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Autore: Columbrina    09/10/2016    1 recensioni
Storia partecipante al contest "Story of our life" indetto da eleCorti
In un pomeriggio come tanti, i nipoti di Taichi si trovano a casa a giocare e, in una delle loro scorribande infantili alla ricerca di cimeli preziosi, trovano una chiave, da cui si dirama un racconto fatto di carte, uno sposo emozionato e una tradizione nuziale che prevede il dono, alla sposa, di qualcosa di blu, di vecchio, di prestato, di regalato e di nuovo.
Forse molte cose non le avrebbero capite. Forse molte domande sarebbero sorte dopo. Eppure, sentiva che era giunto il momento di condividere con loro queste parole. Perché i loro nipoti, erano tutto quello che lui e Sora avevano lasciato al mondo.
Genere: Fluff, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Sora Takenouchi, Taichi Yagami/Tai Kamiya, Un po' tutti | Coppie: Sora/Tai
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Qualcosa di...
 
Succedeva spesso che i suoi nipoti, fermandosi a giocare a casa, rovistassero nei suoi cassetti e, ogni volta, ritornavano con qualche cimelio, pregandogli di raccontare la storia legata a quel determinato momento della sua vita, eternamente intrappolato in quegli oggetti inanimati.
Quel pomeriggio fu diverso.
Taichi stava sorseggiando una tazza di tè e leggeva distrattamente le notizie dello sport sul quotidiano, lanciando ogni tanto delle occhiate all’orologio sulla parete di fronte a lui.
La routine si stava svolgendo in una disarmante tranquillità, almeno fin quando Akito, il più piccolo dei suoi nipoti, uscì trafelato dalla sua stanza con una chiave in mano; subito comparvero le testoline arruffate degli altri tre. I loro occhi brillavano di curiosità nel pensare a quale piccolo, incredibile segreto potesse celarsi all’interno di quel misterioso involucro.
“Che cos’è, nonno?” chiese il piccolo Akito, con evidente trepidazione. Il suo carattere curioso e iperattivo non si confaceva minimamente al suo nome – Bambino d’autunno – dato che Taichi e i genitori sicuramente si aspettavano un temperamento più mite, quasi malinconico, proprio come le foglie ocra e rossastre che rivestono le strade e le colorano come un mesto quadro dai colori soffusi.
Akito era il figlio dell’unico frutto che l’amore di Taichi e Sora aveva concepito, pertanto entrambi i nonni tendevano a mostrarsi molto indulgenti nei suoi confronti.
Sora diceva che Akito aveva i colori dell’autunno, ma il cuore dell’estate.
Taichi non poté fare a meno di sorridergli, ricordando queste parole. Gli disse di avvicinarsi e, in fila indiana, lo seguirono anche gli altri tre che, sebbene fossero più grandi, non avevano il coraggio di farsi avanti e chiedere al nonno di raccontare l’ennesima storia.
Solo quando ebbero preso posto, Yuichi o anche Primo figlio coraggioso, suo nipote più grande, dall’alto dei suoi sette anni, batté le mani sul tavolo in segno di protesta e gli disse di dirgli cosa fosse quella chiave. Taichi, allora, gli arruffò i capelli: gli ricordava tanto suo figlio quando aveva la sua età.
“Apparteneva alla nonna, vero? Per questo stava nel suo cassetto?” soggiunse l’intuitiva Sayuri o Piccolo Giglio, sei anni, decisamente più placida e meno capricciosa del fratello Yuichi. Taichi riteneva che somigliasse molto a Hikari: entrambe avevano una purezza d’animo delicata quanto quella di un giglio dai petali bianchi, immacolati; era anche la più razionale dei suoi nipoti, tanto che i più piccini solevano rivolgersi a lei quando avevano bisogno di un consiglio. Yuichi e Sayuri erano i figli di Akira, avuto dalla prima moglie Yokuko, e Miyu, la figlia che Yamato e Sora avevano concepito quando erano ancora sposati.
Taichi annuì, decidendo di mettere via il quotidiano e dicendo loro di stare attenti, perché quella era una storia che andava ascoltata solo una volta.
I bambini rizzarono dritti sulle sedie, muovendo con impertinenza i piedi dall’emozione, mentre la piccola Naoko, quattro anni e qualche mese più grande di Akito, si sedette composta accanto al nonno putativo. Bambina docile, questo era il nome che Masato e sua moglie avevano scelto per lei e Taichi pensò che non potesse esserci un nome più adeguato. Anche Masato, come Miyu, era figlio di Sora e Yamato e completava la loro strana famiglia allargata.
“Non sedetevi, bambini. Dobbiamo andare in giardino e usare la chiave” disse Taichi, con la verve di un cantastorie o un pifferaio che, con la sua musica, trascinava i bambini, trapelanti di emozione, nel giardino sul retro della casa, in cui si respiravano gli odori e i colori della bella stagione. L’erbetta incolta in alcuni punti del giardino era il terreno da gioco preferito delle api e di Yuchi, che raccoglieva sostanziosi fastelli da portare alla sua mamma; Naoko, invece, amava contemplare le infinitesimali gocce di rugiada che scivolavano sugli steli, che si aprivano in tutta la loro frescura quando la piccola cercava di afferrarle; in un modo o nell’altro, quel giardino brulicava degli odori e dei colori dei suoi piccoli nipoti. Eppure, nessun profumo era inebriante e placido come quello di Sora quando potava gli alberi, estirpava le erbacce o rendeva il prato uniforme, ispido come la barba che gli piaceva portare nel periodo in cui si sposarono.
Il profumo di Sora era particolarmente intenso quando si avvicinavano al ciliegio che sua moglie curava con tanto amore, un sentimento talmente forte che l’albero era ancora rigoglioso, nonostante lei avesse lasciato quella terra, quel giardino e quella casa già qualche tempo fa.
“Ora fermi, bambini. Akito, per favore, dammi la chiave”.
Il bambino obbedì, fermandosi accanto ai cugini, negli occhi la loro medesima curiosità; si chiedevano tutti cosa stessero facendo di fronte a quell’albero e perché Taichi avesse il bisogno di quella chiave.
“Gli alberi non hanno mica le serrature!” fu il commento di Sayuri, sempre troppo pragmatica.
Taichi non rispose al commento della nipotina, il che instillò in loro un crescente desiderio di sapere; a mani nude, sfruttando le poche, ma rigogliose energie che gli erano rimaste, le sue dita scavavano freneticamente nel terreno; le teste piccole e arruffate dei piccoli cercavano di intravedere quale inspiegabile mistero stesse riposando sotto il ciliegio della nonna.
La curiosità si accese ulteriormente quando Taichi tirò fuori un portagioie, che Sora teneva vicino al suo comodino dal suo lato del letto; i bambini erano troppo piccoli per averci mai fatto caso, ma Sayuri ricordò di averlo visto sullo sfondo di qualche fotografia; c’era una foto, particolarmente cara a Taichi, in cui Sora aveva immortalato i suoi nipotini dormire nel loro letto, placidi e silenziosi come lo erano poche volte.
“Ora userai la chiave per aprirlo, vero nonno?” disse nuovamente Sayuri, il cui precoce rigore logico allargò il sorriso di Taichi, che annuì lentamente.
“Dai apri, dai, dai!” tuonava Akito, sbattendo fragorosamente le mani.
“Chissà cosa ci sarà dentro…” soggiunse Yuichi, portandosi un dito al mento, pensieroso.
“Una corona di… Billianti” propose Naoko, incespicando nel suo fervido linguaggio infantile.
“C’era una cosa che feci per vostra nonna, tanto tempo fa” disse Taichi, le cui dita dapprima frenetiche, si fecero inaspettatamente dolci nel carezzare il legno laccato che rivestiva il portagioie.
Quegli indizi, seminati come piccoli chicchi sul campo immaturo, facevano ancora più gola ai bambini, che stavano proponendo le alternative più fantasiose su quale, faraonico regalo potesse nascondersi in una scatola così piccola.
Taichi, dicendo loro di placare i loro strepiti, prese la chiave e la avvicinò alla serratura, che combaciava perfettamente. La girò due volte, delicatamente, finché non si sentì solo un piccolo scatto: il frinire estivo delle cicale si fece più intenso; le pupille nere dei loro occhi infantili si dilatarono; un fervido luccichio illuminava le iridi; i respiri erano più intensi; il cuore più accelerato; la saliva che si stava accumulando progressivamente in bocca… Fin quando non sentirono il fruscio della carta tra le dita avvizzite del nonno; l’inconfondibile odore dell’inchiostro e del tempo cullato dal placido venticello di quel pomeriggio.
Non si sentiva alcuna voce infantile; solo il respiro lento di Taichi e qualche campanello di bicicletta di qualche monello del quartiere.
“Una lettera?” esordì Sayuri, con sguardo interrogativo. Aveva un tono a metà tra il deluso e l’affascinato, una divergenza cozzante che spiegava perfettamente la loro confusione.
Taichi comprendeva perfettamente la reazione dei nipoti: la loro mente ragionava all’inverosimile, al punto da andare oltre la semplice realtà, al punto da idealizzare ogni cosa, ma sperava che riuscissero ad avvertire l’incredibile coraggio con cui stava condividendo con loro il contenuto di quella lettera.
“La scrissi per vostra nonna il giorno prima di sposarci. Sapete, io e la nonna ci conoscevamo sin da bambini, mai avremmo immaginato che sarebbe giunto il giorno in cui avrei scritto una lettera del genere. L’ha letta solo una volta e voi siete le uniche persone con cui sia io che lei vogliamo condividerla”.
Forse molte cose non le avrebbero capite. Forse molte domande sarebbero sorte dopo. Eppure, sentiva che era giunto il momento di condividere con loro queste parole. Perché i loro nipoti, erano tutto quello che lui e Sora avevano lasciato al mondo.
Ci fu un secondo attimo di smarrimento; questa volta durò solo qualche secondo, prima che sui loro volti si stampassero quattro, incredibili sorrisi, ognuno avente un significato diverso: quello di Naoko era romantico e sognatore; quello di Yuichi era pregno di nostalgia, la stessa che gli spuntava sul viso ogni volta che si parlava della nonna; quello di Sayuri era acceso dal desiderio di sapere, di conoscere e, al tempo stesso, misterioso come quello di Hikari quando si parlava di Takeru; quello di Akito era incredibilmente identico a quello di Sora.
Tutti i loro sorrisi, però, erano accomunati dal desiderio di ascoltare le parole celate in quell’involucro di carta.
Perciò, Taichi fece un respiro profondo e prese a leggere, lentamente.

 
Cara Sora,
perdonami. Perdonami per essere stato un codardo. Io, che dovrei essere l’emblema del coraggio, che mi comporto da codardo. Tanto per cambiare. Una volta, quando avevamo diciassette anni, mi dicesti che la mia non era codardia… Ero solo cresciuto e non stavo facendo altro che pensare alle conseguenze.
Ma quel giorno, quando ti vidi camminare solennemente all’altare, dovevo alzarmi e dire “Io mi oppongo” e magari avresti acconsentito alla mia follia di scappare insieme. O forse no.
Non l’abbiamo mai saputo e, per certi versi, è stato meglio così.
Fatto sta che non possiamo condannare le nostre scelte, altrimenti i nostri figli non sarebbero mai nati. Se tu non ti fossi mai sposata con Yamato, non avresti mai avuto Miyu e Masato e io non avrei mai avuto Akira. Forse, non abbiamo poi sbagliato tutto, no?
Anche a un passo dalle nostre nozze, anche dopo aver trovato il coraggio di fare tutte quelle scelte che ci hanno portato a questo giorno, ho ancora paura. Paura di dirti queste parole, che immortalerò nella carta, perché è giusto che, in un modo o nell’altro, tu le conosca.

 
A Taichi si fermò la voce per qualche istante, come se stesse assaporando nuovamente le sensazioni vorticanti di quella sera, tra gli odori delle candele profumate della stanza d’albergo, le luci soffuse della lampada vicino al comodino, il ronzio della televisione e il suo continuo torturarsi le dita.
Affondò ogni sua emozione nel profumo dei fiori e dei frutti e nelle urla dei suoi nipoti che gli pregavano di andare avanti.
 

Ci siamo sentiti a telefono pochi minuti fa. Ogni volta che sento la tua voce, mi sembra di ricordare le partite di calcio, le avventure a Digiworld, perfino quella volta in cui ti arrabbiasti con me quando ti regalai il fermacapelli, ma soprattutto ogni volta mi innamoro di te.
Sembra assurdo che io stia dicendo queste cose, vero? Te lo saresti mai aspettato dal tuo amico scavezzacollo? Ammetto di aver acquisito un certo fascino quando ho deciso di intraprendere la carriera diplomatica, ma sono sicuro che nemmeno tu ti saresti aspettata tutto questo.
Sono qui, nella stanza d’albergo che ho affittato perché “il giorno prima del matrimonio, gli sposi non devono vedersi”, ho acceso le candele profumate in omaggio del bagno e ho abbassato il volume della televisione. Non voglio che le grida del conduttore, incrinino i miei pensieri. Non sai quanto è importante per me scriverti questi fogli.
Parlo al plurale perché sono quasi alla fine del primo.
Ci risentiamo alla prossima pagina.


Taichi cambiò il foglio, in un fruscio di carte e di emozioni luccicanti all’angolo dell’occhio. Leggeva tanta curiosità sui volti dei loro nipoti; solo un indispettito e impaziente Yuichi batteva i pugni sulle ginocchia: voleva assolutamente sentire ciò che il nonno aveva da dire alla nonna.
“Sono sempre stato famoso per i miei giri di parole…” si giustificò Taichi, con una plateale alzata di spalle.
“Dai Yuichi, non infastire a nonno. Voglio sentire, voglio sentire!” protestava Naoko, sinceramente presa dalle parole della lettera e decisamente incurante dei proverbiali scivoloni retorici del nonno.
Si percepiva a fior di pelle l’emozione di quella sera, quando i suoi capelli avevano ancora le sfumature calde del mogano, quando solo qualche grinza solcava la sua pelle, quando lei era ancora tra le sue braccia.

 
Rieccomi qui.
Ti dicevo. Domani, sì, proprio domani ci sposiamo.
E sai cosa dice la vecchia tradizione, no? Qualcosa di blu, di vecchio, di prestato, di regalato, di nuovo…
Bene, iniziamo con qualcosa di blu. Diciamo che non è mai stato un colore che mi ha fatto impazzire, sebbene sia ben compiaciuto della nota tradizione della giarrettiera blu, che spero indosserai. Io, però, preferisco una determinata tonalità di blu… Che non è quella dei fiorellini del bouquet di Miyu o del vestito che ha intenzione di indossare mia madre domani. Il mio colore preferito è quello del cielo.
Quello dell’alba, sfumato dei rimasugli della notte. Quello del giorno, quando il tempo è sereno, che sia costellato di nuvole o enfatizzato dal sole. Quello del tramonto, un po’ rosso, un po’ rosato, un po’ del colore della tua pelle e dei tanti sguardi che abbiamo rivolto alla spiaggia, quando il sole andava a dormire al di là del mare. Quello della notte, un vestito prezioso, trapunto di brillanti, come quelli che spero di comprarti, affinché tu ne possa esaltare la bellezza.
Non c’è dubbio, il colore del cielo è quello che preferisco.

 
“Ho capito, ho capito!” schiamazzava Sayuri, ben più irrequieta del fratello, quando giungeva a una delle sue intuizioni. Sembrava Hikari quando riusciva a risolvere i problemi di matematica, da piccola.
Taichi sorrise. Anche lui aveva capito: “Cosa, tesoro?”.
“Ho capito perché il color cielo è il tuo preferito!”.
Nonno e nipote si scambiarono uno sguardo fatto di trepidante tenerezza e di sorrisi pregni di parole nascoste, che solo loro riuscivano a interpretare.
Gli altri, suo fratello compreso, la guardarono con sospetto e con bramosia di conoscere cosa potesse nascondersi dietro i misteriosi sotterfugi tra nonno e nipote.
“Dai, diccelo anche a noi!” gridavano in coro, Akito più di tutti.
“Non se ne parla proprio, dovete arrivarci da soli!” disse Sayuri, con la saccenza da prima della classe.
Divertito dal curioso siparietto dei nipoti, Taichi disse loro di fare silenzio, in modo da continuare con la lettura.

 
Poi ci vuole qualcosa di vecchio, che simboleggia il legame della sposa con il passato e tutto ciò che c’è stato prima del matrimonio. Avrei una scatola intera da svuotare. Abbiamo passato quasi tutta la nostra vita insieme, quindi i cimeli da rispolverare sono tanti. Spero che avere intorno a noi tutti i nostri amici, tutti, nessuno escluso, nemmeno Yamato, sia un dono a te gradito.
Avevo intenzione di darti il fermacapelli, una volta all’altare, ma ho il sincero timore che tu possa piantarmi in asso.
Non voglio che quel “vecchio” indichi la definitiva separazione da tutto ciò che ha fatto parte della tua vita finora, ma voglio che ne venga suggellato un nuovo inizio.
Avremo Jyou e la sua splendida famiglia. Koushiro e Mimi, che sono stati i primi a sposarsi, chi l’avrebbe mai detto. Di quel giorno, sarò sincero, non ricordo nulla, a parte i momenti con te. Da degni testimoni degli sposi, del resto, dovevamo adempiere ai nostri doveri. Avremo, naturalmente, Hikari e Takeru. Del loro matrimonio, ti confesso, conservo l’amarezza di non averti invitato a ballare. A breve ti saresti sposata con Yamato, ma avrei tanto voluto stringerti tra le mie braccia, almeno fino alla fine della musica clandestina mascherata da semplice valzer.
Avremo Yamato, che ha tanto sofferto, a cui devo tanto perché ha contribuito a renderti la splendida donna di cui mi sono innamorato e perché ha capito. Ha semplicemente sorriso e ha capito.
Non penso di avere abbastanza riconoscenza nei suoi confronti, in quelli di Miyu, di Masato, di Akira e anche nei confronti di Yokuko.
Un passato che diventerà “per sempre”.

 
Yamato aveva avuto un ruolo molto importante nella realizzazione del sogno d’amore tra Taichi e Sora.
Lui e Sora erano sposati da nove anni, avevano Miyu e Masato che erano piccoli. Le cose non andavano bene, entrambi erano consapevoli della presenza di una spaccatura irreparabile, che l’amore per i loro figli copriva solo parzialmente. Il terrore di Yamato di far crescere i loro figli nel senso di colpa e nella sofferenza di vivere la separazione dei genitori, faceva desistere entrambi da tanto, troppo tempo. Eppure, non riuscivano a rendersi conto che quella freddezza malcelata dagli sforzi di mostrarsi felici dinanzi ai loro figli, li rendeva ancora più colpevoli.
Una notte di pioggia, l’ennesimo litigio, i vestiti di Taichi che grondavano acqua e gli occhi di Sora che grondavano lacrime. Il litigio finì non appena Taichi disse, dinanzi ai due, che amava Sora più della sua stessa vita. Yamato affondò sul divano bianco del loro appartamento, si tenne la testa tra i palmi della mano, poi la alzò e sorrise.
Tutti erano di nuovo felici. Per i bambini fu strano, naturalmente, abituarsi all’idea della famiglia allargata, ma tutti i sensi di colpa erano svaniti.
Nessuno seppe cosa si dissero, Taichi non lo specificò nemmeno nella lettera e, forse, era meglio così.

 
Il fatto è che il passato non merita nemmeno di essere chiamato o considerato tale.
Tutto è presente, tutto resterà scolpito nella nostra anima fin quando non lasceremo questo mondo e diventeremo storie.
Yamato, Koushiro, Hikari, Takeru… Resteranno nel nostro “per sempre”, te lo prometto.

 
“Nonno Yamato venne al matrimonio?” soggiunse Yuichi, decisamente stupito.
“Non si trovava nello spazio?” disse Sayuri, facendo eco al fratello.
“Oh no, quel giorno fece un’eccezione solo per noi. Un vero peccato perché scoprirono un nuovo pianeta” scherzò Taichi. I suoi nipoti non capirono, però, che fosse uno scherzo e iniziarono a strepitare.
Nipoti in comune: che ironia della sorte, pensava Taichi. Quando era sposato con Yokuko e pensava alla sua vita con Sora, sapeva – in cuor suo – che sarebbero stati, indissolubilmente legati tramite i loro figli. Sapeva che tra Akira e Miyu esistevano troppe coincidenze, a partire dalla comune età al fatto che fossero incredibilmente vicini.
Al loro matrimonio, avevano undici anni. Anche questa sembrava essere una strana coincidenza. Era una coincidenza anche il fatto che Akira avesse fatto un commento poco carino sui capelli di Miyu, offendendola a morte?.
A un certo punto, quelle coincidenze avevano iniziato a far storcere il naso a Taichi, Sora e Yamato…
Per non parlare, poi, di quando Akira chiese la benedizione di Yamato per chiedere la sua bambina in sposa…

 
Qualcosa di prestato. Hikari ha cercato di rendermi le cose più semplici, in questo, lo ammetto. Mi ha raccontato che ti ha prestato un vestito per il matrimonio di una tua collega… Eppure, non mi sembrava calzante.
Poi mi sono ricordato di una cosa. Ti ricordi del matrimonio di Hikari e Takeru? Quando Jyou è ubriaco, diventa più imbranato del solito e quella aveva rovesciato quella poltiglia liquorosa addosso allo smoking di mio padre, che avevo fatto restringere per me. Dopo quella scenata sulla sala da ballo, che Hikari mi rinfaccia ancora adesso, andai in bagno, furente, per pulirmi. Giusto perché non sono mai abbastanza fortunato, la carta igienica era finita.
Il mio infallibile spirito di sopravvivenza, mi spinse sempre più vicino alla fontana con i cigni, il cui odore stagnante era un balsamo confrontato con il puzzo di alcol che avevo addosso.
Perfino le piante andavano in coma etilico.
Tu, che non perdi mai il tuo spirito da mammina, venisti da me e mi desti il fazzoletto che avevi ricamato per esercitarti con il cucito.
“A fine serata, me lo ridai, d’accordo?” mi dicesti.
Dopo tanti anni, sembra arrivato il momento per restituirlo, no? L’ho fatto lavare, tranquilla, non ha più il tanfo insopportabile di quella serata, anche se non ho più messo vestiti di mio padre a un matrimonio… Né allungato un bicchiere a Jyou. Lascio quell’onere al barista, sperando sia parsimonioso la prossima volta.

 
“Non hai quel fazzoletto?” chiese Akito, che aveva una fervida passione per i cimeli dei suoi nonni.
Taichi, a quel punto, per stuzzicare ulteriormente la sua curiosità infantile, alzò le spalle e gli frizionò i capelli.
“Quel fazzoletto apparteneva alla nonna. Gliel’ho ridato al matrimonio, mentre mangiavamo, per ripulirsi da tutta la panna che le lasciò la torta, quando la imboccai. In tutti i nostri anni insieme, l’ha sempre custodito lei e solo lei sa dove sta”.
Akito, parzialmente deluso da quella risposta, venne debolmente consolato da Sayuri, che gli sussurrò nell’orecchio con fare complice: “Dopo andremo a cercarlo nei cassetti della camera”.

 
Ora ci vuole qualcosa di regalato e spero di poter essere all’altezza, dato che non potrò ripagarti abbastanza di ciò che mi stai regalando stasera, di ciò che mi hai regalato in tutti questi anni che mi hai sorriso, mi hai rimproverato, mi hai commosso, mi hai aiutato ad essere la persona che sono ora, mi hai aiutato a trovare il coraggio di essere felice, di amare la persona che volevo accanto a me, per sempre. Mi hai dato il tuo amore. Io, una volta, dissi che volevo sentire il tuo amore. Quella volta fu per scherzo, me ne sarei reso conto ora che, di ironico, quella frase non aveva niente.
Io vorrei regalarti quel coraggio che ho sempre creduto di non avere. Te lo donai già con quel libro sui tessuti, quando avevamo diciassette anni, che ti ha aiutato a trovare la tua strada e diventare la stilista magnifica che sei. Te ne diedi ancora un po’ quando, quella sera, tra le lacrime, ci confessammo reciprocamente di amarci. Questa notte, impregno questa lettera di tutto, tutto il coraggio che ci servirà per ricominciare da zero, perché non saranno rose e fiori, perché abbiamo delle responsabilità verso i nostri figli e verso noi stessi, perché è tutto bello quando si è in salute e ricchezza, ma il giuramento prevede anche la malattia e la povertà.
Io so che, con questo coraggio, ho attraversato un reticolato ad alta tensione.

 
I due maschietti erano decisamente entusiasti della storia del reticolato ad alta tensione e pregavano il nonno di raccontare, dopo, come ci fosse riuscito e di insegnare loro a farlo; vennero immediatamente redarguiti dalle due femminucce, soprattutto da un’agguerrita Naoko, che volevano ascoltare l’ultima parte della lettera.
 
Infine, voglio darti qualcosa di nuovo. Nella tradizione, simboleggia l’ottimismo della sposa verso la nuova vita matrimoniale.
Non ho molto da darti. Tutto quello che abbiamo scelto per la nostra vita, che sia la casa o il modo di crescere i bambini, l’abbiamo deciso insieme. Non ho abbastanza pretesti da farti essere ottimista circa la vita matrimoniale con me.
Tendo sempre a dimenticare i vestiti sporchi fuori dal cestello; faccio confusione con i pulsanti della lavatrice e della lavastoglie; più di una volta, mi è capitato di mettere il sale nel caffè; non so acconciare i capelli di Miyu e non so scegliere i vestiti per Akira; non so essere eccessivamente romantico; spesso faccio ritardo, pensa che ho impostato la sveglia due ore prima della cerimonia per arrivare puntuale; non so nulla su come essere un buon marito, non lo sono mai stato abbastanza; non sono per niente organizzato, la mia agenda è tutta un casino di scarabocchi e dediche dei bambini; a volte, ho troppa paura; a volte, ne ho troppa poca; a volte, sono semplicemente un codardo; non ti dico spesso che ti amo; non so se te lo dimostro abbastanza; non so se ti andrà di dividere il letto con me, che russo come un orso in letargo; non so se sono abbastanza…

 
“Bravo a rifare il letto!” concluse Taichi, con un groppo in gola.
 
Non so se sarà per sempre, non so se morirò domani, non so se avremo mai dei figli o degli animali, non so se cambieremo casa, città, nazione, te l’ho detto che non sono per niente organizzato.
Non so cosa donarti di nuovo.
Però, mia amata, io lo voglio. Voglio te, voglio accettare i tuoi pregi, i tuoi difetti come l’essere troppo puntigliosa o il bruciare troppe volte le uova, voglio fare una famiglia con te, voglio che sia per sempre. Non importa nulla, se non la nostra felicità.
Voglio regalarti nuovi motivi per sorridere ogni giorno. Che sia per un aneddoto divertente al lavoro, per una festa, per una recita dei bambini, per un nuovo corredo da comprare, per tutte le disavventure quotidiane che verranno.
 
In cambio, chiedo solo una cosa.
 
Uova bruciate. Tutte le mattine.
Altrimenti, niente da fare.

 
 
Intuendo che fosse finita, dato il sospiro plateale di Taichi, i nipoti reagirono con un misto di incredulità e di sorpresa dinanzi all'inatteso rovesciamento delle loro aspettative.
"E l'hai conclusa così? Nessun saluto? Di solito, le lettere non finiscono con la tua firma?" sbottava Yuichi che, contrariamente alle sue previsioni, era coinvolto più di quanto immaginasse.
"Uova bruciate? A chi piacciono le uova bruciate?" soggiunse Sayuri, trovando l'appoggio di Naoko. Akito, invece, si succhiava il dito per la delusione.
"A me quelle della nonna piacevano" disse Taichi, impedendo alla piccola nipote di trovare argomentazioni valide per replicare.
"Sì, ma noi vogliamo sapere come finisce!" continuava Yuichi, imperterrito: "Questa è la storia di come tu e la nonna vi siete sposati! Perché non hai parlato della chiesa, del vestito di nonna, della festa?".
Taichi, il sorriso placido dell'età avanzata, disse che, dietro l'ultimo foglio della lettera, aveva scritto di getto qualche riga, mentre Sora dormiva, per immortalare la sconfinata felicità che aveva riempito il suo cuore, quel giorno.
Taichi ammise di ricordare poco e niente del suo secondo matrimonio, se non il sorriso che Sora ebbe per tutta la durata dei festeggiamenti.
Condivise con i suoi nipoti quelle parole. Forse, nemmeno Sora si era mai accorta di quella postilla, scritta in piccolo, sul retro del foglio.

 
Siamo marito e moglie, ci credi?
Io non ancora. Sora Yagami suona abbastanza bene, no? Anche Taichi Takenouchi, insomma... La doppia T ha il suo fascino, lo ammetto. Però, io e te penso che abbia un suono migliore. Stai dormendo accanto a me, per la prima volta, da moglie. Sei bellissima.
Anche oggi lo eri, molto, con il trucco sottile che ti risaltava gli occhi, i capelli più domati del solito, il bianco che sembrava luce sul tuo corpo. Hanno pianto tutti di gioia, al punto che Hikari e Mimi sono dovute correre in bagno dopo la cerimonia; Jyou, fortunatamente, si è tenuto lontano dal bar più del solito, evidentemente Midori gli ha fatto una bella strigliata; poi hai visto come erano comici Koushiro e Takeru bendati durante quel gioco? Ho visto che stavi per commuoverti alla poesia di Miyu e Akira... Poi hanno iniziato a bisticciare sul palco, come sempre. Fortuna che è intervenuto Yamato.
Ieri ti scrissi che ti avrei dato il coraggio per affrontare gli ostacoli di tutti i giorni.
Quello che non sono riuscito a dirti, però, che il coraggio l'ho trovato grazie a te.
Grazie per avermi dato il coraggio di amare.
Tuo marito.

 
Taichi, d'un tratto, sospirò, come se gli avessero tagliato il respiro con un coltello. Le sue parole rimasero a mezz'aria, rubate dal vento che conciliava l'agitazione che dilatava le sue iridi, la trappola di ossa che imprigionava il suo cuore, mentre le sue dita quasi tremavano. La potenza della carta da lettere sapeva essere devastante.
"Nonno, tutto bene?" chiese Akito, visibilmente preoccupato. Attorno a lui, vide gli sguardi accorati dei suoi nipoti, da un lato preoccupati e dall'altro curiosi. Anche loro volevano testare la potenza devastante della carta.
Taichi, destatosi dallo stato di trance, cercò di riassumere un'espressione placida e serena, per far scomparire la preoccupazione dal volto dei suoi nipoti. Sorrise e disse loro che andava tutto bene, che era solo stanco di leggere, anche se la lettera era finita.
"Andate a prendere il tè dentro, su. Sayuri, prendi i biscotti allo zenzero che stanno nella credenza in cucina e fate merenda. Io metto via queste cose".
Sayuri, come Hikari da piccola, era particolarmente incline all'obbedienza, specie quando gli adulti si rivolgevano con toni tanto pacifici, placidi e sereni. Prese per mano i più piccoli e, dopo aver redarguito il fratello, corse dentro insieme a loro.
Taichi, allora, sospirò profondamente e si abbandonò completamente, la schiena rilassata contro l'albero, gli occhi socchiusi, sbuffi di vento sul volto e il profumo di Sora misto a quello dell'estate. Un placido sorriso disegnato sul volto gli dava la parvenza di essersi addormentato là, al sole, per godersi la frescura pomeridiana e il cicaleccio delle cicale e dei campanelli delle biciclette.
Sora aveva letto quella postilla.
Aveva letto e anche risposto.
Era la prima volta che Taichi lesse quelle parole, scritte da lei mentre lui dormiva, verosimilmente.
Aveva voglia di ridere, di dirlo al mondo, di avere le energie di un tempo per sollevare quell'albero, scavare profondamente nel terreno o squarciare i cieli per riprendersi la sua Sora e ringraziarla, ancora una volta, di avergli dato un motivo in più per sorridere.
Aveva scritto qualche frase brevissima, in una calligrafia minuscola, formosa, femminile.

 
Sei uno stupido, Taichi.
Mi toccherà ripeterlo per sempre.
Intanto, vado a preparare le uova per la colazione. 
 
   
 
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