All’inizio,
pensai che Serena fosse impazzita del tutto, quando
m’indicò la porta del
locale, quasi invisibile nel buio del vicoletto. La luce che proveniva
dall’interno era fioca, ma bastava a illuminare
l’inquietantissimo manichino
nudo rosso sangue che troneggiava di fronte all’entrata. Un
brivido gelido si
fece strada lungo la mia schiena quando notai le macchie rosse sparse
sopra e
attorno al tappetino d’ingresso… vernice, certo,
doveva essere vernice.
Cercai di
dissuaderla, ma non ci fu niente da fare: mi trascinò
dentro, curiosa di
entrare ed esplorare quello strano bar.
L’interno
mi
colpì quasi quanto l’entrata. Per un momento
pensai di aver trovato la porta
dell’Inferno, tanto il rosso delle pareti mi annebbiava la
vista… poi ragionai
che, se davvero l’Inferno esistesse e fosse come descritto
dai savi, di certo le
sue pareti non sarebbero state trapunte di foto in bianco e nero di
bellissime
donne nude. Esattamente: enormi poster, di carta finissima,
costellavano tutto
il locale.
Ovunque, da
ogni angolo e pertugio, oggetti di piccola e media grandezza, di ogni
tipo,
invadevano lo spazio: sul bancone, appesi al soffitto, sui ripiani e
sugli
scaffaletti. Ero circondata.
-
Buonasera.
Sobbalzai,
colta di sorpresa. Dietro il bancone, prima vuoto, era comparsa una
donna. Non
sono mai stata brava a cogliere l’età della gente,
e quella sconosciuta non mi
facilitava certo il lavoro: ovviamente non era una ragazzina, ma poteva
avere
trentacinque anni come sessanta! La pelle bianca era priva di rughe, ma
quei
due occhi verde scuro avevano la serena stanchezza di chi ha visto il
mondo ed
è contento della vita.
Annusai
l’aria, sospettosa. Dal momento in cui quella donna era
comparsa, nell’ambiente
già angusto del bar aleggiava un odore forte e inebriante,
simile all’incenso,
che non riuscivo a riconoscere.
La mia
amica
si sedette su uno degli sgabelli senza porsi domande, sorridendo alla
barista.
-
Salve!
Bello il suo bar!
La donna
sorrise, sistemando il gilet scuro sopra il suo succinto vestito verde.
I
capelli cadevano in dolci boccoli; castano chiaro, alcune ciocche di un
grigio
così chiaro da sembrare bianco, le davano un aspetto fresco
e al tempo stesso
quasi stanco.
-
Vi
ringrazio, ma non è mio. Posso offrirvi
qualcosa?
-
No
grazie! – m’intrometto prontamente – io
sono
astemia, e la mia amica qui ha già bevuto un White Russian.
Siamo entrate solo
per dare un’occ-
-
Io
dovrei andare in bagno! Le dispiace, signora…?
-
Oh
cara, puoi chiamarmi Mo. Certo, vai pure, è
quella porta a destra.
Serena si
fiondò nella direzione indicata, chiudendosi la porta
dietro. Così, mi ritrovai
bloccata con questa signora strana, in un silenzio forzato e
fastidioso. Non
vedevo l’ora di uscire da quel posto inquietante.
-
Perché
sei così a disagio, tesoro?
-
Sto
benissimo grazie. È solo che… soffro
lievemente di claustrofobia.
-
Capisco.
Silenzio.
Ogni tanto dall’esterno giungeva il ciaffettìo
frettoloso di passanti che
tornavano a casa dopo una notte di baldorie. Fuori aveva smesso di
piovere.
-
Lei
prima ha detto che questo bar non è suo. Chi
è il proprietario allora, se posso chiedere?
La sua
risatina fu accompagnata da un tintinnio sordo. Mi accorsi che portava
moltissimi anelli sulle dita affusolate, addirittura tre
sull’indice sinistro,
tutti palesemente finti.
-
Intendevo,
tutto ciò che vedi intorno a te, non
è mio. Tutto questo, - spiegò lei, facendo
danzare le mani nell’indicare le
quattro mura – sono ricordi. Ricordi di tutti coloro che ho
incontrato, e che
hanno deciso di regalarmi qualcosa di loro. Un pezzo della loro vita,
che io ho
raccolto e custodito in questo posto. - Un
modo poetico per descrivere un caso di accumulazione compulsiva.
– In fondo
è mio dovere, ricordare ciò che gli altri
dimenticano. Non sono Mnemòsine per
niente!
-
...
Come la dea greca?
-
Oh
sciocchina! Io sono la dea
Mnemòsine!
-
Ovvio.
-
Ovvio,
sì! Non era chiaro?
-
Chiarissimo.
Se solo
Serena si fosse data una mossa. Ecco cos'era quell’odore,
cannabis. Quella
donna era andata davvero fuori di testa!
Eppure…
darle
corda sarebbe stato divertente.
-
Sono
felice di sapere che c’è chi ancora ricorda
il mio nome!
-
Ho
frequentato il liceo classico, e sono sempre
stata affezionata alla mitologia greca. Domanda:
com’è che la figlia del Cielo
e della Terra è finita in un baretto, italiano, a San
Faustino?!?
Lei mi
guardò, come presa in castagna. Strano che non avesse
pensato una risposta a
una domanda così bas-
-
Che
domanda! Da quando il Pantheon greco è stato
sciolto definitivamente mi sono trovata disoccupata! Siamo stati tutti
smistati, ed io sono finita qui al Nord, e questo è stato il
primo impiego che
ho trovato. C’è crisi, sai.
Non faceva
una piega.
-
Devo
proprio dire che ti sei data un bel da fare
per creare un ambiente…. Particolare in questo bar.
-
Te
l’ho detto, cara, io ho solo messo insieme i
ricordi delle persone. Quelle foto, ad esempio, sono gli ultimi
pensieri degli
amanti in fin di vita. Delle frasi che mi dici?
-
Frasi?
Mo mi
sorrise
sorniona.
-
Vai,
avvicinati pure ai muri.
Ormai presa
dalla curiosità feci come detto e sgranai gli occhi. Sul
muro, minuscoli metri
e metri di frasi scritte a matita correvano per tutto il perimetro
della
parete. “Lasciami!” “Non ho voglia di
uscire oggi.” “Che cosa dire della
luna?”… frasi di tutti i tipi, senza senso, sagge,
divertenti, tristi, lunghe,
brevi… un mondo di caratteri, vite scorrevano davanti ai
miei occhi! E non solo
i muri, ora che prestavo più attenzione, ma anche sul
bancone c’erano delle
frasi, scritte col pennarello nero e bianco per risaltare sul rosso
fuoco del
legno… Cielo, anche sugli sgabelli dove ero stata seduta
fino a quel momento! Mi
voltai senza parole, incontrando il sorriso di quella donna folle.
-
Quelle
sono tutte le frasi che ho sentito, che
mi hanno detto, che tutti hanno dimenticato… tutti tranne
me. – sospirò. Non
sembrava esattamente felice di questo. – Da quel fatale
giorno in cui scoprii
il potere della memoria… non sono più riuscita a
dimenticare niente. Sai cosa
vuol dire sapere tutto ciò che è successo, da
milioni di miliardi di anni?
-
Parla
con la persona sbagliata, io non mi
ricordo cosa ho mangiato a colazione. - dissi io, cercando di tirarle
su il
morale. Anche se, in effetti, forse non era proprio la cosa
più confortante da
dire. – Senza offesa, eh.
-
Figurati,
piccola.
-
…
sono d’accordo con lei, comunque. A volte è
bello poter non pensare a ciò che ci fa soffrire. La mia
amica per esempio, che
probabilmente a quest’ora è caduta nel bagno,
stasera ha bevuto un po’ di più
proprio perché voleva dimenticare l’uomo che sta
usando il suo cuore come un
fazzoletto.
-
Povera
cara… gli esseri umani sanno essere
tremendi alle volte.
-
Non
che gli dei fossero da meno, eh. Conosco un
certo qualcuno disposto a fare di tutto, anche vestirsi da pastore, per
andare
appresso ad altre gonne diverse da quelle della moglie...
Sospirò
di
nuovo. Avevo toccato un nervo scoperto.
-
Anche
questo è vero.
Nel
silenzio quieto
che seguì, continuai a guardarmi attorno, ormai quasi a mio
agio in quella
bolla di follia che si era creata.
-
E
questi oggetti? Anche questi sono tutti
ricordi?
-
Sì…
e no. Alcuni sono regali delle mie figlie.
Man mano
che
li indicava, elencava il nome dell’autrice del presente.
Una
pergamena
appesa alla parete – “Clio, la studiosa”
-, uno strano flauto in osso dietro le
bottiglie di tequila – “Euterpe” -, le
due maschere simbolo moderno del teatro che
mi fissavano con le loro orbite vuote da dietro il bancone –
“Talia e Melpomene”
-, un nastro rosa scolorito da danza classica che piroettava dal
soffitto –
“Tersicore” -, una statuetta in pietra nera di
stampo primitivo, di due demoni
in atteggiamenti sodomiti – “Erato, quella
mascalzona” ridacchiò Mo – una
collana di perle al collo di una bottiglia di Passito di Pantelleria
–
“Polimnia” -, una mappa delle costellazioni
macchiata di caffè attaccata con lo
scotch su una colonna di legno – “Urania, ha preso
molto da suo nonno” – e una
bellissima stilografica dorata, usata come ferma carte sul bancone
– “Calliope,
la maggiore”.
-
Wow…
nove figlie! Belli i tempi della Grecia,
quando non c’erano problemi economici e di sovrappopolazione,
vero?
-
Già,
bei tempi…
Fischiettai,
chiedendomi se non fosse davvero il caso di andare a controllare la mia
amica,
quando la porta del bagno si aprì e Serena ne
uscì, schiarendosi la gola. Che
avesse pianto, era evidente dal mascara leggermente sbavato e dal
rossore degli
occhi.
-
Eccomi!
Scusatemi se ho perso tanto tempo…
-
Oh
tesoro, non preoccuparti! Guarda, ho qui
qualcosa adatto a te.
La
“dea” si
abbassò, scomparendo dietro il bancone, per poi riapparire
con una bottiglia
verde in mano, piena di un liquido trasparente. Ne versò un
po’ in un bicchiere
e lo porse a Serena, sorridendo comprensiva.
-
E’
un po’ invecchiata, e potrebbe non essere
totalmente efficiente… ma ti aiuterà un pochino.
Prima che
potessi fermarla, il bicchiere era già vuoto, e la mia
coetanea faceva
schioccare la lingua, soddisfatta e curiosa.
-
Che
sapore particolare! Cos’era?
-
Acqua
cara. Acqua di fiume.
Aggiustai i
capelli scompigliati della mia amica, guardandola negli occhi alla
ricerca di
qualche effetto della bevanda sconosciuta.
-
Come
ti senti?
-
…
meglio, grazie.
-
Non
dirmi che sei rimasta nel bagno a piangere
ancora per quello!
-
Quello
cosa?
-
…
come quello cosa. Per Stefano!
-
Stefano
chi?
…
forse era
più ubriaca di quanto pensassi. O forse…
L’altra
possibilità da considerare era così folle,
impossibile, inimmaginabile…
Che doveva
per forza essere vera.
-
Ora
andate, giovani fanciulle, si è fatto
davvero tardi!
-
Buonanotte,
signora Mo!
Prima di
seguire Serena fuori dal bar mi voltai, guardando la donna.
-
Arrivederci
cara! Torna presto a trovarmi, mi fa
piacere chiacchierare con te.
Non sapevo
proprio cosa pensare. Ero confusa, senza parole… e sapete
cosa? Ero e sono
troppo pigra per pormi di questi problemi. Più facile
fidarsi della prima cosa
che viene in mente, per sconclusionata che sia.
-
Ghiàine…
Mnemòsine.