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Autore: ShioriKitsune    19/10/2016    4 recensioni
YoonMin [Side!Taekook]
"Eppure, come a tutti quanti succede almeno una volta nella vita, un bel giorno anche i suoi occhi furono catturati da qualcosa, qualcosa di diverso nella sua solita routine.
E no, quella volta non erano stati i tasti del pianoforte a catturare la sua attenzione, ma un lampo di vita immerso in delle iridi color ossidiana"
Genere: Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Min Yoongi/ Suga, Park Jimin
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Yoongi non aveva mai particolarmente creduto nell'amore.

Gli piaceva l'idea dell'amore, questo sì, ma non al punto da desiderare quell'emozione sulla propria pelle. Non al punto da mettersi in discussione per un'altra persona, di fidarsi ciecamente di un'altra persona, di donarsi senza riserve. Semplicemente, non era il tipo. Non era il tipo disposto a sacrificarsi, a fare rinunce, a cambiare per qualcuno. Perché amare, nel suo contorto modo di vedere le cose, era abnegazione totale del proprio essere: per amare qualcuno bisogna conoscerne i lati positivi e lui era certo di non averne; per farsi amare quindi avrebbe dovuto plasmare quella parte cinica ed egoista di sé ed era abbastanza sicuro che non ne valesse la pena. In fondo, in base a quello che aveva visto nella sua vita, amore era sinonimo di sofferenza. E lui era troppo orgoglioso - o troppo codardo - per versare lacrime a causa di qualcuno.

Yoongi non credeva particolarmente neanche al destino: gli piaceva pensare che nulla fosse scritto, che la sua vita fosse un libro bianco di cui, giorno per giorno, era lui a riempire le pagine. Non credeva al fatto che ogni cosa succedesse per una ragione, per adempiere ad uno scopo più grande, bensì era convinto che da azione nascesse conseguenza.

Quando scoprì di essere malato, infatti, non perse la calma. Si limitò a sospirare, buttando giù un bicchiere di whisky di troppo, pensando che in fin dei conti non poteva prendersela con nessuno se non con se stesso: avrebbe dovuto fumare meno, avrebbe dovuto curarsi di più quando si era beccato la polmonite qualche anno prima, avrebbe o non avrebbe dovuto fare tante cose. Ma quella malattia era la conseguenza delle sue scelte sbagliate e su questo non c'era assolutamente nulla da discutere.

I dottori gli avevano detto, in tutta sincerità, che non sapevano se sarebbero riusciti a fermarne l'avanzamento, che forse era già passato troppo tempo, e Yoongi non perse la calma nemmeno in quel caso. In fondo, la sua esistenza era abbastanza monotona: vivere o morire non avrebbe fatto alcuna differenza, per lui. Nonostante questo, accettò di iniziare la chemioterapia – non che farsi chiudere in un ospedale gli piacesse, con tutte quelle regole da seguire, ma alla fine lui delle regole se n'era sempre fregato poco e quindi pensò che non avrebbe fatto alcuna differenza – forse solo e soltanto per un motivo: uno dei dottori, durante una visita, gli aveva parlato di un pianoforte che l'ospedale aveva comprato per il reparto pediatrico, per allietare le giornate dei bambini costretti in quelle stanze sterili dalle pareti bianche, senza contatti con il mondo. Gli aveva detto che, almeno tre volte alla settimana, dei volontari passavano del tempo con loro per farli svagare un po', per quanto possibile.

Non era questo che interessava a Yoongi, bensì la presenza di un pianoforte in quell'ospedale.

Non aveva mai avuto un pianoforte – non se lo era mai potuto permettere – ma aveva imparato a suonarlo da bambino – non ricordava neanche dove, esattamente - e non aveva più smesso, esercitandosi nei negozi di musica fino a quando i proprietari, stufi, non lo cacciavano via.

Il pensiero di avere invece un pianoforte da poter utilizzare a suo piacimento lo allettava e non poco, e sentirsi emozionato per qualcosa era una novità per Yoongi. Così, colse la palla al balzo, facendosi ricoverare e accettando di buon grado tutto ciò che i medici gli dicevano di fare – ignorando i loro costanti “Min-sshi, non puoi fumare, hai un tumore ai polmoni”, e sgattaiolando nel giardino ogni volta che ne aveva l'occasione.

Passarono mesi, chiuso in quell'ospedale, e Yoongi continuava a non credere né all'amore, né al destino. Passava le sue giornate tra il letto e il pianoforte, chiudendo gli occhi e inspirando la musica dolce, con le sue mani che accarezzavano i tasti come fosse il corpo di un amante.

Qualcuno avrebbe detto che era una vita pessima, sprecata quasi, ma a Yoongi andava bene così.

Eppure, come a tutti quanti succede almeno una volta nella vita, un bel giorno anche i suoi occhi furono catturati da qualcosa, qualcosa di diverso nella sua solita routine.

E no, quella volta non erano stati i tasti del pianoforte a catturare la sua attenzione, ma un lampo di vita immerso in delle iridi color ossidiana.

 

 

First love

 

«Hyung».

Silenzio.

«Hyung!».

Ancora nulla.

«Yoongi hyung!»

Yoongi voltò la testa nella direzione di quel suono fastidioso, scoccandogli un'occhiata semi-omicida – “semi” perché per risultare pienamente minaccioso avrebbe dovuto sprecare troppe energie. «Cosa».

L'altro ghignò. «Stai di nuovo fissando Jiminnie».

Stavolta l'occhiata fu quasi totalmente omicida. «Torna a giocare con Jeongguk e non darmi fastidio, Taehyung».

L'altro sporse il labbro inferiore, offeso. «Jeonggukie mi ha detto di venire ad infastidire te e lasciare in pace lui. Perché mi dite tutti la stessa cosa?».

Il maggiore roteò gli occhi. Marmocchi. Probabilmente adesso Jeongguk, nella sua stanza, stava rimuginando su quello che aveva detto chiedendosi perché Taehyung lo avesse preso alla lettera, allontanandosi da lui. Quei due erano sempre stati culo e camicia, fin da quando Yoongi li aveva conosciuti: era bastato guardare più attentamente per capire quale fosse la verità, ma se nessuno aveva avuto il coraggio di ammetterlo, Yoongi avrebbe beatamente continuato a farsi i fatti suoi.

Questi sospirò, sistemandosi il berretto sulla testa.

Taehyung e Jeongguk erano anche loro pazienti dell'ospedale, ma Yoongi non sapeva molto altro: per quanto i due, soprattutto Taehyung, fossero le persone più socievoli del mondo, il maggiore non li aveva mai fatti avvicinare più di tanto. Non al livello da chiedergli quale fosse il motivo del loro soggiorno. Si limitava a sopportarli e farseli girare intorno ogni tanto, ma più che altro erano i due che facevano conversazione, accontentandosi dei “sì” e “no” dell'altro come risposta.

Taehyung gli si parò davanti, ingombrandogli il campo visivo. «Perché non vai a parlare con lui? È mio amico e posso assicurarti che-».

Yoongi lo scansò, ignorandolo. «Lasciami in pace, moccioso».

Non aspettò la risposta dell'altro, avviandosi lungo il corridoio fino al giardino interno.

 

La prima volta che l'aveva visto, era convinto fossero gli effetti collaterali dei medicinali.

Era in quello stesso giardino, nascosto, a fumarsi una sigaretta.

L'aveva appena accesa e tirava con gusto, dopo così tanto tempo senza la possibiltà di fumarne una, ma il vento era forte quel giorno e lo costrinse a stringersi nella vestaglia.

Quando alzò lo sguardo, un paio d'occhi arrabbiati erano puntati nei suoi. Yoongi sbatté le palpebre.

«Non dovresti fumare»

Il maggiore alzò un sopracciglio, squadrandolo da capo a piedi. «Mi sembri troppo giovane per essere un dottore. Quanti anni hai, moccioso, quindici?».

L'altro strinse i pugni, mentre le guance gli s'imporporavano – di rabbia o imbarazzo, non ci è dato sapere.

«Ne ho ventuno. E sono anche più alto di te», schioccò la lingua. «Non sarò un dottore, ma tu sei malato e non ci vuole una laurea per sapere che non dovresti fumare».

Yoongi tirò un'altra boccata e quando sentì il bisogno di tossire cercò di trattenerlo con tutte le sue forze: non avrebbe lasciato che quel pivello gli rivolgesse il classico “te lo avevo detto”.

«Wow».

Il minore aggrottò la fronte. «Che razza di risposta è?».

Ma Yoongi non ebbe il tempo di argomentare, perché improvvisamente divenne tutto nero.

 

 

Park Jimin non era un paziente dell'ospedale, bensì uno dei volontari che si occupavano dei bambini. Taehyung gli aveva detto che lui e Jimin erano amici sin dall'infanzia e definiva il secondo la persona più buona del pianeta.

Dopo quell'episodio, Yoongi aveva cercato di evitare il più piccolo che però vedeva ormai ovunque. Un po' per l'imbarazzo, un po' per noia, un po' non lo sapeva neanche lui.

Era come se ogni volta che si vedessero, o che anche solo i loro sguardi s'incrociassero, il suo cuore iniziava a battere un po' più forte e il suo stomaco a stringersi. Non sopportava quelle sensazioni, non sopportava ciò che non conosceva, non sopportava Park Jimin.

Eppure si ritrovava a fissarlo mentre si prendeva cura dei bambini e la luce proveniente dalla finestra gli illuminava il viso proprio nel modo giusto, facendo risplendere quel sorriso – già di per sé luminoso – cento volte di più. Donando ai suoi capelli color cioccolato una leggera sfumatura di rosso e ai suoi occhi, stretti a mezzaluna, uno scintillio... diverso. Diverso da tutto quello che Yoongi avesse mai visto.

 

 

Quando Yoongi recuperò conoscenza, furono due le cose che il suo cervello registrò: la prima era il bip della macchina a cui era attaccato; la seconda, un peso sul lato sinistro del letto, accompagnato da un debole ronfo.

Aprì gli occhi, sbattendo le palpebre un paio di volte per abituarsi alla luce, e il suo sguardo cadde su una figura addormentata accanto a sé. Con tutte le sue forze, aggrottò la fronte.

Era quel ragazzo, quello del giardino. Cosa ci faceva lì?

In quello stesso istante, un'infermiera bussò piano.

«Min-sshi, sei sveglio finalmente», gli sorrise dolce, forse decidendo di rimandere la ramanzina sul fumo ad un altro momento. Si avvicinò, misurandogli la temperatura e controllando i suoi valori vitali, prima di sistemargli il cappello in un moto d'affetto. «Sai, Jimin è rimasto qui per tutto il tempo. Ti ha portato lui in reparto ed ha aspettato che riuscissimo a stabilizzarti. Faceva avanti e dietro, povero ragazzo», ridacchiò a bassa voce. «Quando gli abbiamo detto che ormai eri fuori pericolo e poteva anche andare via, continuava a guardarsi intorno. Ci ha chiesto perché non fosse arrivato nessuno a farti visita e noi gli abbiamo detto che non...non hai nessuno», abbassò gli occhi, quasi colpevole, poi gli strinse la mano. «Dovevi vedere la sua faccia in quel momento, aveva gli occhi così spalancati... non si è più allontanato da te, sai. Giorno e notte. Solo quando Taehyungie o Jeonggukie lo costringevano a prendersi una pausa, dicendogli che sarebbero rimasti loro, acconsentiva ad allontanarsi. Ma mai per più di mezz'ora».

Yoongi aveva ascoltato tutto con le labbra dischiuse, quasi incredulo. C'era qualcosa di tremendamente caldo che sentiva nel petto in quel momento. Qualcosa che non aveva mai provato prima. Si girò dall'altra parte e chiuse gli occhi, fingendo di dormire.

Non aprendoli neanche quando Jimin, con un filo di voce, gli domandò se fosse sveglio.

 

 

Yoongi era sempre stato solo, fin da quando ne aveva memoria. Sapeva di aver avuto dei genitori – tutti ce li hanno, no? - ma non aveva idea di dove fossero. Aveva vissuto in un orfanotrofio fino ai sedici anni, frequentando la scuola del posto. Non era male, non era stato maltrattato o roba simile, ma non era neanche un posto in cui gli piaceva trascorrere il tempo. Tutti erano freddi, tutti erano chiusi nella loro bolla. Ogni tanto qualche bambino andava via, ogni tanto arrivava, ma Yoongi era sempre rimasto in disparte, perché non aveva mai sentito il bisogno di avere qualcuno accanto. Il bisogno di un amico, di una mamma, di una figura che lo avrebbe aiutato nei momenti di difficoltà... no, lui si bastava da solo. Era sempre stato così.

Al compimento dei suoi sedici anni, gli fu detto che poteva andare via, se voleva. Ma che avrebbe dovuto sopravvivere senza nessun aiuto, nemmeno finanziario. Yoongi non fu spaventato nemmeno da quello, rimboccandosi le maniche per guadagnare qualche soldo e un posto in cui dormire.

Per la prima volta in vita sua, gli fu tesa una mano.

Si chiamava Seokjin, Kim Seokjin, il proprietario di quel piccolo bar. Era giovane anche lui, ma i suoi gli avevano lasciato in gestione quel posto per occuparsi di qualcosa di più grande. Aveva assunto l'ancor più giovane Yoongi come aiuto ed era stato la cosa più vicina ad un fratello che avesse mai avuto. Gli aveva dato un posto in cui dormire, del cibo e tutto ciò di cui aveva bisogno. Si era anche offerto di continuare a pagargli la scuola – i suoi erano ricchi e l'avevano preso a cuore, quindi non era un grande sacrificio – e Yoongi aveva davvero iniziato a pensare di poter dire anche lui di avere una famiglia, di poter amare qualcuno, contare su qualcuno.

Ma qualcosa, negli affari dei signori Kim, era andato tremendamente storto, facendo si che si inimicassero gente dalla quale sarebbe stato meglio restare alla larga.

Fu quello il motivo per il quale, in una notte di giugno, la loro casa prese fuoco.

Yoongi non era ancora rientrato dal suo turno al bar e fu l'unico a salvarsi. Quando arrivò davanti all'abitazione, le fiamme l'avevano ormai divorata. Non provò nemmeno a vedere se qualcuno fosse ancora vivo.

Girò le spalle e andò via, resettando quel periodo della sua vita e ricominciando da zero, da solo, di nuovo.

Fin quando la sua strada non incrociò quella di Hoseok e Namjoon, due rapper dell'undergrond di Daegu. Non erano amici, ma passavano del tempo insieme scrivendo canzoni, bevendo e fumando. Si erano anche esibiti, un paio di volte, ma non avevano mai avuto particolarmente successo, nonostante il loro talento. Si convissero del fatto che il mondo non fosse ancora pronto per loro.

Un bel giorno però, anche loro uscirono dalla sua vita. Non ci furono avvenimenti eclatanti, solo un “andiamo al college” sussurrato in modo colpevole. Yoongi si sentì tradito, in un certo senso, ma nascose tutto sotto la sua perenne facciata di apatia. E di nuovo, si ritrovò da solo.

Non aveva mai creduto quindi nell'amore, in nessuna sua forma, perché tutto ciò che aveva avuto gli era stato, in un modo o nell'altro, portato via. E aveva giurato a se stesso che mai più avrebbe lasciato qualcuno avvicinarsi, perché niente è permamente su questo mondo e lui lo sapeva bene. Non aveva senso vivere di momentanei piaceri e più lunghe, sofferenti conseguenze.

Ma dopo l'episodio all'ospedale, pensò di aver sbagliato di nuovo.

Quel Park Jimin gli stava troppo vicino, e in un modo del tutto nuovo.

 

Yoongi non aveva il permesso di suonare il piano durante la notte – non poteva disturbare il sonno dei bambini – ma approfittava del primo pomeriggio, orario in cui i mocciosetti, solitamente, erano occupati con altre attività. Si sedeva lì e lasciava che ogni sua frustrazione venisse scaricata nella musica, lasciava che le sue emozioni, per una volta, venissero allo scoperto. Perché lui non era la maschera che indossava, quella traboccante d'indiffernza verso il mondo. Era una persona e, come tale, aveva dei sentimenti. Anche se il più delle volte faceva di tutto per sopprimerli, reprimendoli nella parte più nascosta del suo cuore, quella alla quale nessuno aveva accesso.

Quel pomeriggio stava suonando una delle sue canzoni preferite, che ogni tanto accompagnava con qualche strofa parlata. Non cantava Yoongi, mai, perché non ne era in grado. Ma quando alla sua si unì un'altra voce, fu costretto a sgranare gli occhi: era la voce più limpida e armoniosa che avesse mai sentito.

Smise di suonare, voltandosi lentamente. Di fronte a lui, seduto a cavalcioni su una sedia con le mani a sorreggergli il mento, Jimin sorrideva timidamente.

«Non sapevo sapessi cantare», ammise Yoongi, fissandolo. Non avrebbe voluto, davvero, ma era più forte di lui.

L'altro ridacchiò, inclinando il capo. «Se forse non avessi cercato costantemente di evitarmi dal giorno in cui ti sei sentito male, probabilmente te lo avrei detto».

Si alzò, avvicinandosi al maggiore e sedendosi accanto a lui sullo sgabello del pianoforte, facendogli cenno con la mano di continuare a suonare.

Yoongi obbedì, senza fare domande, e cantarono insieme fin quando quel loro momento di pace non fu stroncato dall'arrivo dei bambini, dalle loro urla e dalle risate.

Jimin sorrise, incrociando lo sguardo dell'altro.

«Mi piacerebbe conoscerti, Yoongi-hyung.

Mi piacerebbe che mi lasciassi entrare».

E, a quella richiesta totalmente assurda, Yoongi si ritrovò ad annuire.

 

 

«C'è una possibilità di sconfiggere la malattia, Min-sshi».

Il dottore aveva le mani incrociate sulla scrivania, gli occhi speranzosi e un sorriso debole ad illuminargli il volto marcato dai segni dell'età. «Il tuo corpo sta reagendo bene alla chemioterapia e il liquido nei tuoi polmoni si sta riassorbendo. È strano, perché questo tipo di tumore non lascia molte possibilità, ma per qualche ragione sembra che tu ne abbia una».

Yoongi annuì. Per la prima volta, si permise di provare un'emozione: non sarebbe morto. Non al cento per cento, almeno. Aveva qualche possibilità di sopravvivenza e, per qualche ragione, il pensiero non lo lasciava indifferente come al solito.

Quando uscì dallo studio del dottore, Jimin era lì fuori ad aspettarlo. Yoongi si strinse la vestaglia intorno al corpo minuto, andando verso di lui a passo lento. Quando avvertì la sua presenza, Jimin alzò lo sguardo. «Allora?».

Il maggiore fece spallucce. «Il mio corpo sta reagendo bene alla chemio. Potrei sopravvivere».

Dopo quello, successe tutto molto velocemente: Jimin si alzò, quasi di scatto, avvolgendo l'altro in un abbraccio. Yoongi rimase immobile, totalmente paralizzato, e quando il minore se ne accorse, si distaccò leggermente con un lieve rossore ad imporporargli le guance. «Scusami, hyung, è che sono davvero felic-»

In quel momento, fu lo stesso Yoongi a soprendere se stesso: catturò le sue labbra, zittendolo, in un bacio casto. Era stato totalmente preso dall'istinto e quando il suo cervello processò l'azione appena compiuta, si ritrasse e iniziò a camminare nella direzione opposta.

Jimin, alle sue spalle, sorrise.

Ma la verità era che avrebbe solo voluto piangere.

 

 

«Sei sicuro che sia stata la scelta giusta?».

Jimin scosse il capo, senza incrociare lo sguardo degli altri presenti nella stanza.

Si sentiva colpevole, così tanto che era diventato un dolore fisico.

Il dottore sospirò, incrociando le braccia al petto. «Molti familiari lo fanno con i propri cari, Jimin. Non sentirti in colpa. Capiamo tutti le tue ragioni».

Min Yoongi non stava guarendo, stava anzi peggiorando. Il suo corpo non avrebbe retto più di qualche mese, nella migliore delle ipotesi.

Jeongguk strinse la mano di Taehyung, entrambi sull'orlo delle lacrime.

«Volevo solo donargli un po' di speranza». Un po' di felicità.

Gli altri annuirono, comprendendolo.

«Sono sicuro che avrebbe fatto lo stesso per te».

E a Jimin piaceva credere che fosse la verità.

 

«Hyung, come stai oggi?».

Jimin gli carezzò il viso, sorridendogli. Yoongi si limitò a mugugnare, la mascherina ad impedirgli di dargli una risposta concreta. Quasi si sciolse nel tocco dell'altro e, quando aprì gli occhi, sperò di riuscire a comunicargli tutto ciò che avrebbe voluto dirgli.

Penso che il dottore si sia sbagliato sulla mia situazione, Jimin.

 

Durante le prime settimane dopo la notizia che il dottore gli aveva dato, Yoongi sembrava essere diventato un'altra persona. Certo, il suo carattere restava quello, ma era più... aperto, si può dire. Almeno con Jimin. Aveva lasciato che il minore si prendesse un notevole pezzo del suo cuore e aveva perfino riso, in sua compagnia. E Jimin, Jimin era la luce del sole racchiusa in un ragazzo: anche il solo guardarlo lo faceva stare meglio.

 

(erano seduti sull'erba bagnata del prato, mano nella mano.

Jimin rideva di qualcosa e Yoongi lo fissava con quello sguardo, quello che solo e soltanto a lui aveva rivolto. Quando il minore se ne accorse, lo guardò incuriosito. «Che c'è, hyung?».

Yoongi strinse la sua mano un po' più forte. «Credo di doverti ringraziare, Jimin».

Questi aggrottò la fronte. «Per cosa?».

Per avermi dimostrato che mi sbagliavo, avrebbe voluto dirgli.

Non lo fece).

 

Le cose iniziarono a peggiorare intorno alla terza settimana, e da lì fu una perenne discesa. Avevano dovuto dire a Yoongi la verità – che stava morendo – e tenerlo a letto per tutto il tempo.

Per i primi due giorni, il maggiore non aveva voluto vedere nessuno. Non perché fosse arrabbiato, bensì per dare agli altri il tempo di metabolizzare la notizia. Lui non aveva paura di morire, non ne aveva mai avuta, ma avrebbe mentito a se stesso dicendo che l'idea di vivere, accanto a Jimin, non gli aveva fatto battere il cuore un po' più veloce, in un paio d'occasioni.

Era contento, però, in un certo senso. Ma non diede voce alle sue emozioni neanche in quel caso.

 

(Jimin era seduto sul suo letto, limitandosi a stringerlo. Erano giorni che non smetteva di piangere. Yoongi avrebbe voluto dirgli di finirla, ma non ne aveva la forza. E, a vederlo così, una lacrima rigò anche la sua guancia. Per la prima volta nella sua vita si domandò “cosa sarebbe successo se...”

Come sarebbe stata la sua vita se avesse fatto delle scelte diverse, magari migliori.

Forse avrebbe incontrato Jimin comunque, in un'altra occasione. Forse avrebbero avuto una vera relazione.

O forse le loro strade non si sarebbero mai incrociate.

Yoongi chiuse gli occhi, lasciando che l'altro lo stringesse a sé un po' di più.

Non aveva mai creduto al destino, né all'amore. Eppure quel giorno, su quel letto d'ospedale che odorava di arance e cannella grazie al minore, si chiese se tutto quello non fosse stato scritto solo per far sì che lui e Jimin s'incontrassero.

A quel pensiero, non riuscì a fare a meno di sorridere).

 

Pioveva, il giorno in cui Yoongi morì. Pioveva così forte che, nonostante fosse mattino, il cielo era grigio e privo di luce.

Il pianoforte nel reparto pediatrico era stato coperto da un velo e nessuno ebbe nulla da ridire.

Il giorno in cui Yoongi morì, Jimin rimase a fissare il vuoto per ore e ore, fino a quando qualcuno – forse Taehyung, o Jeongguk, o magari nessuno dei due - gli porse un foglio spiegazzato.

«Era nel suo letto», iniziò, titubante. «Piegato sotto il cuscino».

Jimin lo afferrò, rigirandoselo tra le mani un paio di volte prima di decidersi ad aprirlo.

Quando lo fece lo fissò a lungo, assorto, fino a che i suoi occhi non si riempirono di lacrime, rendendogli impossibile leggere ancora quelle righe.

Strinse il foglio di carta al petto, come a volerselo ficcare dritto nel cuore per colmare quel vuoto che sentiva.

Ma non era possibile, lo sapeva.

Niente sarebbe più stato lo stesso.

 

 

 

 

 

Era solo Yoongi, quel pomeriggio.

Jeongguk e Taehyung erano in giro da qualche parte – da quando avevano avuto la notizia sulla salute di Yoongi, non riuscivano a stargli vicino senza iniziare a singhiozzare: questo li aveva portati a girargli intorno un po' meno rispetto al solito – e Jimin era impegnato con i bambini ancora per un'ora.

Yoongi era bloccato a letto, fissando fuori dalla finestra un punto indefinito. Si domandò come stessero Seokjin e la sua famiglia, ovunque fossero, se davvero esisteva un aldilà. Si domandò se Hoseok e Namjoon si fossero laureati. Si domandò addirittura che fine avessero fatto i suoi genitori, se fossero vivi o morti, se sapessero della sua esistenza. Decise però di non perdere tempo con quelle domande che, per forza di cose, sarebbero rimaste senza risposta.

Spostò lo sguardo sul comodino accanto al letto: vi erano un blocchetto ed una penna. Erano di Jimin, di solito li usava per disegnare, e Yoongi decise che il minore non si sarebbe accorto della mancanza di un foglio.

Così, stringendo la penna con tutte le forze che gli restavano, iniziò a scrivere.

 

 

Caro Jimin,

per quanto mi piaccia comporre canzoni, non sono bravo con questo genere di cose.

Sto morendo. Lo sanno tutti. Probabilmente, quando troverai questa lettera sarò già morto.

Una volta ti ho detto che avrei dovuto ringraziarti, ma non ti ho mai spiegato perché.

Il fatto è che sei riuscito a donarmi di nuovo un po' di speranza, nonostante la mia situazione, e non pensavo che sarebbe mai successo.

Sei riuscito a farmi sorridere e a farmi pensare che forse, forse, la vita non fa così schifo.

Mi sono anche ricreduto su certe mie idee, sai? Ma questo è un segreto che porterò – letteralmente – nella tomba.

Volevo dirti che sono felice di averti conosciuto, Park Jimin.

Ogni giorno ormai mi chiedo come sarebbe stato se avessi potuto vivere, ma non lo sapremo mai, no?

Ci vediamo dall'altra parte (il più tardi possibile, spero)

 

Tuo

Yoongi”.

 
   
 
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