e io dovevo andarmene, ma riuscivo solo a stare ferma.

Ero immobile davanti a tanto orrore.

La voce di quell’uomo mi aveva riportato alla realtà, quella realtà che in pochi minuti era stata spazzata via. Noi, come altri, incominciammo a correre e le urla della gente si univano tra di loro, erano così forti da non poter sentire nemmeno i nostri pensieri, così forti da spingerti ad agire d’istinto.

Ci rifugiammo in una casa dopo circa quaranta minuti di cammino o corsa, non sapevo se il fiatone che avevo era per lo sforzo della corsa o per l’aria che incominciava a mancarmi. Senza pensare andammo in cantina.

Scoppiai a piangere, dovevo sfogarmi, dovevo buttare fuori quello che c’era dentro di me. Non potevo credere che al mondo potesse esistere tanta cattiveria, tanta malvagità, tanta violenza. Non l’avevo subita fisicamente, ero viva, ma l’avevo subita in quanto persona, l’avevo subita perché miei concittadini, probabilmente persone che conoscevo, persone che avevo visto, persone che probabilmente vedevo tutti i giorni, ma non guardavo davvero potevano essere morte, potevano non avere più la possibilità di riabbracciare i loro cari o i loro figli, potevano non avere più la possibilità di vivere la loro vita.

Quelle persone avrebbero potuto fare grandi cose oppure no, ma di fatto non meritavano la morte, nessuno di noi la merita, se non quando Dio ci chiama a sé. Che diritto avevano di uccidere quelle persone? Che cosa li aveva spinti a compiere un gesto del genere? Che cosa avevamo fatto o cosa avevano fatto quelle persone per meritarselo? Perché quel gesto era stato intenzionale. Lo sapevamo tutti.

-Lei era al bar questa mattina?- solo quando la voce di quell’uomo mi chiamò io riuscii a distogliere per qualche secondo la mia attenzione dall’inferno di quel giorno.

-Mi scusi?- ero frastornata e confusa.

-Lei è la signora con la bambina e il cane.- i miei occhi si illuminarono subito e senza esitare gli chiesi se vi aveva viste uscire.

-Sono andate al parco. La bambina non voleva andare a scuola, era arrabbiata con lei e Jo voleva farla contenta.- l’uomo mi sorrise e io di rimando risi. Si, risi, perché sapevo che Jo ti aveva portata al Washington Market Park. A te piaceva molto e noi non eravamo molto distanti da lì. Pensai che dopo quella sensazione di terrore puro all’idea di non rivederti più, avrei fatto caso ad ogni piccolo particolare che avrebbe riempito le nostre, ma soprattutto le tue giornate.


In quell’istante promisi a me stessa che non ti avrei lasciata andare così facilmente.  

In quell’istante ti promisi che sarei stata presente.                                                                  

In quell’istante promisi alla nostra famiglia che avremmo avuto un futuro meritevole e che mi sarei impegnata.

Sapevo di non essere brava con le promesse, ma dovevo tentare, era il mio obbiettivo primario per adesso.

Stavamo camminando e ripensando a quella mattina dovevo ammettere che in effetti era tutta colpa mia. Forse potrai pensare che mi stessi vittimizzando, ma in realtà stavo prendendo coscienza del fatto che ero stata poco presente nella tua vita, convinta di starti dando il meglio. Mi stavo rendendo conto che tutti quegli anni li avevo passati a rimuginare sul passato, li avevo passati a pensare ad un futuro diverso da quello che avevo, quando quello che avevo era anche meglio di come mi sarei mai aspettata.

Mi rendevo conto che senza di te le mie giornate erano senza scopo.

Mi rendevo conto che eri davvero importante per me e mi dispiaceva di averti fatto stare male. Mi vennero in mente tutti i tuoi particolari perfetti e i difetti, come toccarti i capelli in continuazione mentre ti parlo, come la tua passione per la lettura e il fatto che adori il burro di arachidi nonostante a me non piaccia.

Mi vennero in mente tutti i tuoi compleanni e mi accorsi che erano stati tutti così belli e tu eri così felice, mi vennero in mente tutti i giorni di Natale e del
Ringraziamento senza i tuoi nonni, senza tuo padre e mi accorsi che io non ti sarei bastata ad un certo punto della tua vita, come a me non erano bastati i miei.

Avevi bisogno di condividere te stessa con i miei genitori, ma forse ero io a non essere pronta a condividerti con loro.

Insieme a David, l’uomo che era entrato con me in cantina, ci recammo al parco e sotto un abete tu eri lì.

Dopo ore di ricerca, tu eri lì. Eri lì, felice, con Happy che scodinzolava e richiamava attenzioni.

Eri così innocente e ignara dei mali del mondo. In quel momento capii anche che avrei dovuto prepararti al mondo, penso che sia il terrore di ogni genitore preparare il proprio figlio al mondo e prepararsi a lasciarlo andare. Avevo paura e non sapevo se sarei riuscita a farlo.

Ora sei grande, stai per partire per il college, ma la mia mente rivede ancora quella bambina di sette anni, ignara della realtà, ancora lontana dalla sofferenza e dalla violenza.

La mia mente va ancora a quella giornata che mi ha cambiata, rivedo ancora quelle persone che disperate si lanciavano dalle torri, rivedo ancora le madri che come me non trovavano più i figli, rivedo ancora le persone impaurite che non sapevano dove andare.

Penso che sarà sempre difficile per me non ripensare a quegli avvenimenti e a quel fatidico 11 settembre 2001.

Tuttavia in mezzo a tutta quella confusione mi ricordo anche l’unica cosa bella di quella giornata, la tua risata, il tuo viso illuminato dalla felicità nel rivedermi.

Mi ricordo Jo, che in ansia, si era avvicinata a me come se non fossi lì con lei, aveva temuto che non sarei mai tornata.

-Mamma?- la tua vocina mi arrivò colpevole e mi girai immediatamente verso di te.

-Si, amore?-

-Non sono andata a scuola... Mi perdoni?- cercai di non piangere. Ti ricordi? Mi abbassai e mi misi in ginocchio davanti a te.

-Certo che ti perdono amore mio.- tu mi abbracciasti –Ma tu potrai mai perdonare la mamma?-

-Per cosa? Le mamme non sbagliano mai... E poi hai anche mantenuto la promessa!- i tuoi occhi così sinceri mi diedero la forza per risponderti, ma soprattutto per credere e sperare in un mondo migliore.

-No tesoro, tutti sbagliamo... Dobbiamo solo imparare ad aggiustare i nostri sbagli e la mamma ti promette che d’ora in avanti manterrà le proprie promesse.-

Che dici amore mio? Ci sono riuscita?



Angolo Autrice
Omaggio (in ritardo) a tutti coloro che hanno perso qualcuno quel fatidico giorno.
Spero di aver raccontato una buona storia, anche se triste per la sua ambientazione.
Serena.

 
   
 
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