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Autore: A J Foster97    08/10/2016    0 recensioni
[Non Dirlo al Mio Capo]
Napoli.
Lisa Marcelli è una giovane vedova in difficoltà economiche alla ricerca di un posto di lavoro. Con uno stratagemma si fa assumere come praticante avvocato nello studio legale di Enrico Vinci, un uomo affascinante, ma con un brutto carattere al quale nasconde l'esistenza dei suoi due figli, Mia e Giuseppe. Allo studio suscita la gelosia di Marta, ambiziosa e desiderosa di sposare Enrico, il quale invece non sembra interessato ad arrivare all'altare. A casa invece si fa aiutare e consigliare da Perla, la nuova vicina e improbabile baby-sitter, che forse in circostanze normali non avrebbe mai frequentato.
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 1
Bugie in regola


Ho sempre odiato i numeri, sono secchi, brutti, spietati.
Mi chiamo Lisa Marcelli, vivo a Napoli ma sono nata a Milano. Ho due figli, trentaquattro anni e sono al mio trentaquattresimo colloquio di lavoro. Ah, mio marito è deceduto da sei mesi e da allora la mia vita è andata a rotoli. E come se non bastasse questa mattina, a causa dell'agitazione, ho pure indossato due paia di calzini diversi. Provo una vergogna indescrivibile quando mi accorgo che una lunga fila di splendide ragazze, con addosso gli abiti più preziosi e dieci anni in meno, mi sta squadrando da capo a piedi, con quell'aria un po' maligna di chi nella sua testa sta decisamente ridendo di te. Cerco di non darci peso, eppure come non farlo? Mi sembra di essere ritornata al Liceo quando attraversare i corridoi per andare in bagno era sinonimo di coraggio. Forse adesso ne avrei bisogno, di un po' di quel coraggio. Mi schiarisco la voce, come mio solito fare quando sto per mentire, ed esclamo con imbarazzante sicurezza: "È una moda! In Giappone se non porti i calzini spaiati, non sei nessuno", ridacchio nervosamente, trovando attorno a me solo un pesante silenzio. Era penoso. La ragazza bionda della reception mi fissa con un sorriso forzato sotto il quale si cela una disgustosa pena. Dopo qualche minuto: "Lisa Macelli?", gracchia, con aria stizzita, come se utilizzare le corde vocali per produrre un suono o leggere con attenzione il mio cognome le costasse una fatica abnorme. "È Marcelli", mi affretto a precisare, ma lei è già passata ad esaminare altri documenti, dimenticandosi completamente della mia presenza. Da qualche tempo a questa parte, sono completamente invisibile ad occhio umano. Forse è proprio per questa mia inconsistenza che, come una disperata, mi trovo all'ennesimo colloquio di lavoro nel quale, con molta probabilità, invece di valutare le mie competenze, mi proporranno quesiti d'alta cultura come 'Lei è mai stata in Tibet?' o 'Ha dei cani?'. Le opzioni in queste circostanze sono due: tenere fede all'onestà, come ho sempre fatto negli scorsi colloqui trovandomi poi con in mano un pugno di mosche, o mentire sperando in un aiuto divino. Mi avvio al colloquio, cercando di ostentare un po' sicurezza, ma in verità me la sto facendo sotto: sono almeno dieci anni che non lavoro, a dire il vero, non ho mai lavorato, c'è sempre stato mio marito, Alberto, e non ho mai dovuto realmente pensare a vivere, economicamente parlando. Tant'è che, se precedentemente la mia laurea in legge mi sembrava solo un ornamento con il quale abellire il mio studio e della quale vantarmi davanti agli amici di mio marito, adesso, a distanza di soli sei mesi, appare essere l'unica cosa che mi può salvare dal fallimento più totale.

***

Al peggio, quest'oggi, non c'è fine. Dopo essere stata cacciata elegantemente dal colloquio con un 'Le faremo sapere' che assomigliava più ad un 'Vada a cercarsi un altro impiego', vengo interpellata, di gran fretta, quasi fossi una ladra, dalla banca Partenope. E cosa potrebbero mai volere? Una miriade di visioni apocalittiche si affacciano nella mia mente senza che io possa fare nulla per fermarle, ed in men che non si dica, sono già in strada. Ho bisogno dell'aiuto di Mia e di Google Maps per visualizzare la strada, dato che non mi sono mai occupata io, ma bensì quella buon'anima di mio marito, di tutte queste faccende. Mi sento un po' ridicola mentre penso che in passato le mie uniche preoccupazioni erano andare alla SPA due volte a settimana e curare il mio orto biologico. Accosto in maniera frettolosa davanti ad una palazzina di proporzioni mastodontiche e di gusto decisamente neoclassico, e, quasi come in preda all'orticaria, mi precipito nell'ufficio del direttore. Le notizie che mi porge sono quanto di più sgradevole ci sia. Tutto ciò che riesco a recepire, oltre le sue stupide scuse più finte della mia Gucci comprata al mercato, è: ''Se non paga la retta entro una settimana, dovremo pignorarle la casa. Ha capito, signora Macelli?''. Incredibile, oggi stanno facendo a gara! Mi alzo di scatto e, con quel poco di dignità che mi è rimasta, ripeto per l'ennesima volta in una mattinata:
''E comunque, io mi chiamo Marcelli, non Macelli''.
Giro i tacchi e più che andarmene, scappo via.

***

L'aria pulita del mattino rischiara i miei pensieri e mi aiuta a superare questo shock totalmente inaspettato. Mi nascondo in un un angolo, per non farmi notare dai passanti, ed inizio a piangere a dirotto, crollando sulle mie stesse ginocchia. Dovrei darmi un contegno, lo so, dovrei essere più forte di così, ma non ce la faccio. Dopo settimane di stress e brutte notizie, tutto ciò che posso fare è piangere. E queste lacrime sono così liberatorie che inizio a commuovermi solamente pensando a quanto mi stiano facendo sentire meglio. Quando rientro in auto, perfettamente scevra di lacrime e forza di volontà, trovo Mia appollaita sul sedile anteriore che invia messaggini col suo Iphone (chissà se dovremo vederlo) a chissà quale ragazzo rockettaro con la puzza sotto il naso e Giuseppe mentre si trastulla con i giocattoli imitando i suoni di vere e proprie sparatorie.
''Mamma che volevano?'', mi domanda Giuseppe con tono squillante.
''Niente amore, mi ero dimenticata di firmare un documento, sì'', sono riuscita a trovare una scusa che regga in pochi secondi, sto migliorando.
''A papà la banca non lo chiamava mai'', mi contesta Mia con la sua voce da saputella, mentre continua a pigiare i tasti del cellulare. Credo abbia fiutato l'odore della mia bugia, ma per adesso non ho il tempo di spiegarle, non davanti a Giuseppe.
L'unica risposta che il mio cervello riesce a formulare è: ''E' vero, a papà non lo chiamavano mai''. Riesco quasi a leggere una sfumatura di nostalgia nella mia voce, e spero tanto non se ne siano accorti. ''Sincerità, sicurezza e serenità'', ripeto a me stessa, come un mantra e dopo essermi raggomitolata sul sedile, sconfortata sotto ogni punto di vista, inforco la marcia. ''Arrivati a questo punto, cosa potrebbe andare storto?'', esordisco sarcastica mentre faccio marciaindietro. Ma quando pensi che la tua giornata non possa peggiorare, ecco che il mondo ti molla un ceffone e ti dimostra che non è così. Mi porto la mano tremolante alla bocca e scendo subito dall'auto per constatare la gravità del danno inferto alla povera (mica tanto, con questa sì che potrei pagarmi l'ipoteca) automobile parcheggiata magnificamente dietro il mio vecchio catorcio.
''Dimmi che è un palo!'', il mio è quasi un ordine, una speranza malconcia, un autoconvincimento che non dura troppo a lungo, in quanto le parole di Mia subito dopo stroncano ogni mia possibilità di fraintendimento.
''Sì, un palo da centomila euro!'', mi risponde, ridacchiando, con la sua solita simpatia da quattro soldi. Certe volte vorrei provasse più empatia nei confronti della sua povera (letteralmente, ahimè) madre, invece di denigrarla ad ogni valida occasione. Eppure mi dico che è l'adolescenza, e passerà.
''E' di quel signore lì...'', prende ad urlare Giuseppe improvvisamente, con gli occhi brillanti e il corpicino in fibrillazione, prima che io possa fermarlo, tappandogli la bocca. Ciò nonostante, nel trambusto generale, riesco a percepire il parcheggiatore che, in tono languido, dice: ''Buongiorno, avvocato Vinci''. Deve essere un pezzo grosso per essere trattato con un tale grado di gentilezza e per potersi permettere un auto di questo calibro.
''Non ci ha visti, andiamocene'', sussurra Mia con fare complottista. Chissà quanti guai avrà combinato, con il caratteraccio che si ritrova, e che mi avrà tenuto nascosti.
''La mamma non scapperebbe mai, vero mamma?'', Giuseppe mi scruta con gli occhioni luminosi e tutta l'ingenuità dei suoi sette anni, mentre Mia si chiude in se stessa, con le braccie conserte, ed una faccia da schiaffi che aspetta solo che io ceda alle sue provocazioni. Il suo sorrisetto dice esplicitamente: 'Avanti, vediamo adesso cosa fai!'
''Giuseppe ha ragione'', affermo, dopo un po', non troppo convinta di volermi cacciare in un altro pasticcio, ma nemmeno in grado di fuggire via come una criminale, o peggio, come una che se la sta facendo sotto.
''Non scapperei mai!'', sento che la portata delle mie bugie, questa mattina, sta per aumentare vorticosamente.
''E quindi andate a prendervi l'autobus ed io vi raggiungo a casa, appena posso'', dico, cercando di darmi un contegno e di apparire quanto più autoritaria possibile. ''Sono sicura che sarà un uomo molto comprensivo'', stento a crederci, ma devo farlo, altrimenti rischierei di dar ragione a Mia e non posso permettermelo. *** Mentre i piani sul display dell'ascensore scorrono con una rapidità inaudita, mi sento irrequieta come una debuttante o una studentessa liceale prima dell'orale di maturità. Ho le mani sudate, un tremolio persistente alle ginocchia, un colloquio andato male ed una taglia sopra le testa che grida: Ipoteca, Ipoteca, Ipoteca. Quando le porte si aprono, susseguite dal quel tipico suono stridulo che m'avverte di essere arrivata a destinazione, come se non me ne fossi accorta, mi faccio forza e supero la soglia d'ingresso con fare affabile e timidamente sicuro; sicurezza che viene violentemente ridotta in poltiglia da una voce gelida e spaventevole che in un attimo ha fatto tremare le pareti della hall, urlando: ''Idiota! Chi sbaglia paga, eh. Ma come hai fatto? Trova i documenti giusti entro domani altrimenti...''. Lo stesso uomo che ha pronunciato queste parole si barrica nella sua stanza infondo al corridoio, sbattendo svogliatamente la porta e creando un tale scompiglio attorno a sé che in un nanosecondo vedo assistenti, praticanti, segretarie e quant'altro muoversi freneticamente da una parte all'altra dello studio. Incredibile, adesso sì che devo iniziare a preoccuparmi. Nel momento in cui riesco a trovare il coraggio necessario per fare un passo avanti, scopro di essermi aggrappata per tutto il tempo, come una bambina impaurita, alla mia borsa vecchia e corrosa dal tempo. Mi avvicino titubante alla reception dove una ragazza bassina, castana, riccia e dal volto vivace sembra essere terrorizzata più di me.
''Mi scusi, forse non è il momento, ma...'', la guardo con grande apprensione e tenerezza mentre constato che probabilemente sfuriate di questo genere avvengono giornalmente, ''avrei bisogno di parlare con l'avvocato Vinci''. La ragazza, avvolta dalle scartoffie e dalle preoccupazioni, non mi risponde, anzi, non sono nemmeno sicura che mi abbia sentita.
''C'è stato un pi-piccolissimo problema tra me e la sua macchina'', balbetto cercando di sorridere per non rendere la situazione ancora più tesa di quella che è già.
''E questo potrebbe essere terribile'', dichiara la segretaria dai ricci incolti e dagli occhi che bazzicano sullo schermo del computer, intenta a sbrigare chissà quali beghe. Non capisco perché non mi degni d'attenzione.
''Adesso... terribile, mi sembra esagerato!'', continuo a dire, con quel mio tipico sorriso da ebete che prontamente sfoggio quando tento di allentare qualcosa di grave.
''Che hai detto?'', le esplode la voce in bocca e mi accorgo che spinge con le dita sull'orecchio un auricolare. Che stupida. Probabilmente non ha sentito una singola parola di ciò che ho detto e forse è meglio così, avrebbe pensato che sono una cretina.
''Si sieda'', mi intima poi, indicando una seggiola in legno lì vicino. Nel frattempo che aspetto un qualche segno dalla bizzara segretaria con l'accento barese, inizio a darmi un'occhiata in giro, e a malincuore apprendo di essere finita in uno studio legale dalle movenze eleganti e raffinate. Le pareti sono tutte rivestite da una tenue carta da parati beige, le immense finestre lasciano trapelare appena i raggi del sole bollente poiché imbandite di lunghe tende color caffé, i pavimenti in marmo luccicano di pulito e brillantezza e l'aria ha il sapore di un miscuglio tra miele di lavanda e fiori di cedro. Accanto a me siede una donna, anch'essa sulla trentina. Mi accorgo immediatamente di lei giacché il suo piede non la smette di martellare sul pavimento immacolato. E' ansiosa come non mai e difatti non la smette di mordicchiarsi le unghie.
''Salve! Anche mia figlia si mangia le unghie quando è nervosa, sa?'', le dico, con tutto il savoir-faire di cui sono in grado. La donna mi rivolge uno sguardo tra il truce e il sorpreso. ''Mi avrebbe guardata proprio così!'', la informo, indicando la sua espressione che da truce adesso si è trasformata in spazientita . Che gaf. Un momento più tardi la segretaria la informa che l'avvocatessa Castelli la sta aspettando ed io ne approfitto per riprendere parola.
''Mi perdoni, scusi, s-sono qui per un minuscolo graffio che forse, dico forse, avrei fatto alla macchina'', cerco di pronunciare le parole nel modo più cauto che conosco, imponendomi di rendere la situazione quanto più calma e razionale possibile.
''Povera ragazza'', spiattella la segretaria, guardando, con aria soddisfatta, il proprio riflesso in uno specchio appoggiato sulla scrivania grondante di confusione.
''E' solo un graffio, mica si va in galera per questa cosa. Comunque grazie per la ragazza, ho passato i trent'anni, però devo dire che cerco sempre di mantenermi.'', affermo, crogiolandomi nell'autocompiacimento. La ragazza blocca immediatamente il mio sproloquio sottolineando che si riferiva all'altra, di donna. Mi offre poi un caffé ed inizia a parlarmi di un recente caso. A quanto pare, l'irritabile donna di prima con le dita piene di pellicine si chiama Silvia, ha perso la madre due mesi fa e adesso sta citando il padre in tribunale perché vuole le quote dell'azienda di famiglia che la madre ha lasciato al padre prima di morire, cosa tra l'altro ragionevole, dato che entrambi erano divorziati. Prima che possa solo tentare a divincolarmi da questa buffa situazione nella quale sono stata gettata dal fato, la stessa identica voce di poco fa, intensa e decisamente maleducata, esclama: ''Che cosa devo fare per avere una praticante decente? Uccidere qualcuno?''. E' così prepotente che mi sta già antipatico, antipatia che tende a farsi ancora maggiore quando mi rendo conto che la povera vittima delle sue urla era proprio una minuta ragazza incinta che, in lacrime, si precipita fuori dallo studio. Seguo tutta la scena con sgomento e in religioso silenzio.
''E' la terza praticante che fa fuori in due mesi! Se non gli trovo subito una praticante, l'avvocato mi taglia la testa'', il tono della sua voce è abbastanza esagerato, il suo gesticolare eccessivo, ma comprendo, anche io ho le mie gatte da pelare. Quando, tuttavia, dice che una certa praticante dell'avvocato Giorgi non sarebbe arrivata prima di domani, ecco che una lampadina inizia a lampeggiare nel mio cervello. Come se fossi pazza, inizio addirittura ad avvertire la voce metallica del direttore Valenti che, in modo enfatico e surreale, mi ripete il mio destino: ''Se non paga la retta entro una settimana, dovremo pignorarle la casa!'' Con tutte le mie forze combatto contro l'istinto di sopravvivenza, convincendomi che prima o poi troverò un lavoro, ma purtroppo non riesco a convincermi abbastanza da stare zitta. In fondo è una piccola bugia bianca, no?
''Sono io la praticante dell'avvocato Giorgi'', proferisco, senza nemmeno accorgermene. Cavolo, ma cosa sto dicendo? Mi caccerò in grossi guai per questo.
''Tu? E che ci fai già qui?'', domanda, con gli occhi sbarrati e lucidi per la gioia.
''Ehm, mi porto avanti'', sorrido. Ma non c'è nulla per cui sorridere. Speriamo solo che quasta giorna passi in fretta.

***

In seguito ad una breve discussione, vengo scortata dalla segretaria, che scopro chiamarsi Claudia, verso l'ufficio dell'Avvocato Vinci. Prima di chiudere la porta, ella mi accenna un sorriso di consolazione guardando con sufficienza i miei abiti scialbi e smorti. Quando la porta le si chiude alle spalle, inizio nuovamente a preoccuparmi e a farmi divorare da un'ansia persistente. Per distrarmi dalla tensione inizio ad osservare meticolosamente l'abitacolo nella speranza di poter trovare qualche argomento in comune, qualche dettaglio che possa farmi capire che tipo di persona è, quest'avvocato Vinci, e soprattutto che possa farmi assumere nonostante la mia goffagine. Magari è una persona amabile e gentile, magari questa è solo una giornata no ed io sto esagerando a tremare dentro i vestiti. Fatto sta che l'ufficio è posizionato in un'ampia stanza che somiglia più ad un'aula di scuola, il parquet doussie sotto le mie scarpe lacere è stato appena lucidato, le pareti sono dipinte di un blu cadetto che mi ricorda molto il cielo limpido che ero solita contemplare dopo la morte di Alberto, mio marito, quando ogni azione mi sembrava superflua e la vita stessa m'irritava. Per ovviare alla malinconia del momento, rivolgo lo sguardo verso l'arredamento casual e al contempo morderno, le voluminose e maestose librerie che trasboccano di libri sul diritto privato, una grande scrivania in mogano è sormontata da una pila di domenti e da un computer di ultima generazione che farebbe impallidire il mio povero Lenovo con una grande barca sul desktop; tutto è ricoperto dal legno e da quel blu spento che avvolge le quattro facciate della stanza. ''E' la tua ultima occasione, Lisa!'', bisbiglio tra me e me, quasi come a rassicurarmi. Incomincio quindi un lunga autopersuasione fatta di frasi come: 'la tua mente è ricettiva, Lisa!' oppure 'Sì,i tuoi sensi sono acuiti'. Quando tuttavia il mio sguardo si sofferma sulle terrificanti scarpe che mi ritrovo ad indossare non posso fare a meno di pensare 'Però le tue scarpe fanno schifo, eh'. ''Magari è vecchio, magari è grasso, magari è...'', la mia voce si arresta poiché viene a contatto con la sua. Ecco che sento la porta dello studio chiudersi in un soffio, una figura, improvvisamente, venirmi accanto ed interrompere il filo disordinato dei miei pensieri.
''Lisa Marcelli? Sono Enrico Vinci, il titolare di questo studio'', la sua voce è proprio come la ricordavo, carezzevole e decisa al tempo stesso, ma di certo non sono le sue corde vocali, in questo momento, a distrarmi da ciò che dice. E' sicuramente l'uomo più bello che io abbia mai avuto l'occasione d'incontrare. Alto, asciutto, dalle folte ciglia nere e dagli occhi simili a pozze d'acqua. Io... Io invece sono impresentabile. Questa mattina non mi sono nemmeno pettinata e tanto meno truccata o profumata. Sono uno straccio. Ma comunque, davanti ad un simile esemplare d'uomo stento a credere che qualcuna possa sentirsi adatta. E quando i suoi occhi si poggiano su di me, scrutandomi, esaminandomi, divento piccola piccola. Ha un atteggiamento risoluto, intimidatorio, arrogante, capisco perché quella ragazza in dolce attesa se l'è svignata. Tossisco cronicamente, come mio solito, e cerco di nascondere maldestramente dietro i polpacci i miei stivali da motociclista davvero improponibili. 'Dio, ora mi caccia via a suon di ceffoni', mi dico. Di certo non sono compatibile con un luogo del genere, talmente altolocato e dalle strabordanti aspettative, eppure, ne ho così bisogno, intendo, di essere adatta a qualcosa, di trovare un'occupazione e salvare la mia famiglia dal baratro in cui rischia di frantumarsi. Tengo le dita incrociate dietro la schiena già bagnata di sudore e ripeto mentalmente, con una voce stridula e penosa: Sincerità, sicurezza e serenità. ''In un altro momento sarei molto più selettivo ma sono in emergenza, ho bisogno di una praticante e devo fidarmi dell'avvocato Giorgi. Due parole: perché dovrei fidarmi di te?'', domanda veemente. Non ero pronta ad una domanda del genere, tanto meno a proferire parola dopo essermi lasciata abbagliare dal suo fascino. Rispondo d'istinto.
''Perché... la mia vita dipende da questo lavoro.'' Ed è vero. Annuisce, ma non mi sembra molto convinto. Mi gira attorno alla ricerca di qualche piccolezza da criticare, bruscamente porto la mano dietro la nuca, come a darmi conforto e l'avvocato nota i miei tatuaggi. Sono finita.
''Hai dei nomi tatuati sul braccio. Perché hai dei nomi tatuati sul braccio?'', mi chiede celermente, continuando ad indicare il mio braccio, con una punta di cuorisità. ''La gente si tatua i nomi dei figli, hai dei figli tu? Non posso collaboratrici con figli. I figli sono un problema: si ammalano, fanno recite scolastiche, vogliono essere sfamati. Tu hai dei figli da sfamare?'', conclude, annichilendomi e lasciandomi a bocca asciutta. Dato che ormai ho iniziato già a scavarmi la fossa, una bugia in più passa in sordina.
''No, non ho dei figli, no...'', comincio davvero a sentirmi un rifiuto umano, ma cosa diavolo sto combiando? ''Anzi, io odio i bambini e questi sono i nomi dei miei tre fidanzati, che volevono avere figli ed io non ho voluto'', la mia lingua si muove rapidamente producendo dei suoni che non riesco a riconoscere, sembra che a parlare sia la parte più recondita di me, una parte assolutamente irriconoscibile e con la quale non voglio averci nulla a che fare. Mi sembra quasi di essere fuori dal mio corpo e di guardarmi, inerme, compiere un guaio dopo l'altro. ''Fidanzati, eh'', esclama, afferrandomi il braccio ed osservando meglio il tatuaggio. Questo lieve contatto mi destabilizza.
''E Mia?'', mi chiede con particolare interesse. Ormai invento.
''Ehm... Mia è... sono una persona aperta'', balbetto con atteggiamento complice, strizzandogli l'occhio.
''E' il tuo giorno fortunato'', mi annuncia, interrompendo quest'interrogatorio infinito. Dopo avermi riaccompagnato alla hall, esclama: ''Un mese di prova, e solamente perché sono davvero nei guai. Ci vediamo domattina. Puntuale.'' Il mio sorriso è incontenibile, mi sembra finalmente di vedere una piccola fiaccola di speranza infondo al tunnel.
''Arrivederci'', gli dico, con tutta la gioia e la gratitudine di cui sono capace. Lui si volta perplesso, come a domandarsi se sono stupida davvero, e poi sparisce in corridoio. Non importa. Ho un lavoro! Finalmente qualcuno mi ha assunta! Prima di andarmene, tuttavia, riesco ad origliare un'impetuosa conversazione, che tra l'altro si svolge davanti agli occhi di tutti, tra un anziano uomo dalla chioma bianca, che intuisco essere il padre di Silvia, e l'avvocato.
''Sono Vittorio Torrini e che significa questo?'', esordisce, sventolando dei documenti davanti il viso allibito di Claudia. L'avvocato prende la palla al balzo e risponde: ''Signor Torrini, significa quello che c'è scritto. Sua figlia la cita in tribunale per circonvenzione di incapace, facile'', risponde, ostentanto tutto il suo genio. Con mio grande dispiacere inizio a perdere alcune fila del discorso, presa dall'incontrollabile gioia, ma ciò che riesco a comprendere è che il Signor Torrini è assolutamente sconvolto dall'agire della figlia, mentre ella si rifiuta di parlargli, anzi, addirittura arriva a pronunciare parole terribili come: ''Tu per me sei morto!''. Fatto sta che, dopo questo teatrino, Vittorio Torrini se ne va imbestialito.
''Ci vediamo domani mattina, Linda!'', mi saluta.
''Lisa, mi chiamo Lisa'', preciso, continuando a sorridere per l'incredulità d'avercela fatta. Sì, con qualche bugia, ma non voglio pensarci al momento.
''Stessa cosa, stesse vocali, quasi simili'', mi dice, con quel suo nonchalance irresistibile. In situazioni normali mi sentirei offesa, ma in questo momento non riesco a pensare ad altro che ad essermi salvata dalla rovina.
Recupero la mia auto, infischiandomene di quella dell'avvocato, che sono già le 13:45. Decido quindi di andare alla Coop prima di tornare, un'assunzione come questa deve essere seguita da una giusta dose di festa e di alcol se fossi più giovane e meno resposabile (ma a chi voglio darla a bere). Mentre il rombo del motore si frantuma in strada, divorando i chilometri, sento che nulla può spezzarmi, che il mio dolore è stato ripagato.

 
   
 
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