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Autore: alix katlice    15/10/2016    3 recensioni
( one-shot | abusive relationship )
"Ma ora voglio solo allontanarmi il più possibile da Vittorio e tentare di capire, tentare di elaborare. Colpa mia, colpa sua. Voglio solo cercare di far ordine, di respirare, afferrare con le mie mani tutto ciò che fino ad adesso mi sono limitata a sfiorare con le punte delle dita. Le mie decisioni, i miei pensieri. Me stessa."
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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New person same old mistakes
- capitolo unico -

 

 

 

 

 

 

 

 

 

I

 

I can just hear them now
"How could you let us down?"
But they don't know what I found
Or see it from this way around

 

 

Il deludere. Potrebbe suonare artificioso, eccessivamente articolato. Deludere una persona richiede sforzi e affanni, una volontà ferrea, grande grandissima forza d'animo. Costanza e passione. Oppure potrebbe essere una strada disseminata d'indizi, affatto faticosa, una parolina, un piccolo gesto. Sei capace di distruggere una persona, con un piccolo gesto.

Il deludere. Ha un bel suono, nella bocca degli altri. Sa di trasgressione.

Nella mia bocca non sa di nulla di tutto ciò. Forse sa di passo falso. Forse sa di sbagliato. Nella mia bocca sa di perdita e malinconia, perché finché si gioca a fare i grandi va tutto bene, si è forti, si è interessanti, intriganti, ma quando si sbaglia (in modo vero e feroce) allora non si ride più. Non è eccitante, non è divertente. È logorante, terrificante. Tutto qui.

Mi dispiace tantissimo, gli dico. Non lo farò più. Colpa mia. Sempre colpa mia.

 

 

Feel like a brand new person

 

Il problema risiede nel non saper dare dei limiti, sai? Quando una persona ti ama, dargli un limite significa fargli capire dov'è che ti fa male, quand'è che ti fa soffrire. È un punto di partenza in una relazione, no? Se, metti caso, trattarmi da stupida mi fa soffrire e se, metti caso, io te lo dico... tu non mi tratti più da stupida, no? Sì. È questo che fanno due persone che si amano, no? Sì, dico di sì. Si rispettano. Rispettano il limite che l'uno pone all'altro, e viceversa. Ed io, io l'ho capito. Finalmente.

 

(But you make the same old mistakes)

 

Penso sia un mio... problema. Non saper dare il limite. Non saper dire la mia. Mio padre mi diceva sempre di stare in silenzio ed ascoltare, e mi ha insegnato ad essere educata, gentile, una brava ragazza. Ma dire la mia... non so come si fa. Non è colpa di Vittorio, poverino, come potrebbe capire. Sono io, sì, sono io. Non so dare il limite.

Carolina, potresti cambiare il vestito? È troppo stretto, cattivo gusto. Sei una facile? No, non sei una facile. Non voglio che tutti ti guardino.

Me lo dice con un bel tono di voce, con quel suo viso bellissimo, e il completo bellissimo. Tutto bellissimo. Matrimonio di sua cugina. Non mi sta toccando, ma mi fa male. Colpa mia. (voglio mettere questo vestito, questo vestito rosso che mi ha comprato mia madre, che è stretto, mi fascia i fianchi e mi fa sentire una principessa)

Il problema risiede nel non saper dare dei limiti, sai?

 

I don’t care I’m in love

 

Sono una stupida puttana che non sa farsi i cazzi suoi, ha urlato. Ubriaco, era. Ha tirato la bottiglia contro la vetrina delle ceramiche. Un gran casino. Stronza psicopatica che vuole fottergli l'esistenza.

Non lo farà di nuovo, ne sono certa. Non è mai capitato prima d'ora (Vittorio mi tratta con i guanti, sempre) e mai più capiterà. Me l'ha giurato.

Guardalo. È un bell'uomo. Occhi chiari, capelli corti e curati, veste sempre bene. Un po' imprevedibile, un po' incontrollabile. Scatti d'ira: dice cose che non pensa. È stressato, poverino. Come si fa a non credergli sulla parola, con tutte le ore che passa fuori casa a lavorare. Lavora così tanto.

Guardalo, davvero. Basta guardarlo per capire che non lo farà di nuovo. Me l'ha giurato con le lacrime agli occhi -Carolina, avanti, lo sai che ti amo, e con le mani tremanti, in ginocchio attaccato alle mie gambe. Carolina, sai che ti amo.

Carolina, sai che ti amo.

 

(Stop before it’s too late)

 

C'è uno zainetto, nel mio cassettone, nascosto fra le camicie da notte ed i pantaloncini estivi. Ci ho messo dentro un po' di soldi, una beauty-case, un cambio pulito, una copia del mio libro preferito ed un telefono con una scheda sd diversa da quella che uso solitamente.

Ci penso di notte. Il buio è... opprimente. Mi fa sentire ancora bambina (non potevo accendere la lucetta perché dormivo nella stessa camera con i miei tre fratelli e Giacomo aveva sedici anni e doveva svegliarsi la mattina alle cinque per andare a lavorare, e con la luce non riusciva a dormire), mi fa sentire minuscola. Impotente. In balìa del mostro che aspetta sotto al letto il momento giusto per divorarmi.

Non riesco a spiegarmi perché io l'abbia preparato e nascosto, visto e considerato che non progetto una fuga. Solo-... ci penso. Ci penso di notte, quando tutto assume dei contorni più sfocati e le ombre invadono la mia camera e la mia mente.

Lo zainetto sta là. Aspetta.

 

 

II

 

Finally taking flight
I know you don't think it's right
I know that you think it's fake

Maybe fake's what I like

 

Il vento gelido mi scompiglia i capelli.

Con la coda dell'occhio mi guardo le spalle, sempre. Le dita sono strette attorno alla mio trolley blu con troppa forza, tanto che stanno cominciando a farmi male le mani, ma non allento la presa. Cammino velocemente.

Mi confonde il rumore delle automobili attorno a me, così come i pochi e fugaci stralci di conversazione che riesco a cogliere dai passanti, o la musica che proviene dagli innumerevoli ristoranti che costellano le vie del centro di Roma, la mia città, e che invadono le strade di tavolini e clienti.

Stringo più forte il trolley e mi assicuro che il mio zainetto sia ancora sulle spalle.

Troppa confusione. Non sono abituata alla confusione. Il pensiero mi fa venire voglia di piangere. Vittorio spesso mi obbligava a restare a casa.

Sono fuori. Sto camminando per strada, tutto ciò che possiedo in una valigia ed uno zaino di tela, e sto per riprendermi la mia vita.

La metro non è lontana. È spaventosa, affollata, troppo rumorosa. Ma non è lontana. E poi, dalla metro, il treno. Il treno, dodici ore di viaggio, e poi il confine. Una macchina e Simone, che mi aspetta. La Francia. Nizza, magari, o forse qualche paesino come Etretat, con le sue falesie bianche, oppure al nord, a Saint Malo fortezza di pirati. Sembra una fiaba lontana, ma mi ci avvicino passo passo, partendo da una spoglia e sporca stazione della metro. Lontano lontano, è tutto ciò che importa.

 

 

*

 

Simone mi sfiora il viso, mi bacia una guancia, mi stringe le mani.

Non so porre dei limiti, non so farmi valere e non so ringraziare. Non so ringraziare nemmeno quando vorrei. Grazie a questo aiuto sono riuscita a salvarmi la vita, e mi sento una... un'ingrata. Mi sento un'ingrata.

« Com'è andato il viaggio? »

« Bene, tutto bene. »

« Alessia mi ha chiamato, dice che Vittorio per ora è ancora sotto controllo, ma le è sembrato dubbioso. Si è presentato a casa sua per vederti, l'ha mandato via con una scusa, ma ha paura che possa scoprirlo presto. »

Mi sento un'ingrata. Non ne voglio parlare. Voglio solo salire in macchina, togliermi le scarpe e partire per la Francia con la radio al massimo del volume ed i finestrini spalancati. Ingrata.

« Possiamo andare? » domando, ricambiando la sua stretta. Voglio che capisca, voglio che non ne rimanga ferito. Simone. Alessia. I miei migliori amici. Darei la vita, per loro. Gli sono grata per tutto questo, davvero. Ma ora voglio solo allontanarmi il più possibile da Vittorio e tentare di capire, tentare di elaborare. Colpa mia, colpa sua. Voglio solo cercare di far ordine, di respirare, afferrare con le mie mani tutto ciò che fino ad adesso mi sono limitata a sfiorare con le punte delle dita. Le mie decisioni, i miei pensieri. Me stessa.

Simone è una bella persona. Simone capisce subito.

« Andiamo. »

 

 

*

 

La mattina lascio accesa la radio anche se non capisco quasi nulla. Il francese mi piace, ma lo trovo difficile. Difficile ed estraneo.

Mi manca, il mio paese. La mia città. Roma pronta ad inghiottirti da un momento all'altro, masticarti, spolparti fino all'osso.

Per una come me, una che ha paura, Roma non è nè una grande occasione, nè un nuovo inizio: da lì non si poteva far altro che fuggire.

(A Roma c'è Vittorio. Roma e Vittorio. Forse sto facendo confusione.)

Qui va meglio, anzi: qui va benissimo. La mattina mi sveglio verso le sei, faccio colazione con il mio thé in terrazza, una piccola terrazza che da sul mare, leggo il mio libro. Quando Simone si alza gli preparo il caffé, lo accompagno a lavoro. Poi faccio i miei giri. La spesa, la biblioteca, il parco. I miei posti. La mia dimensione. Nuova, spaventosa, mia.

 

Ma nonostante tutto sono angosciata. Confusa, triste, un po' disperata.

Non so porre dei limiti, non so farmi valere, non so ringraziare. Non so. Sono nulla e mai sono stata altro che nulla. In famiglia, con Vittorio. Sempre burattino in mani altrui.

E spesso mi chiedo, è valso a qualcosa? Scappare, lasciare tutto. Ho impiegato mesi a prendere una decisione, la prima decisione autonoma della mia intera esistenza, e l'ho presa solo perché stanca, allo stremo e spinta dalla perenne preoccupazione negli occhi di Alessia e Simone. Ma ora, è valso a qualcosa?

Io sono ancora io. Nuova persona che commetterebbe, se ne capitasse l'occasione, gli stessi stupidi errori.
Sono fuggita da Roma, da Vittorio. Ma non posso fuggire da me stessa.

 




 


Doverose conclusioni:
Innanzitutto questo scritto parte da una canzone meravigliosa dei Tame Impala, che da anche il titolo alla one-shot: New person same old mistakes.
Questo è stato uno dei lavori più difficili che io abbia mai prodotto! Avrei potuto aggiungere molte cose, sì, ma non volevo approfondire. Volevo solamente aprire uno spiraglio su questo tipo di situazione, che è un argomento che mi sta molto a cuore. Spero di esserci riuscita e, come al solito, di non aver fatto strafalcioni.
Non amo dare chiarimenti riguardo all'interpretazione di ciò che scrivo, ma visto e considerato che qui si tratta di un argomento importante,volevo puntare la luce solo su un paio di aspetti: il primo è che, ovviamente, la colpa di una relazione abusiva è da imputarsi solamente a chi abusa, mai alla vittima. Penso che magari questo meccanismo possa essere più facile da mettere in atto con un certo tipo di persone (come ad esempio Carolina) e penso che cercare di cambiare per non permettere agli altri di mettere in atto questo meccanismo sia la cosa giusta da fare, ma è ovvio che la "colpa" è comunque di chi abusa.
Il secondo è che io sono convinta che chi abusa abbia delle motivazioni dietro al suo comportamento, e penso anche che questo possa rendere il suo comportamento comprensibile.
Comprensibile, non giustificabile. In questo scritto non ho approfondito l'altro punto di vista semplicemente perché volevo concentrarmi sulla vittima, non di certo perché penso che chi abusa sia cattivo e stop.
Spero di essermi spiegata, è un argomento complicatissimo!
Ringrazio chi ha letto e chi recensirà/preferirà/ricorderà e mando un bacio a tutti.

Alix


 
  
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