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Autore: FRAMAR    08/10/2016    28 recensioni
Quella sera sul lungomare c'erano soltanto io e quel ragazzo che vendeva collanine e braccialetti portafortuna. Mi fermai davanti a lui che alzò lo sguardo: aveva una faccia giovane, glin occhi neri e lucenti, era bello.
Genere: Azione, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Quella carezza della sera


 
Non ci avevo mai pensato che quel posto potesse essere anche triste. Lo avevo sempre visto in pieno sole, col caldo, con una marea di gente, con tanto di chiasso, frastuono, confusione, odori e anche il mare. Il mare , pensai, era l’ultima cosa.

Adesso era l’autunno e capita a volte che l’autunno è come la primavera. Sembra che tutto stia per rinascere, smalti di colori alle piante e al cielo, l’aria è così nitida che sembra vetro fuso, uno si illude, non sa o finge di non sapere che tutto è ormai prossimo a una rapida fine.

Non torno a casa, avevo detto. E poi nessuno mi aspetta. Se non felice, qui sono stato sereno. Avevo telefonato.

“Mi fermo. Ancora pochi giorni, finché dura la bella stagione, No, non fa fresco. Verso mezzogiorno il sole scalda come d’estate. Sono abbronzato, sto benissimo. Mi diverto. Ma si, mi diverto. E perché non dovrei? Si, certo, ci penserò. Oh, lasciatemi in pace!”.

Finivano sempre così i dialoghi con la famiglia, ma non era colpa degli altri, non era colpa di nessuno.

Una famiglia forte e numerosa, grazie al cielo. Io, Lorenzo, l’unico disadattato. Per vocazione o per rischio personale. Non sapevo. In fondo mi avevano mandato al mare per rimettermi. Cosa volevano? Avevo un’ottima cera, un discreto appetito, in venti giorni mi ero fatto anche il ragazzo, Gabriel, che mi portava in barca fino al molo, e la sera a ballare.

Si perché ero andato anche a ballare. In un posto che si chiamava Giardino d’estate. Romantico no? Con tante piante e luci rosse e coppie che si illudevano di avere trovato l’amore. Ma l’amore non si trova così, nello spazio di una sera, mi veniva da ridere. O da piangere, secondo i casi. Alessio come l’avevo incontrato? Non pensavo mai a questo. Ascoltavo i discorsi di Gabriel. Inconcludenti. Guardavo il mare. Grigio e blu  con strisce bianche di spuma. Il fantasma di una nave all’orizzonte. Le sonde del petrolio, lontane, proprio nel punto dove il cielo si congiunge col mare. Ma anche quello come tutto il resto era un’illusione.

Era stato Gabriel a proporre di fare un giro in battello fino alle sonde del petrolio. In principio l’idea mi era piaciuta. Qualcosa di diverso, qualcosa di nuovo. Il battello partiva di sera, con tante luci colorate, fiancheggiava la costa e dopo un po’ si lanciava verso il mare aperto in quel buio profondo che di giorno appariva come una linea.

Mi ero visto venire incontro tutto quel buio, come una mano d’inchiostro che avesse cancellato visi e cose. Una compagnia di turisti cantava accompagnandosi con le chitarre. Gabriel mi aveva messo la mano intorno alle spalle , era biondo, abbronzato e sapeva di gioventù, di buono, avrebbe potuto essere bello.

Per me era tutto come finito, pensavo solo a quella “cosa”, guardavo quel buio, non riuscivo a cambiare.  Da quando Alessio, il ragazzo che amavo si era ucciso.

Avevo scostato il braccio di Gabriel, cessato di udire il suono della chitarra. Restava solo quel pozzo nero dentro cui il battello avanzava forse per restare inghiottito.
Le luci della costa che tornavano, dopo uno spazio di tempo indefinibile, mi avevano restituito alla realtà. Perché Alessio si era ucciso? Perché aveva preferito morire un ragazzo che in apparenza aveva tutto? Il vuoto cosmico , la malinconia del tutto, qualcosa sul fondo…

Non c’erano risposte. Aveva smesso di guardarsi dentro, smesso di pensare, smesso di chiedere. La realtà si era ripresentata al momento di tornare a casa. Nella sua famiglia quasi felice, due sorelle, un fratello, una madre e un padre che si volevano bene e Alessio sull’altra sponda. Alessio che non rispondeva più al telefono, che non veniva più sotto la mia finestra a mostrarmi la moto nuova. Alessio che non mi prendeva più il viso tra le mani dicendo: “Amore mio…”.


 
Era il crepuscolo, mi guardai intorno. La pensione si era svuotata in questi ultimi giorni. Eravamo rimasti oltre a me una coppia di coniugi anziani, una famiglia con dei bambini. Anche la spiaggia era quasi deserta. Ombrelloni chiusi, sdraio vuote, i bar che smontavano le attrezzature  e il vento che soffiava sempre più forte trascinando il mare.  Già chiusi alcuni hotel, i nigth, poca gente nei viali, sotto gli alberi, e il lungomare spazzato da ondate di sabbia, deserto e malinconico come un film vecchia maniera.

Perché ero rimasto? Anche Gabriel era partito promettendo di scrivere messaggi, giurando che non mi avrebbe dimenticato. Ero solo, i fantasmi potevano anche venire ora. La mattina non riuscendo a dormire, mi alzavo presto, andavo in spiaggia, sedevo sulla sdraio o passeggiavo a lungo sull’arenile, assaporando quella drammaticità del mare destinata a me solo e così simile, in fondo alle mie reazioni più vere.

Ma quella sera a un tratto la lunghezza del tempo e la mia solitudine mi erano apparse insopportabili. Finito di cenare non avevo avuto voglia di andare a letto, o magari vedere  qualcosa, in televisione davano  Il Grande fratello, che boiata. Ma a che serve tutto?

Di sera era quasi freddo. Infilai un maglioncino sui calzoni, i capelli sciolti, spettinati,  l’abbronzatura mi faceva ancora più giovane e carino, quasi un ragazzino, a vedermi nessuno avrebbe sospettato di me di quello che avevo dentro. Il lungomare era deserto. Andai a bere un caffe  in centro, dissi per farmi coraggio. Là qualcuno avrei incontrato, magari anche solo per scambiare  una parola sul tempo, o per guardare dentro negli occhi agli altri, se per caso avevano la mia stessa solitudine. Notai quella figura solitaria seduta per terra vicino al muro perché non c’era nessuno nel raggio di mezzo chilometro.
Un vagabondo, pensai, e anche questo fa collane.

Ce n’erano stati tanti durante l’estate. Sedevano per terra nei punti di maggior passaggio, stendevano un panno nero e sopra il ricamo di quelle collane e croci ribattute con un certo estro, ma in fondo uguali nella linea, nel concetto. Molti coi capelli lunghi, i piedi sporchi, l’abbigliamento bizzarro, qualche viso interessante.

Una volta avevo notato una ragazza scalza, bionda e sottile, con un bel viso, gli occhi intensi, seduta per terra in mezzo a loro. Che tipo di vita sarà quella mi ero chiesto in un disagio improvviso di non trovare risposte soddisfacenti alla mia, programmata nell’ordine, sconfinante nelle cose sicure, la laurea da raggiungere, il posto, forse un compagno, Alessio, magari.

Ma poi Alessio si era ucciso. Così dell’ordine a un tratto mi era venuta la  nausea, l’impossibilità di tacitare me stesso, la tortura di non credere in nulla, di non trovare conforto.

Ma quella sera, sul lungomare c’eravamo soltanto io e quel ragazzo. Mi fermai davanti e lo guardai lavorare il metallo. Collane, croci, anelli e braccialetti porta fortuna erano stesi su un panno viola: La luce morendo svegliava dei contrasti in quei colori. Lui alzò gli occhi. Aveva una faccia giovane e cocciuta. E gli occhi neri lucenti.

“Quanto costano?, chiesi, indicando i braccialetti.

“Cinque euro. Ma se lo vuoi te lo do anche per meno”.

“Non passa nessuno di qui”.

“Appunto. La stagione è finita”.

Ci guardammo. Mi accoccolai sui talloni, presi un braccialetto in mano, era molto bello.

“Provalo”, suggerì il ragazzo con un sorriso, “ti deve stare bene”. Me lo misi al polso, stava veramente bene.

“Lo prendo”, dissi e cercai in tasca cinque euro.

“Non voglio niente”, disse il ragazzo alzandosi in piedi, “te lo regalo”.

Inarcai le sopracciglia, ero orgoglioso, non volevo regali da nessuno.

“Perché?”

"Perché sei bello”.

Era molto alto, coi fianchi stretti, il viso intenso, sereno, un tipo curioso.

“E perché non sei felice”.

“Tu come fai a saperlo”

“Si vede, non credi? Si guarda uno negli occhi e si capisce”.

Ero incuriosito, disorientato. Presi il portafortuna, mi accorsi che non osavo respingerlo, ma non ne capivo la ragione.

“E tu… tu che vivi in questo in questo modo, sei felice?”.

“Sono sereno, sono in armonia con me stesso, è questo quello che conta”.

Sembrò leggermi in viso la perplessità perché aggiunse: “Sono fatalista. Prendo la vita giorno per giorno. Il domani non mi preoccupa. E’ questo, vero, che non riesci a capire”.

Non avevo stima di questi giovani sbandati che vivono ai margine della società, senza un lavoro, senza una dimora, rifiutando tutto e abbandonandosi nel migliore dei casi all’illusione della droga. Eppure questo…

“Mi chiamo Filippo, e tu?”.

“Lorenzo”.

“Abiti qui”

“Sono in villeggiatura”.

“Ma non c’è più nessuno”.

“Appunto. Io ci sono”.

Ci sedemmo sul muretto prospiciente la spiaggia che andava incupendo nel mare fino a sparire nella macchia buia, In fondo non sapevo rinunciare al sollievo di parlare con qualcuno. Il ragazzo tirò fuori un paio di sigarette da una specie di zaino pieno di frange posate per terra.

“Fumi?”

“Si”.

“E non ti stufi qui solo?”.

“Un poco. E tu?”.

“Vengo da Rimini. Ho fatto tutta la costa. E’ più di un mese che sono da queste parti. Prima si guadagnava, ma adesso la gente non è più in vacanza, non ha più soldi da spendere. Me ne andrò verso il sud”.

“Ma non hai famiglia?”.

“Si”.

“Regolare?”.

“Mamma, papà, due fratelli sposati”.

“E tu te ne vai per il mondo…”.

“Mia madre in principio ha pianto. Adesso però mi capisce. E poi non vivo così tutto l’anno. D’inverno studio, l’estate sono sempre andato all’estero a lavorare”.

“E ogni tanto fai il vagabondo”.

“In un certo senso. Vedi, vivere in assoluta libertà restituisce più chiara la visione delle cose. Si fanno delle esperienze che maturano. L’anno scorso per esempio, sono stato fra i terremotati. Ho vissuto con loro due mesi. Guardavo quella povera gente che aveva perduto tutto in  pochi attimi e mi dicevo che io sono estremamente fortunato. E’ stato un lavoro duro tentare di rimetterli in piedi. C’erano tanti altri giovani con me. Ebbene, capivi che passato il primo momento del terrore e della distruzione l’uomo può sempre rimettersi in piedi purché non perda se stesso. Lo capisci?”.

Non del tutto. Avevo seguito quei fatti in televisione come seguivo altre cose, la politica, i terremoti nel Perù o i disastri aerei in  America, ma erano fatti che mi risultavano lontani, come sfocati, di un altro mondo. Lui mi guardò, capì quello che non avevo detto.

“Il bene e il male fanno parte della vita”, osservò con semplicità.

Mi accorsi che avevo ben poche cose da dirgli e nessuna importante. Studiavo infatti. Ma per il resto era come se non avessi mai conosciuto niente, come se non avessi vissuto.

“Vieni”, aggiunse Filippo prendendomi una mano, “andiamo a berci un caffè. Mi sono stancato di stare qui”.

Fu come se una corrente calda mi attraversasse il mio corpo. Ma fu un attimo e l’attimo seguente pensai di averlo sognato. Lo aiutai a radunare il materiale che aveva in esposizione a chiuderle nel panno viola. Poi il tutto sparì dentro lo zaino con le frange. Camminammo insieme fino al primo bar con gente, luci accese, ma ora non notavo più se le strade erano deserte o se la stagione era finita.

Parlammo a lungo. O meglio Filippo raccontava di posti lontani che aveva visto, di esperienze fatte. Sarà tutto vero o inventato, mi chiedevo, ma anche se non è vero è meraviglioso lo stesso rivestire di fantasia la vita.

Soltanto più tardi, sul lungomare, mentre lui mi riaccompagnava a casa fummo colti entrambi da un momento di malinconia.
“Domani me ne vado”, disse, “e mi dispiacerà non rivederti”.

“Anche a me”.

“Dammi il tuo indirizzo. Ti scrivo”.

Per un attimo fui tentato di acconsentire, ma poi quella parte di me che non riuscivo a vivere ebbe il sopravvento.

“No… meglio di no”.

Gli occhi neri, lucenti si puntarono nei suoi.

“Perché cosa ti hanno fatto?”.

“Chi?”.

“Quelli che non ti hanno reso felice”.

Raccontargli di Alessio, di me stesso, sforzarmi? Non potevo fidarmi interamente di lui. E poi non avrebbe capito. Ebbi paura delle mie reazioni.

“Nessuno mi ha fatto niente. Se non sono felice è colpa mia”.

Gli occhi neri persero per un istante la loro lucentezza. Filippo si passò una mano nei capelli folti, ricci.

“Ciao allora… arrivederci”.

Ma io ero convinto che non ci saremmo più visti. Restai sveglio a lungo a ricordare la solitaria figura che scompariva nel buio. Verso mattina si scatenò la bufera, vento e pioggia cominciarono a battere con inaudita violenza. Incapace di dormire mi alzai, mi vestii e messo un giaccone impermeabile uscii dalla pensione. Il mare in burrasca mi attraeva.

Pensavo a Filippo che era partito con una scassatissima Panda per chissà quali ignote destinazioni. Quando fui sul lungomare mi accorsi che la bufera stava assumendo un carattere eccezionale. Più che bello a vedersi il mare faceva paura.
Fu perciò con sorpresa che vidi gruppi di uomini correre verso la spiaggia. Il suono delle campane a martello e l’urlo di una sirena mi convinsero che stava accadendo qualcosa di grave.

Finalmente qualcuno mi urlò che c’era una nave in pericolo e che stavano uscendo tutti i mezzi di soccorso. Quasi d’istinto mi unì alle molte persone che correvano in direzione del molo: Motoscafi e battelli radunati alla rinfusa.

“Lorenzo”, chiamò una voce in mezzo a tutta quella confusione. Mi sentii afferrare il braccio mentre il vento mi torceva i capelli. Era Filippo.

“Vieni anche tu”, mi urlò per farsi capire.

“Dove?”.

“Saliamo su quella lancia, Tentiamo di raggiungere la nave”.

Avevo paura e un senso di incredulità, ma mi lasciai trascinare. Mi resi conto di quello che stava accadendo solo quando mi trovai a bordo della non grossa imbarcazione che puntava verso il mare aperto.

Avevo paura, questo era  certo, mentre Filippo non sembrava averne affatto. L’ombra della nave sorse davanti a noi  come un incubo sinistro. Lo spettacolo era orrendo, le acque intorno ribollivano , ogni tanto si poteva issare a bordo qualche naufrago,   ma i limiti della tragedia che si stava svolgendo davanti ai nostri occhi erano vasti.

Barche, lance, battelli, pescherecci, molta gente era accorsa allo SOS della nave in una gara di generosità, ma erano pochi quelli che riuscivano a portare realmente aiuto.

Mi strinsi alla murata della lancia, il viso e i capelli intrisi d’acqua. Filippo lavorava instancabile. Era lui che riusciva a tirare a bordo i naufraghi e una volta si tuffò anche a salvare un bambino e poi venne issato a bordo a fatica.

Visi sconvolti, invecchiati dalla paura, donne che urlavano, uomini impietriti. Mi sentivo sempre più inutile  e disorientato, Quella scena di orrore e di dolore mi coinvolgeva fino alle resistenze più intime, ma cosa potevo fare?

“Tieni”, disse Filippo affidandomi il bambino di dodici anni appena ripescato dalle acque, “stai con lui. Ha visto annegare suo padre e sua madre”.

Il bambino era pallidissimo, tremava. Ora era al sicuro non faceva che guardare il mare, quel vortice orrendo che aveva inghiottito la sua famiglia. Lo trascinai all’asciutto. In cabina cominciò a mugolare come un animale ferito.

Era un lamento terribile a udirsi e avrei voluto chiudermi le orecchie. Ma non potevo. E non sapevo cosa dirgli, come intervenire.

“Non fare così”, lo pregai, “ora sei in salvo, sei al sicuro”.

Ma erano le parole sbagliate. Il bambino insorse con maggior violenza.

“Io non voglio essere salvato. Non voglio esserci più. Tu chi sei? Cosa vuoi… cosa vuoi capire tu…”.

“Io sono Lorenzo e forse posso capire. Come ti chiami?”.

“Renzo”, rispose il ragazzo macchinalmente. Poi ricominciò a dibattersi disperato, rotolandosi sul letto.

“Senti Renzo, non devi fare così. C’è una ragione se tu sei rimasto in vita”.

“Ma mio padre è morto e anche mia madre. Non ho bisogno di parole… io voglio mi padre e mia madre. Tu non sai niente del dolore, niente di niente…”.

“Io volevo molto bene ad un ragazzo”, dissi sperando che Renzo capisse, “e si è ucciso”.

Il mugolio smise, il viso stravolto del bambino si lascio guardare un attimo.

“Perché gli avevano fatto del male...”.

Era una spiegazione nuova  che a me non era

mai venuta in mente. Alessio non sapeva come fare a vivere perché gli altri non capivano… a modo suo era un debole, ma un debole che faceva pietà, che ispirava tenerezza. Era Gay e lui non l’accettava.


“Sì, tutti gli abbiamo fatto del male”, mormorai e ne approfittai per prendere il bambino fra le braccia e cullarlo come se fosse stato suo padre. “Questo dolore è più grosso del mio, non ho il diritto di compiangermi, non ho il diritto di respingere la vita”. Pensieri nuovi, nate in circostanze nuove.

Renzo si mise a piangere, ma questo era buon segno. Era magro e pieno di spigoli e faceva un’immensa tenerezza. Come Alessio che non era cresciuto dentro, che era rimasto bambino. E nessuno l’aveva capito.

“Papà è scomparso mentre tentava di raggiungere la scialuppa e la mamma…”.

“Non pensarci, non ora, loro non vogliono che tu pianga, ma che tu viva. Resta qui con me… ecco, forse adesso riposerai…”.

La stanchezza, il logorio dei nervi lo stavano vincendo, si addormentò con singhiozzi sempre più brevi fra le mie braccia come se fosse piccolissimo.

Ci ritrovammo a terra molte ore dopo. Io e Filippo. Stanchissimi, ma tanta gente era stata salvata. Filippo mi mise un braccio attorno alle spalle, mentre io respingevo dal viso i capelli bagnati. Fu un  gesto naturale, come tanti altri. Eppure così dolce.
“Come mai non sei partito?”.

“Non potevo. Vedi, due come noi non si incontrano solo per caso. Sai che sei carino quando sorridi? E quando hai fiducia… perché adesso hai fiducia, vero?”.

Sì Filippo aveva ragione, la vita ricomincia sempre e anche la speranza. E anche l’amore. Gli avrei detto di Alessio. Più avanti, però, quando l’avessi conosciuto meglio. Ora era come uscire da una grave malattia e riscoprire che c’è ancora il cielo, i fiori, il sole, le piante, la gioia di vivere. Sapere a un tratto che tutto non è inutile.

“Se mi metto a lavorare sul serio”, disse Filippo, “forse mi prendi in considerazione. Non sono poi così svitato come credi”.
Oh Dio, le cose concrete, le cose programmate.

“Mi piaci così come sei”, affermai. “Guarda, ha smesso di piovere, viene il sereno”.

Uno stormo di uccelli migratori sbucò dalle nubi. Ma c’è sempre qualche posto al mondo dove l’estate può anche non finire e l’autunno può essere dolce come una carezza.
 
 

   
 
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