C'era una volta un uomo
Con gli occhi verso la luna
E si chiedeva,
Verrà presto l'amore?
La porta
di legno marcio scricchiola. Attraverso i tagli da rissa con arma bianca senti
un sottofondo di musica, qualcuno che urla, un gruppo di ubriachi che ride. Attraverso
i buchi dei tarli senti la puzza di whisky, densa, concentrata e nauseante.
Non che ci
siano cose che mi riescano a nauseare; o spaventare, impressionare, turbare.
La verità
è che, in fondo, sono secoli che nessuno capisce cosa veramente riesca a
smuovermi dal mio stato di perenne calma apparente.
Io per
primo.
Spingo la
maniglia dorata e unta di grasso, l’aria calda mi brucia gli occhi; abbasso il
cappello, faccio un passo dentro. Uno sguardo attento e lento intorno mi rivela
la presenza del barista, che pulisce un bicchiere, un pianista scadente sul
palco quasi fatiscente e altri tre o quattro clienti sparsi per la bettola.
- Victorius.
Mi abbasso
la tesa del cappello come saluto, fingo un lieve sorriso.
Al barista
cede la mascella, un guizzo nei suoi occhi, il cuore irregolare e impazzito. La
mano con lo straccio lurido si ferma. Balbetta.
- Horestes! Bentornato, com’è andato il viaggio? Spero bene,
anche se ti vedo affaticato! Prego, siediti, ti porto il solito grog?
Pensando
che sia stato relativamente utile sgozzargli tutte le galline, grugnisco e mi
vado a sedere al mio tavolino preferito. In fondo a sinistra,
nell’ombra, perfetto per controllare la situazione di tutto il locale.
Le assi
del pavimento gemono e appiccicano, un ratto corre dalla porta dello scantinato
a un buco nel muro sgretolato.
La
superficie del tavolo è coperta di qualcosa di vischioso e unto, e quando il
mio grog doppio senza ghiaccio arriva il bicchiere
incide un solco nello sporco.
Congedo Victorius, faccio un cenno col capo al pescatore che mi guarda
terrorizzato, stendo le gambe sul tavolino e abbasso la tesa del cappello. Ciò
che aspettavo non è ancora giunto.
E che altro esiste
In un cuore gelato
Tranne il pensiero di un assassinio
Un profumo
aggredisce le mie narici.
Lancio uno
sguardo da sotto la tesa, mentre il suono di scarpe alte allerta i miei
timpani.
Una
sirena, un angelo, una rosa nel deserto.
Eccola la
mia visione personale, calca il palco cadente spargendo bellezza tutt’intorno;
un boccolo ramato le cade sulla spalla nuda: l’unica cosa della Storia che
riesca a turbarmi.
Sorride
stanca, si schiarisce la voce con eleganza, scopre una gamba scostando lo
spacco del vestito e rivela il reggicalze turchese. Il pianista attacca a
suonare una canzone insulsa da bar dimenticato da Dio, e la ragazza comincia a
cantare.
I tasti di avorio surrogato sembrano i denti di una vecchia strega che dall'aldilà ride delle nostre sciagure.
O tempora, o mores!
Non so chi l'abbia detto, ma di certo viveva in tempi pessimi come i nostri.
Hedera non è un granché a cantare, è appena
sufficiente in verità, ma la sua bellezza le fa passare qualsiasi pecca.
Mai in
Ohio è esistita prostituta più bella. Aggraziata, delicata. Non ci crederesti,
se la incontrassi per le strade polverose di provincia.
Alzo la
tesa per guardarla meglio.
Hedera.
Mai un
nome in Ohio fu così perfetto. Un fiore rosa in una bettola di pessima
reputazione.
Sarà
grazie a me che ha questa fama e ha perso tutti i clienti, ma questo è un altro
discorso.
Penso che la voglio, la devo avere per me sola.
La canzone
finisce, il locale chiude e si spegne, Hedera si
ritira.
Molto …silenzioso.
Zampe,
artigli, zanne, Hedera, sangue.
Mia per
sempre, nell’ombra con me.