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Autore: Il_Signore_Oscuro    06/10/2016    3 recensioni
Ragnar'ok Wintersworth un giorno sarà l'Eroe di Kvatch, colui che salverà Tamriel dalla minaccia di Mehrunes Dagon, principe daedrico della distruzione, con il fondamentale aiuto di Martin Septim ultimo membro della dinastia del Sangue di Drago. Ma cosa c'è stato prima della storia che tutti noi conosciamo? Chi era Ragnar prima di essere un Eroe? Lasciate che ve lo mostri.
[PAPALE PAPALE: questa storia tratterà delle vicende di Ragnar. Non sarò fedelissimo al gioco ma ne manterrò le linee generali, anche se alcuni avvenimenti saranno cambiati o spostati nel tempo. Non ho altro da dirvi, se non augurarvi una buona lettura!]
BETA READER: ARWYN SHONE.
Genere: Avventura, Fantasy, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Eroe di Kvatch, Jauffre, Sorpresa, Un po' tutti
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Incompiuta
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Chapter one – My surname is chance

Avevo sempre provato un certo fascino per il gelo notturno a poche ore dall’alba, sentire la pelle irrigidirsi e rizzarsi i peli lungo il braccio risvegliava quei pochi ricordi della mia terra natale, lontana giorni e giorni da lì. Non capitava di rado che sgattaiolassi fuori dalla mia stanza, facendo attenzione che mia madre non si svegliasse. Volevo godermi un po’ di quella pace e di quel silenzio che la notte portava con sé.
Giravo indisturbato per il Priorato, osservavo l’accendersi e lo spegnersi delle torce lungo le mura di Chorrol, segno del cambio della guardia. Spiavo il fumo salire e dissiparsi dal comignolo delle fucine, dove Eronor stava ravvivando le braci, immaginando che quel vecchio dunmer scontroso stesse forgiando una qualche arma leggendaria: in realtà fabbricava più che altro attrezzi da lavoro o riparava vanghe e falci dei contadini, logorate dal continuo uso.
Se mi veniva fame mi intrufolavo nelle cucine alla ricerca di qualche fetta di pane dolce o un po’ di pasticcio Shepard lasciati incustoditi. Agguantavo quanto potevo e me la davo a gambe, mangiando tutto a grandi bocconi prima che qualcuno potesse notarmi, anche se a quell’ora il rischio era praticamente inesistente.

Quella notte però il caso volle che qualcuno mi vide. Per poco il pasticcio non mi finì di traverso, quando una voce mi prese alla sprovvista
-Ragnar? Non dovresti essere al letto?
Trangugiai quanto rimaneva del pasticcio e mi voltai di scatto, ritrovandomi di fronte Jauffre, il mastro priore di Weynon, in compagnia di un ragazzino poco più grande di me, dall’aria preoccupata. Gli occhi del priore mi guardavano con un misto di rimprovero e divertimento. Occhi chiari inscuriti da una ragnatela di rughe sottili e sempre pronti all’azione, sempre pronti a captare un pericolo imminente. La sua bocca era screpolata, piena di taglietti incisi dai denti, tipici di chi sa molto ma dice molto poco.
Jauffre aveva le spalle larghe, le mani callose, le braccia forti, tutto in lui dichiarava a gran voce “sono un soldato” eppure si vestiva e viveva da monaco. Avevo sempre pensato che la sua fosse una copertura, che nella vita facesse ben altro che pregare tutto il giorno e fare la carità ai bisognosi.
-Io, ecco – cominciai, non sapendo che scusa inventare.
-Il solito furfante, eh? – Mi scompigliò i capelli con una mano.
-Maestro, il capitano Phillida mi aveva assicurato la massima riservatezza. – Disse il ragazzo accanto a lui.
-Non si preoccupi Civello, non ne farà parola. A meno che non voglia che sua madre sappia delle sue scorrerie notturne nelle cucine, non è vero? – Mi fece un occhiolino.
-S-sì, signore non dirò nulla! Ma di cosa?
Al priore scappò una risata divertita.
-Vieni con noi Ragnar, voglio mostrarti una cosa.
Solo allora notai il curioso bastone dalla forma ricurva che portava alla cintola, mi attraversò il pensiero che lo avrebbe usato per picchiarmi, punendomi per aver rubato nelle cucine e sapevo che mia madre mi avrebbe dato anche il resto. Riflettendoci però, ricordai che Jauffre mi aveva sgridato molte volte ma non avrebbe mai alzato un dito contro di me, infondo mi aveva visto crescere e si era presa cura di me e mia madre da quando ci aveva trovato mezzi morti di freddo in una grotta nelle vicinanze di Bruma. Ci aveva tratti in salvo pagandoci una locanda in città, per poi offrirci di vivere all’interno del Priorato: in cambio di vitto e alloggio mia madre puliva le stalle mentre io, insieme a un orfanello di nome Lucien, raccoglievo l’elemosina dalla gente di Chorrol e distribuivo le razioni di cibo ai mendicanti della città.

Seguimmo Jauffre nelle stalle, Civello non mancò di lanciarmi alcune occhiatacce infastidite e smorfie di disapprovazione, scocciato da quei continui sguardi gli risposi con una linguaccia, ne fu talmente indispettito che bofonchiò qualche insulto e distolse gli occhi da me.
Nelle stalle del priorato i cavalli non erano molti e venivano usati di rado, infondo i monaci non lasciavano spesso il Priorato. Il mio preferito era una giovane puledra di nome Mere, dagli occhi color nocciola e un manto nero come la notte, anche a Lucien piaceva e finito il suo giro di elemosine spesso veniva nelle stalle per strigliarle un po’ il pelo. Mere mi salutò con un nitrito sommesso a cui risposi con una carezza sul muso, sembrò gradirla.
Il cavallo di Jauffre era un baio rossiccio dal brutto carattere, ma che si quietava al suo solo tocco, mentre il ragazzo scelse invece il pezzato del giovane priore Maborel, un animale estremamente mansueto e che si lasciava montare dagli estranei. Io stavo per salire su Mere ma il Maestro mi ordinò di salire in sella con lui, un po’ deluso obbedii e tutti e tre ci dirigemmo verso la Great Forest: un’estesa macchia di alberi ad ovest di Chorrol, preceduta da un piccolo spazio pianeggiante dove smontammo dalle cavalcature. Nel cielo le stelle cominciavano a svanire, tempo qualche ora e sarebbe sorto il sole.

Jauffre sfilò il bastone ricurvo e ne diede uno anche a Civello che ne saggiò un po’ il peso, prima di mettersi in posizione di guardia. A quel punto capii perché eravamo venuti fin lì: evidentemente il Maestro stava addestrando quel ragazzo. Lo osservai con più attenzione: a vederlo doveva venire dalla Città Imperiale: vestiva un farsetto in seta, pantaloni di lana nera e scarpe con legacci dorati. Se non veniva dalla Città Imperiale doveva essere comunque di una famiglia piuttosto facoltosa.
L’allenamento durò fino all’alba, fra scambi, fendenti, parate e capitomboli di Civello.  Avrei voluto partecipare: da sempre sognavo di diventare un giorno un grande guerriero ed esplorare ogni angolo di Cyrodill alla ricerca di gloria e tesori non ancora scovati, ma Jauffre me lo impedì, tutto ciò che potevo fare era guardare e nonostante ciò non mi annoiai affatto: mi divertiva vedere quell’antipatico imperiale cadere come un sacco di patate ogni tre per due. Alla fine era talmente pesto e sudato che fummo costretti ad aspettare che si riprendesse, prima di risalire sui cavalli per tornarcene al priorato. Durante il cammino, riempii Jauffre di domande sulla sua abilità nella scherma e su chi fosse quell’imbranato.

Jauffre preferì tacere le risposte alle prime domande, promettendomi che un giorno mi avrebbe spiegato tutto, mentre sull’identità del ragazzo la sua lingua si sciolse piuttosto in fretta: era Giovanni Civello, un soldato della Legione che era stato inviato a Chorrol dal suo capitano e mentore Adamus Phillida, affinché migliorasse le sue abilità con la scherma e il combattimento in generale. Ogni soldato veniva addestrato ma spesso in modo poco soddisfacente, i veri segreti di quest’arte venivano appresi solo con la pratica e l’aiuto dei maestri.
A quel punto chiesi al priore il motivo per cui quel soldato mi guardava con tanto astio e diffidenza, la voce di Jauffre si fece più bassa e con una punta di amaro.

-Immagino non voleva che qualcuno assistesse alla sua umiliazione – esitò – ma bambino mio, con te voglio essere sincero, devi sapere che l’Impero è una realtà multietnica, con tante persone di culture e razze differenti – lanciò un’occhiata di sbieco a Giovanni – ma sembra che qualcuno non l’abbia ancora capito, non del tutto almeno.
-Quindi è perché sono un Nord. – Abbassai lo sguardo, incupito.
-Ehi – mi rialzò la testa con un dito -  sei il ragazzino più sveglio che io abbia mai incontrato, chiaro? Che tu sia un nord, un elfo o un argoniano questo non ha alcuna importanza, furfantello.
Jauffre mi accarezzò la testa e mi sorrise. Quel gesto, le sue parole, fecero svanire ogni traccia di malumore: non c’era nessuno che stimassi più del Maestro e sentire che mi reputava una persona capace, sapere che mi voleva bene nonostante le mie malefatte, mi fece sentire compreso e apprezzato. Credo fosse un po’ come avere un padre: del resto io il mio non lo ricordavo nemmeno, sapevo solo ciò che mi aveva raccontato mia madre: era un nobile di Skyrim, all’inizio sua moglie aveva sopportato che il marito se la facesse con la sguattera, ma quando da quella sguattera ne uscì un figlio, cioè io, la situazione peggiorò. Dopo qualche anno mio padre fu costretto a cacciarci fuori dalla proprietà, forse per evitare che finissimo ammazzati da qualche sicario o dalla signora stessa. L’unica cortesia che ci concesse fu una carovana che ci condusse oltre i confini di Skyrim, salvo mollarci in mezzo al freddo e ai pericoli dei monti Jerall subito dopo. Mia madre però un po’ si vendicò e, senza che nessuno se ne accorgesse, trafugò la spada di famiglia del mio vecchio, promettendomi che un giorno sarebbe stata mia, quando ne avessi avuto l’età; per ora era nascosta da qualche parte nella baracca adiacente al Priorato, nei quartieri dove abitavamo.

Come si dice “parli del dremora  e spuntano le corna” così quando scesi da cavallo una mano mi prese per la collottola: era mia madre. La sua voce era isterica, gli occhi rossi tipici di chi si è appena svegliato.
-Razza di screanzato, dov’eri finito? A disturbare Padre Jeoffre come al solito, eh? Mi hai fatto morire di paura, disgraziato! – Poi rivolta al priore – Padre, mi scusi, non capiterà più, glielo prometto.
-Brunja, Brunja, non ti preoccupare – si affrettò a rassicurarla – avevo preso con me il ragazzo per sbrigare una commissione sulla Black Road.
-Uh! – Mugugnò lei un po’ sorpresa.
Per una volta ero innocente e la cosa mi fece spuntare un sorriso sornione sulla faccia, non appena Padre Jeoffre si fu allontanato colsi l’occasione per rimarcare il suo errore di giudizio
-Hai visto? Sempre la colpa mi dai. – Dovevo sapere che mi sarebbe costato caro quell’eccesso di superbia.
-Potevi anche avvisarmi, disgraziato! – Appunto.
Mi diede una calata dietro la nuca che mi fece gemere dal dolore. Niente, di passarla liscia con quella donna non ce n’era proprio verso, mai, neanche una volta.
-Ora vai da Lucien, ti sta aspettando davanti alle baracche per il giro di elemosine.
-Va bene. – Dissi, ancora offeso per quella che ritenevo essere un’ingiustizia nei miei confronti.
-E non mettermi il broncio che hai il resto!
La cosa bastò a levarmelo dalla faccia e a farmi correre da Lucien, lui almeno non mi avrebbe malmenato, non poteva, era un fuscello al mio confronto. Non so precisamente quando fosse arrivato al priorato né da dove fosse spuntato, sapevo solo che c’era e che eravamo amici. Del resto in fatto di amicizie non avevo poi molte alternative ma quella di Lucien non era male, alla fine entrambi sognavamo una vita di avventure.
Come annunciato da mia madre lo vidi di fronte alle baracche, vestito al solito modo, con una casacca di lino tutta sozza e un paio di pantaloni in cuoio grezzo e stivali più o meno della stessa fattura. Aveva la pelle olivastra tipica degli imperiali, gli occhi di un intenso nero e i capelli castani tenuti sempre corti e spettinati, faceva parte del personaggio: se volevamo che la gente mollasse qualche septim di più dovevamo sembrare davvero degli straccioni.
Lucien stava giocherellando con qualcosa facendola rimbalzare fra le mani, era come una palla solo che brillava ed era fatta di luce. Strabuzzai gli occhi e capii: quella era magia! Avevo sempre provato una grande curiosità per quella forza strana e misteriosa che era la magia, da quel che ne sapevo a Skyrim era malvista ma un sacco di gente “malvede” un sacco di cose, questo di certo non le rende sbagliate (almeno credo) e poi da quanto avevo letto nelle storie, gli eroi migliori erano quelli che oltre che sulla propria forza contavano anche su qualche trucchetto, magari un po’ disonesto, ma più che lecito quando era la propria vita ad essere in gioco. Mio fiondai su Lucien pieno di eccitazione, non potendo smettere di fissare quella palla di luce.
-Come hai fatto? Dai dimmelo!
Gli chiesi, tutto impaziente.  La sfera gli sparì fra le mani e mi guardò con un piccolo sorrisetto sulla faccia, nel suo solito modo: tendendo un angolo della bocca, come una smorfia.
-Angalmo, – era l’altmer della gilda dei maghi di Chorrol – in cambio ho solo dovuto trovargli un paio di ingredienti per le sue pozioni.
-Mi insegni come si fa? Dai, ti prego!
Chiesi con aria supplice. Lucien rispose con uno schiocco della lingua, finse di pensarci un po’ su’, giusto per tenermi sulle spine.
-Eddai!
-Va bene e ringrazia che non ti chieda nulla in cambio.
-Grazie mille! Ti devo un favore. – Esclamai entusiasta.
-Siediti qua e cominciamo.
Ci mettemmo sugli scalini della baracca e Lucien si schiarì la voce. Aveva sempre avuto una voce calma lui, con i primi tratti gravi dell’età adulta, con quel suo tono profondo riusciva ad ipnotizzare chiunque.
-Posiziona le mani come se stessi reggendo una sfera, così bravo, adesso concentrati.
-Inizio a sentire qualcosa, come una sensazione di calore.
-Vuol dire che sta funzionando, lascia che scorra.
Con un leggero formicolio quel tepore raggiunse i palmi e si fece talmente intenso che quasi bruciava.
-Ahi, fa male. – Mi morsi un labbro mentre le mani tremavano.
-Resisti ancora un po’, non pensarci, non manca molto.
-Woah!
Fra le mani comparve una piccola luce bianca che mi diede una strana sensazione di pace e un immediato sollievo. Durò pochi istanti, per lo stupore per poco non caddi dal gradino.
-Ce l’ho fatta! – Poi ci pensai. – Aspetta ma non era come quello che hai fatto tu!
-Angalmo mi ha detto che ognuno ha il suo elemento, il mio era l’illusione – a pensarci aveva senso visto le sue capacità di persuasione – il tuo credo sia il recupero. Credo che con un po’ di allenamento si possa imparare a far tutto.
-Allora dovremmo farci insegnare altro, ora andiamo prima che mia madre ci insegua con una scopa.

Entrammo nella città di Chorrol, le guardie ci riconobbero subito, facendoci un cenno di saluto mentre passavamo. La nostra prima tappa sarebbe stata la grande quercia, che era anche il simbolo della città, e il luogo di ritrovo degli abitanti: intorno ad essa si disponevano a piante circolare le succursali delle gilde, con relativi stendardi e insegne, oltre alle case dei cittadini più in vista della Contea come i Donton o i Bruiant; i primi erano da generazioni nei ranghi della Gilda dei Guerrieri, un’organizzazione di mercenari a servizio degli abitanti di Cyrodill, mentre i Bruiant erano famosi per l’allevamento di cani di razza, capaci di assolvere ad ogni funzione: caccia, guardia, compagnia.
I figli dei Bruiant non li conoscevo granchè ma con i fratelli Donton io e Lucien ci avevamo fatto amicizia, erano Vitellus e Viranus: il primo, il maggiore, molto estroverso e già proiettato al suo futuro nella Gilda mentre l’altro era più timido, ma diventava tutta un’altra persona quand’era in compagnia di un altro ragazzino di nome Eduard. Vitellus mi venne incontro, mentre Lucien cercava di convincere un’anziana altmer su quanto il suo contributo fosse importante per sfamare i meno abbienti della città.
-Ehi, Ragnar, come te la passi? – Chiese Vitellus, dandomi una pacca sulla spalla.
-Solito lavoraccio e tu?
-Anch’io, sto portando il pupo a farsi le ossa nella sala allenamenti – Rispose, riferendosi al piccolo Viranus che gli sgambettava dietro.
Vitellus aveva sedici anni, ormai era un uomo in tutto e per tutto: sulla faccia portava una barba folta ma ben curata, mentre io avevo a malapena dei baffetti di morbida peluria. I Donton indossavano entrambi tenute leggere in pelliccia, rivestite di cuoio spesso, l’ideale per assorbire i colpi di una vecchia spada smussata.
-Mi piacerebbe venire con te ma poi chi se la sente quella vecchia strega.
-Non dovresti parlare così della buona Brunja. – Mi rimproverò, non riuscendo a nascondere, tuttavia, un sorriso divertito. – Comunque tieni, consideralo un regalo da parte della mia famiglia.
Mi porse un sacchetto con all’interno una decina di septim. Lo ringraziai e lo infilai nella sacca che mi portavo appresso per raccogliere le offerte. Vitellus si congedò con una delle sue solite pacche.
-Ci si vede Donton.
In un certo senso lo invidiavo: le avventure che per me erano ancora sogni lontani per lui erano una realtà ormai vicina, poteva già toccarla con mano. Prima che potessi indugiare oltre in questi pensieri fui interrotto dalla voce trionfante di Lucien.
-La vecchia si è decisa a sganciare un po’ di septim, che faticaccia! Andiamo?
-Sì, andiamo.

Dopo la zona interna alla quercia la tappa seguente fu il Castello di Chorrol dove il dispensiere del Conte Valga, un enorme orco dalla faccia perennemente annoiata, ci liquidò con un piccolo sacchetto di septim senza neanche lasciarci entrare nelle sale. Il sacchetto era pure leggero, decisamente troppo per gente così ricca.
-Tutti uguali questi nobili, scorzi più di un mercante.
Commentò Lucien quando ci allontanammo.
Evitammo i quartieri di sud-ovest, le vecchie case in legno conciate com’erano: piene di tarli e spifferi, erano eloquenti su quanto denaro gli abitanti sarebbero stati disposti a tirar fuori, avremmo solo perso tempo.

Ultima tappa del giro fu la Cappella di Stendarr, per gli accordi con il priorato lì avremmo dovuto consegnare il 15% delle offerte e caricarci dei viveri da distribuire ai mendicanti che giravano per le strade. Il tutto richiese l’intero pomeriggio e quando finalmente tornammo a Weynon eravamo stanchi morti e zuppi di sudore. Lucien come al solito aveva raccolto un bel gruzzolo mentre il mio era molto meno sostanzioso, consegnammo i septim al priore Maborel per poi andarcene a chiacchierare nelle stalle. Dalle offerte della cappella era avanzata un po’ di carne secca che decisi di condividere con Lucien.
Fuori il sole stava scendendo sotto l’orizzonte e quell’ora del giorno metteva sempre strani pensieri nella testa del mio compare, che attaccava a parlare dei suoi sogni, di certe sue osservazioni e progetti futuri.
-Sai Rag, alle volte ho la sensazione che i nove mi abbiano scelto.
-Complimenti per la tua umiltà, Messere San Lucien. – Lo sfottei.
-Dai non fare l’idiota, quello che intendo dire è che nonostante tutto ciò che mi è successo: il fatto di essere stato abbandonato, non avere i genitori e tutto il resto; nonostante tutto questo sto avendo comunque un’occasione.
-Cosa intendi dire?
-Sai, avere persone che mi amano come te, Brunja, i priori, una famiglia insomma. Credo che per questo dovrei celebrare i nove.
-Facendoti monaco magari. – Proposi scherzosamente, dando un morso a una striscia di carne secca.
-Nah, non fa per me, ci tengo ad avere tutti i capelli e poi – continuò sorridendo – delle ragazze non saprei fare a meno.
-Come se ne sapessi qualcosa di ragazze, tu.
-In realtà io e la figlia dei Bruiant… - disse, distogliendo lo sguardo ma senza smettere di sorridere.
-Beh? – Chiesi impaziente.
-Diciamo che ce la intendiamo parecchio.
-Ma sei pazzo?! Spera non lo scoprano i suoi o ti faranno massacrare di botte, sempre se non ti sbattono fuori dal Priorato.
-Come sei ansioso, so come non farmi scoprire – mi lanciò un’occhiata furbesca – ma tornando a quello che stavo dicendo, come sai non ho un cognome essendo un orfano.
Mugugnai un assenso, chiedendomi dove volesse andare a parare.
-Ecco, vorrei crearmelo io.
-Cosa?
-Un cognome. – Rispose, carezzando il muso di Mere che nitriva soddisfatta.
-Ah – mi sembrava un po’ sciocco in realtà – e quale sarebbe?
-Lachance.
La chance, l’occasione, capii il riferimento.
-Uhm, Lucien Lachance. In effetti non suona male. – Constatai.
-Già! E ho pure in mente un mio motto. – Alle volte mi venivano dubbi sulla salute mentale di quel ragazzo.
-E quale sarebbe questo “motto”? – Gli chiesi, assecondando quell’eccesso di follia megalomane.
-Aspetta, aspetta, - disse lui un po’ infastidito – prima chiedimi cosa si dice.
-In che senso?
-Non fare il tonto su’, chiedimi “che si dice”.
-Lucien… - stava diventando esasperante.
-Avanti!
Decisi di accontentarlo, dopo un verso di rassegnazione.
-Che si dice?
Lui assunse un’aria tutta seria, mi si avvicinò mettendosi in punta di piedi per arrivare a guardarmi direttamente negli occhi (ero almeno venti centimetri più alto di lui) e disse con un tono grave, che sarebbe sembrato convincente non fosse stato per quella posa ridicola.
-Fratello, mi chiedi che si dice? Io non diffondo le voci … le creo. Non è fantastico? – Mi chiese tutto entusiasta.
Ci fu qualche istante di silenzio in cui lo guardai stranito.
-Lucien, va’ a quel paese.

 
   
 
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