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Autore: FRAMAR    30/10/2016    25 recensioni
Un ragazzo rapito, un ragazzo trovato da un uomo che si innamora di lui soprattutto perché il ragazzo non ha niente, né storia, né nome: ha perso la memoria, lui lo chiama Angelo, è felice di tenerlo con sè, nella sua casa a Napoli. Una storia dolce e tenera, nello scenario intenso di Napoli e della costa e dei paesi intorno. Una storia drammatica, perché il ragazzo non ricorda nulla e nessuno. Un romanzo vero, pieno di amore, di colore, di suspense, di dramma.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Il ragazzo rapito


 
Sono un giovane di trenta anni e mi chiamo Ciro, napoletano. Vivevo solo con la mamma, in una casetta della campagna vicino a Napoli e avevo un negozio di tessuti in città. Trascorrevo una vita serena e metodica, finché una sera tornando in città dalla casa materna, in una strada buia, illuminai con i fari dell’auto un’ombra che si muoveva. Era un ragazzo giovane quasi senza abiti. Il ragazzo non parlava, poi appena si riprese un po’ dallo choc disse che era stato rapito, ma non ricordava nulla. Non ricordava neppure il suo nome. Gli diedi un nome Angelo, e lo tenni con me. Ben presto Angelo si innamorò di me e non voleva  che  lo lasciassi.

 
“Domani andiamo al paese. A prima mattina”, promisi più a me stesso che a lui.”

La luce del giorno porta conforta, dice mia madre e infatti, quella mattina, io mi sentivo euforico, felice mentre mi sbarbavo di là Angelo rifaceva il letto e cantava. Altri due giorni con me, pensavo, oggi e domani, poi si vedrà.

“Sono pronto”, comunicò Angelo, al di là della porta.

“Anch’io, fra cinque minuti”, risposi, e mi affrettai.

Il cielo era tanto chiaro che pareva un nulla opalescente, l’aria, ancora carica del freddo della notte, era dolce e frizzante.

“Dove andiamo?”, chiese Angelo.

“Ti porto prima a Positano, dove pernottiamo e poi domani a Sorrento e al mio paese”.

“A casa tua”, disse lui. “Voglio conoscere e farmi conoscere da tua madre”.

Il grigio monotono dell’autostrada, i tanti paesi e poi la via che va a Positano: si snoda piena di curve, a sinistra spunzoni di roccia che la mano dell’uomo non ha potuto addolcire, una roccia nei punti dove è stata tagliata, grigia e possente dove è intatta, a destra un basso parapetto che cela soltanto per brevi tratti il mare azzurro impreziosito dalla luce del sole, abbrunato dove posa l’immensa ombra di Capri, tagliato dalla scia del battello che unisce la terraferma alle isole, accarezzato dalle chiglie leggere delle barche di solitari pescatori.

E poi, Positano, che dalla collina spinge e accompagna folti agrumeti, alte palme e bianche case verso il suo mare turchino.

Lasciata l’auto su, in un ampio parcheggio, scendemmo verso la spiaggia per gli ampi scalini, stretti fra  due file di case, ville, giardini, su cui il sole ricamava  giochi di ombre e luci. 

“E’ bellissimo”, diceva Angelo e si fermava a curiosare nelle bottegucce buie, dove un calzolaio cuciva un paio di sandali in cinque minuti, o una sarta modellava la gonna o il corpetto in poche ore, o l’artigiano con pinze piccolissime e  fili di rame, ferro o argento creava un bracciale, una collana o un orecchino in un attimo.

“Voglio quello”, disse Angelo e indicò un cappellino di tela gialla. Entrammo e ne scelse un altro completamente diverso da quello indicato prima: da marinaio, di tela blu con la visiera corta su cui spiccava un’ancora bianca. Se lo ficcò in testa e sembrò più giovane e più sbarazzino.

“Voglio andare in barca”, disse appena arrivammo sulla spiaggia e io noleggiai una barca a motore col marinaio.

L’acqua si arricciava e sottolineava il nostro passare con tante bollicine bianche ai lati, proprio vicino ai bordi, era limpida trasparente incolore, più lontano, verso la linea dell’orizzonte, celeste cupo, sotto le alte aguzze rocce della costa, invece, verde smeraldo. I gabbiani, stupiti o intimoriti dell’improvviso borbottio del motore, si alzavano in volo se erano posati su sporgenze rocciose, o anfano a rifugiarsi fra arbusti verdastri se erano in volo. Soltanto uno pescò vicino a noi e portò su, nel becco, un pesce grosso, ancora guizzante e vivo, che gli sfuggì e tonfò nell’acqua, mentre Angelo applaudiva contento.

Riposammo nella camera della pensione che si affacciava sul mare e poi uscimmo di nuovo per andare in un locale in cui si ballava. Ballammo fino a quando i quattro componenti del complesso non posarono gli strumenti.

Stanchi, dormimmo otto ore di fila e io, allorché mi svegliai mi arrabbiai per averlo fatto. Lui, ora, era lì. Dopo, fra un giorno non ci sarebbe stato più. Avrei dovuto goderne tanto da sentirmene stanco e non lo avevo fatto. Mi accorgevo di amarlo anche così, anche se mi avessero detto che non dovevo toccarlo mai più. Ma come, o Dio! Come si poteva non toccarlo, carezzarlo, quando sorrideva appena sveglio e tendeva le braccia magre da adolescente?

“Dove si va?”, chiese e il suo sorriso fu la deliziosa promessa del nuovo giorno.

“Si va via”, dissi. “A Sorrento e poi a casa mia”.

Attraverso vie alberate, ora strette, tra la costa precipite sul mare e la parete rocciosa, ecco il quieto profilo di Sorrento. Piena di verdi aranceti e argentei ulivi.

Ci fermammo in piazza S. Antonio per bere, poi andammo nelle stradine laterali tenendoci per mano, incuranti della gente che ci guardava scandalizzata. Mangiammo un gelato enorme, fatto di palline variegate dal sapore diverso.

“Andiamo al tuo paese”, disse lui e risalimmo in auto.

Passammo per lo stesso posto in cui l’avevo trovato otto giorni prima, seminudo e spaurito.

“E’ qui”, dissi.

“Qui che cosa?”, chiese Angelo meravigliato.

“Niente”, risposi e non sostai, temendo che lui ricordasse oltre al luogo anche il resto.

Quando imboccai la via alla fine della quale c’era soltanto il mio paese e il mare, mi domandai perché mai stessi portando lì Angelo. Forse desideravo vederlo fra le mura povere della mia infanzia, nella casa in cui mi ero fatto uomo, per constatare quanto lui ne fosse estraneo e umiliarsi o, forse, speravo che una volta giunti, per una magia infernale o celeste, lui avrebbe scelto di rimanervi per sempre.

Mia madre era là, fuori la porta, sulla sedia impagliata.

“O Ciro!”, disse e si alzò. Guardò Angelo. “E’ un ragazzo?”, chiese e strizzò gli occhi per vederlo meglio.
“Sono il suo fidanzato”, disse Angelo ed io sorrisi.

“Ne avevi uno così bello e non me lo avevi mai detto!”, mi rimprovero mia madre meravigliandomi e ci precedette in casa. “E’ tutta qui la nostra abitazione, ma è sempre piena di sole”, disse e sembrò giustificare il povero arredamento e le modeste cose. “Vi preparo il caffè”, aggiunse e sparì in cucina.

Come sempre, mi tolsi la giacca e l’appoggiai sulla spalliera di una sedia, allentai il nodo alla cravatta e mi sbottonai il primo bottone della camicia e stavo per andare a sedermi fuori, quando Angelo disse: “E’ tutto semplice e genuino”. E sospettai che semplice nascondesse povero e genuino significasse volgare, comune.

“Si”, dissi e ritrovai la via della porta e della seggiola.

Fu lui a porgermi la tazzina di caffè  e a riportarla dentro. Aspettai che uscisse di nuovo, ma ne sentii la risata, il parlare sommesso, i gridolini di meraviglia e mi feci forza per non raggiungerlo.

Ecco, alla sommità degli scalini, che dalla spiaggia portavano su al paese, spuntare la figura grassoccia di Lidia che agitò alto una mano per salutarmi e affrettò il passo.

“Come va sei di nuovo qui? Non dovevi venire il mese prossimo? Tonino mi ha detto di averti incontrato a Napoli”.

Angelo si materializzò, improvviso, al mio fianco. “Tu sei Lidia, vero?, cinguettò con un sorriso bonario di chi si sente vincitore.

“Si, tu come lo sai?,  si meravigliò Lidia.

“L’ho capito subito, Ciro mi ha parlato di te”, aggiunse con malizia.

“Davvero?”, domandò perplessa Lidia.

“Si mi ha detto che tu sei la più bella ragazza del paese”.

“Davvero?”, ripeté speranzosa Lidia, ma fu allora che Angelo, vezzoso, sognante mi prese sottobraccio e mi appoggiò la testa su una spalla.

“Ci siamo fidanzati otto giorni fa”, disse e guardò Lidia dritto negli occhi.

Mamma ruppe il silenzio che, improvviso e tangibile, era caduto fra noi: “Venite dentro, è ora del pranzo.”
“Io vado”, disse Lidia, “Buon appetito”.

Le posate, la tovaglia, i piatti mi parvero ancora più miseri fra le mani di Angelo, ma lui non sembrava notarne la pochezza, anzi lodava tutto: il sugo, i broccoletti, il mare, la carne, la pianta  d’edera variegata che s’abbarbicava alla porta, la mela, il letto d’ottone, lo sciale un po’ sfilacciato ai bordi che mamma aveva sulle spalle. Non capivo se era finzione o era tanto contenta di essere lì, da non vedere le cose come erano. Avrei voluto gridarglielo: ehi Sandro Fucile, non esagerare! Come puoi apprezzare questa casa, questa povera vecchia e me, tu che sei abituato a ben altre case, ad altre mamme ed amici ed amori diversi? Gliel’avrei detto più tardi, quando, tonando a casa, avrei fermato l’auto nel punto preciso  in cui l’avevo trovato otto giorni prima.

“Sei di Napoli?”, chiese mamma.

“Si”.

“Dove abiti? Come vi siete conosciuti?”.

Intervenni: “Dobbiamo andar via, perché voglio mostrarti il resto del paese e lo sai che non mi piace guidare al buio”.
 

   
 
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