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Autore: Briseide    04/04/2005    7 recensioni
"Rimani così,ti voglio guardare,io ti ho guardato tanto ma non eri per me,adesso sei per me,non avvicinarti ti prego,resta come sei,abbiamo una notte per noi,e io voglio guardarti,non ti ho mai visto così,il tuo corpo per me,la tua pelle,chiudi gli occhi". (Baricco-"Seta").
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Lucius Malfoy, Narcissa Malfoy
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Note: Verso il finire della storia,ci sarà un piccolo cambiamento di "tempo". Per poco userò il presente,perchè in quel momento mi sembrava che avrebbe reso meglio dare un senso di immediatezza alla situazione!
E,sempre un pò più giù,i tratti che hanno l'iniziale in neretto sono presi dal romanzo "Seta" di Baricco (bellissimo romanzo secondo me). Quindi non sono parole mie (beh,si sarebbe notato lo stesso ^^) e i personaggi citati sono di J.K.Rowling e per finire non scrivo a scopo di lucro.

Al sorgere dell'alba

Non sapevo dire da quanto tempo tutto quello fosse cominciato.
Quanto tempo fosse trascorso dopo che le rovine di Azkaban si erano finalmente stagliate alle mie spalle.
Ma mi ero fermato, la prima e l’ultima volta che lo avrei fatto, fermandomi a guardare quelle mura.
Era stato un miracolo. Le ultime forze che avevo tenuto da parte durante tutta la mia permanenza lì dentro, mi erano servite per alzarmi e iniziare a correre.
Era la prima volta che mi capitava di farlo: ero fuggito. Anzi, avevo fatto di peggio: ero scappato, e ora correvo con gli occhi chiusi e la totale incoscienza, vergognandomi come mai avevo dovuto fare in tutta la mia peccaminosa esistenza.
Davanti a me si stendeva solo una lunga strada infinita, qualche albero sporgeva sul sentiero e i rami mi graffiavano il volto cercando forse di ostacolare o rallentare la mia fuga. Non sarebbe servito.
Non so con quali forze andavo avanti, era ormai quasi un giorno di corsa sfrenata, non avevo toccato cibo da quando mi avevano sbattuto in quella cella, ma il mio corpo sembrava non risentirne.
Avevo raggiunto uno stato di totale insensibilità, quel velo di freddezza che aveva coperto il mio cuore negli anni della mia vita, che mi aveva concesso di uccidere qualcuno a mani fredde, più e più volte, in quel momento era scivolato sulle mie membra, e niente mi sembrava più doveroso che correre, correre e non fermarmi, senza mai guardarmi indietro.
Fu allora che compresi quanto in realtà fosse difficile, che mi parve chiaro, accompagnata da una fitta lancinante, che la cosa più difficile dell’andare avanti è non guardarsi indietro.
Avevo sputato sulla mia vita, sulle fortune che mi aveva dato, mi ero macchiato dei peggiori crimini e ogni sera tornavo a casa spogliandomi del mantello intriso di un sangue non mio, abbandonandomi ai piaceri del mio essere uomo. Ma da quando le tenebre avevano offuscato la mia vita, da quando il sole aveva smesso di battermi sul volto ad ogni risveglio, e alle mie orecchie giungevano solo lamenti e il rumore del mare, tutto intorno a me, quel piccolo raggio di sole, che ogni mattina salutavo con un imprecazione tirando le tende, era diventata la mia utopica fantasia.
Mi ero costretto a non pensare a nient’altro che potesse aumentare le mie sofferenze, che non fosse la rabbia per la libertà perduta. Così avevo allontanato dalla mia mente il corpo perfetto e il volto di Narcissa, consapevole che se vi fossi tornato con il pensiero, sarei impazzito, roso dal desiderio che più che tale era ormai diventato un bisogno crescente, di sentire le sue mani sul mio corpo e le sue labbra contro le mie. Non sapevo se l’avessi mai amata. Da quando l’avevo incontrata per la mia strada, avevo scoperto cosa significasse ardere e bruciare, avevo avuto la riprova che non si trema solo di freddo e che il folle bisogno di averla al mio fianco potesse essere chiamato anche gelosia.
Gelosia.
Si, lei era mia e lo sarebbe sempre stata, qualsiasi cosa sarebbe accaduta. Glielo avevo fatto promettere, costringendola a guardarmi negli occhi, dubitando che se lo avesse sussurrato al mio orecchio quando i nostri corpi erano intrecciati e i nostri piaceri l’uno dentro l’altra, avrebbe avuto lo stesso significato di una promessa lasciva, dettata dal piacere. Non mi ero fidato di quello che una donna avrebbe promesso sotto la mia piacevole tortura, che avrebbe mormorato con le sue labbra contro le mie. Ma mi aveva guardato negli occhi e dalle sue labbra, avevo succhiato quelle parole, un bacio.
Tua. Solo tua, Lucius, qualsiasi cosa accada.

°°°

Da quella promessa i giorni erano passati, le stagioni si erano alternate e lei era al mio fianco, immancabilmente, forse schiava dei suoi piaceri e desideri, forse appagata da quello che la mia vita potesse offrirle. Ma ogni mattina aprivo gli occhi e sentivo il suo corpo scaldare il mio, e ogni notte li chiudevo sentendo il suo leggero peso premere tra le lenzuola e il materasso del letto.
Da quando le porte della libertà si erano chiuse davanti ai miei occhi, avevo perso anche quella sicurezza, e avevo un tarlo che mi rodeva l’anima, scavava il mio petto con inesorabile ossessione e crudeltà.
Gli unici pensieri che si susseguivano a ritmi lenti, e dolorosi, scandendo ogni minuto della mia quasi esistenza.
Ad ogni colpo che mi veniva inferto, quali labbra premevano contro le sue?
Ogni notte che passavo sveglio, arso dal dolore di quelle torture, quale corpo avvolgeva il suo in un turbinio di lenzuola di seta?
Quante mani avevano sfiorato i suoi fianchi, il suo collo, le sue rotondità,nello stesso momento in cui il mio corpo era preda di convulsioni per la fame?
Tua, solo tua, Lucius.
Avevo ben presto scoperto che ad un uomo materiale come me, quelle parole non bastavano più. Volevo il suo corpo, la volevo su di me, o anche solo al mio fianco. Volevo le sue dita intrecciate ai miei capelli, certe volte solo per avere la reale certezza che non fossero occupate a spogliare un altro uomo.
Cosa poteva garantirmi che tutto quello non fosse successo?
Che non ci fosse un altro uomo in grado di darle tutto il piacere che le davo io?
Che nessuna dimora fosse più spaziosa e lussuosa della nostra?
Che quel letto fosse di così suo gradimento che non lo avrebbe lasciato per niente al mondo?
Eppure se pure non ai massimi livelli,qualcuno l’avrebbe fatta godere quando si sentiva troppo sola.
Eppure le sarebbe bastato aprire la porta del maniero e lasciar entrare un altro uomo in quella stessa casa che le piaceva tanto.
E quel letto sarebbe rimasto per sempre fermo al suo posto, placido spettatore dei piaceri della vita, e neanche lui avrebbe potuto sentire grandi differenze se non vi fossi stato io.
Allora si affacciava nella mia mente un pensiero, così difficile da comprendere e da accettare, che ogni volta serravo gli occhi, inutilmente nella mia totale oscurità in quella cella, e stringevo con forza ai pugni cercando di non ascoltarlo.
Ma sarebbe bastato un po’ di amore a garantirmi che non mi avrebbe mai tradito. Che nessun uomo avrebbe mai preso il mio posto in quel letto e tra le sue braccia.
E di quell’amore io gliene avevo donato poco, forse niente, nella mia totale incapacità di provare qualcosa che non giovasse a me e a me solo.
Volevo qualcosa che non era mio diritto avere: Narcissa. E volevo anche il suo amore. Volevo che lei mi amasse, per poterla trovare addormentata sul nostro letto al mio ritorno, in attesa del mio respiro e di un mio bacio. Me lo aveva promesso, infondo. E lo aveva fatto guardandomi negli occhi, ma in quel buio opprimente non avevo la forza di farmi luce con il ricordo di quello sguardo.
E allora, chiudevo ancora gli occhi, e aspettavo.
Aspettavo il prossimo colpo e un ipotetico tradimento.
E ogni mio gemito era un urlo di Narcissa, dettato dal corpo di un altro che non fossi io.
Poi, era solo ombra.

°°°

Andai avanti su quei toni per giorni interi, senza smettere mai di correre, sentendo lentamente le forze abbandonarmi lungo la strada, e i crampi farsi vivi, brucianti, indolenti.
Ma non mi fermavo, e serravo la mascella nella ferma convinzione di non voler perdere tempo a gemere o urlare disperato.
Ogni sasso che incontravo per quella strada, era un innocente che avevo ucciso, e in quella fuga, non facevo altro che calpestarlo, lui e quello dopo e quello dopo ancora. Sapevo che non era la strada della redenzione che stavo percorrendo, ogni sasso non era un mio pentimento e quando le porte del mio maniero si fossero richiuse alle mie spalle, non sarei stato un uomo redento. E provavo più vergogna nel fuggire, che per quel pensiero, che altro non era se non la verità.
Attraversai campi sotto la fitta cappa di nuvole, di notte, e strade e vicoli, mischiandomi tra la gente comune, non trovando neanche il tempo per distribuire a tutti il mio disprezzo, troppo preso dalla mania di fuga e dalla sete di salvezza. Una salvezza che non avrei mai trovato in tutta la mia vita, se non quella materiale, di chi entra in casa propria e si getta sul proprio letto abbandonandosi al sonno, prima di aprire gli occhi e iniziare una nuova fuga, in cerca di un rifugio vero e proprio e iniziare una nuova vita da esule.

Dopo sette giorni di fuga, mangiando quel poco che riuscivo a trovare, sentii lentamente il profumo della salvezza. Stavo andando incontro al mio maniero, e se solo non fossero stati stanchi e così freddi, i miei occhi avrebbero pianto a quella visione, e quel desiderio, forse bisogno, crebbe di passo in passo, mentre mi avvicinavo a quelle porte, quando ad ogni ciottolo e ad ogni passo il volto di chi avevo abbandonato scappando mi pugnalava senza pietà. E vedevo, tornavo a vedere immagini nitide dopo tanto tempo.
E vedevo Rodolphus. Lo vedevo nella sua cella, lo vedevo ad Hogwarts uscire dalla sua stanza e lanciare quel sorriso un po’ obliquo e schernitore giocando con un laccio della divisa. Lo vedevo incappucciato al cospetto dell’Oscuro, di quel Dio che ci aveva rinnegato ma che non avremmo tradito. Lo vedevo fumare sereno nel giardino del mio maniero, con lo sguardo su mio figlio, su quel figlio che avrebbe dovuto volere ma che non pensava minimamente a crescere, se non a concepirlo solamente.
E vedevo Bellatrix, la sua luce di insana euforia nell’alzare il capo corvino contro il cielo e ridere. Ridere della sua evasione, della sua rabbia e della sua sete di vendetta. Aveva avuto poco tempo per gustare la sua vita rea di colpe inimmaginabili, e si era ritrovata in quella stessa cella, con gli stessi insetti e gli stessi guardiani troppo presto per non lasciar sbocciare di nuovo il fiore della sua follia. E vedevo anche lei avvolta in quei lunghi vestiti, scendere le scale della sua casa e sorridere preziosa e malevola a chiunque la guardasse di sfuggita, sprezzante a chi invece non osava soffermarsi sulle sue bellezze troppo vigliacco per poter resistere, ammaliante a coloro che la guardavano e rispondevano a quel sorriso, magari gettando la sigaretta ai propri piedi e facendo un passo avanti, come Rodolphus.
E vedevo Narcissa, tra le braccia di un altro, piangente la mia assenza, lasciando cadere le sue lacrime sulle spalle di un uomo che non ero io.
Poggiai la mano sulla porta e la spinsi forte. Riconobbe le mie dita, la mia mano, la mia forza sebbene assente, perché non mi domandò di far scattare la serratura, si aprì e basta, regalandomi un abbaglio di luce cupa, che per me fu accecante, e le fattezze della mia momentanea e utopica salvezza.
Lasciai che si richiudesse alle mie spalle e mi lasciai cadere sul pavimento, freddo e lucido. Potevo specchiarmi in quelle mattonelle, vedere il mio viso deturpato dalla fatica, sporco e sofferto, il mio corpo stremato, i miei occhi torpidi e stanchi. Stentai a riconoscermi. Portai una mano sul mio viso, ma il solo tocco mi provocò dolore, a contatto con uno dei tanti tagli che mi ero procurato, e alzandomi lentamente in piedi, mi diressi verso le scale.

La mia Narcissa era dietro quella porta. E poteva non essere sola, addormentata accanto ad un altro, stretta a lui o forse solo pentita, ai margini del letto.
Tua, solo tua Lucius.
E poteva trattarsi di chiunque. Chi era? Quale, quale uomo aveva assaggiato il corpo di Narcissa e bevuto dalle sue labbra tutta la rugiada della mattina? Chi mi aveva tradito, cadendo nel peccato insieme a lei?
Severus, forse, che ormai sembrava essere avvezzo a quel tipo di voltafaccia?
O Avery? Nott?
Qualsiasi cosa accada.
Sarebbe stata la mia morte trovarla lì con qualcun altro. Avrei ucciso qualcuno forse, prima di abbandonarsi su quel letto sporco di peccato, chiudere gli occhi e invocare il mio Dio di togliergli la vita.
Aprii quella porta e la richiusi alle mie spalle, con un sospiro leggero, quasi tremante.
Il letto era vuoto, perfettamente stirato, in un ordine quasi maniacale. Lei non c’era, e così neanche un altro uomo.

Prima che potessi comprendere che in quella casa non c’era ormai più nessuno, la vidi, in tutta la sua bellezza si eterna bambina. I capelli erano ancora quelli, sciolti sulle spalle e sul seno, così biondi e morbidi da scambiarli per la carezza di un bambino.
E quegli occhi erano fissi di me, leggevo un’alternarsi di sensazioni, così tante che capivo facessero difficoltà a primeggiare l’una sull’altra, e nessuna alla fine aveva avuto la meglio. Così mi guardava, gli occhi sbarrati, coinvolti di un turbinio di timore che non fossi io, e di euforica certezza che fossi proprio io, e di rabbia nel vedermi lì dopo averla lasciata sola per tutte queste notti e tutto questo tempo, e paura nell’aver temuto che quel momento non sarebbe mai arrivato, e rimpianto per aver creduto qualche notte che non sarei più tornato, e solo una lacrima aveva bagnato la sua pelle, liscia e profumata come quella di un bambino, come quella di Draco quando era così piccolo da poterlo tenere su una mano sola. Ma non se ne concesse altre.
Vedevo il suo labbro tremare di spavento, sentendo il mio respiro così vivo, doveva sembrarle tutto troppo vero perché potesse essere tale, e non si concesse un solo sospiro o singhiozzo. Ma allungò una mano verso di me, ci impiegò un infinità di tempo per vincere la paura e trovare il coraggio di rischiare che tutto finisse, che io fossi solo un fantasma, che le sue dita affondassero nell’aria, di certo squarciata da un urlo di dolore e di rabbia.
Ma io sentii quella mano sul mio volto. Sentii le sue dita fredde tracciare linee lente e incerte lungo la mia mascella, sfiorare le labbra, accarezzare il mio naso, passare sulla mia fronte, chiudere i miei occhi e scendere giù, di nuovo sul mio mento e poi allontanò la sua mano, portandola davanti alle labbra, cercando forse di smettere di tremare e di non piangere.
Forse credeva che non avessi bisogno di sentirla piangere, o essendo Narcissa Malfoy - Malfoy si, Malfoy, mia moglie- non avrebbe mai dato a vedere quanto la nostalgia, la paura e il timore fossero sfociati in disperazione e in incredula e tremula felicità.

Rimani così, ti voglio guardare, io ti ho guardato tanto ma non eri per me, adesso sei per me, non avvicinarti ti prego, resta come sei, abbiamo una notte per noi, e io voglio guardarti, non ti ho mai visto così, il tuo corpo per me, la tua pelle, chiudi gli occhi.

Chiusi gli occhi, facendo come mi aveva tacitamente chiesto, solo guardandomi, senza parole. E io avrei fatto tutto quello che mi avrebbe chiesto, perché era lì, davanti a me, ed era bella e fragile, disperata ed emozionata, e perché era sola, così sola che non aveva neanche dormito sul nostro letto, spoglio della mia presenza. Avrei voluto guardarla, respirare l’aria che usciva dalle sue labbra, ma chiusi gli occhi, perché lei era la mia Narcissa e perché lei me lo aveva chiesto.

Non aprire gli occhi se puoi, sono così belle le tue mani, le ho sognate tante volte adesso le voglio vedere, mi piace vederle sulla tua pelle, così,ti prego continua, non aprire gli occhi, io sono qui, nessuno può vedere e io sono vicina a te…

Sento di nuovo un contatto, la sento vicina, forse troppo, troppe volte ho desiderato la sua presenza e adesso è così vicina da fare quasi male, il mio corpo non aspetta altro che avere il suo contro, e tremo quando con un brivido sento le sue dita sfiorarmi il petto, lasciar cadere la camicia in terra e percorrere tutta la distanza che c’è fino ad arrivare alle mie spalle, risalire lungo il collo e farsi vicina, ancora, ancora, sempre più vicina, fino a quando sento il suo profumo accarezzarmi i sensi, il suo petto contro il mio corpo e un gemito roco, prima che le sue labbra sfiorino l’angolo della mia bocca. Esita ad incontrare le mie, esita ancora, forse non vuole svegliarsi, e io non voglio svegliarla, così non mi muovo, ma apro gli occhi e guardo le sue labbra, ora che appoggia la sua testa contro la mia spalla, e lascia i suoi capelli spargersi sul mio petto, e tutto quel contatto e quel ritrovo, e quei gemiti e quei sospiri mi stancano più di tutto il viaggio che ho fatto,eppure voglio sentirli e voglio assaporarli fino in fondo e fino all’ultimo.

“Lucius…”.

Ecco la sua voce,scossa da un fremito, in un sussurro roco, quasi una preghiera, e capisco che ogni notte ha accarezzato il lato del letto dove io dormo invocando il mio nome, pregando chissà quale Dio perché potessi sentirla, e tornare da lei, e deve essere stanca di tutte quelle preghiere, e in quella voce c’è qualcosa di nuovo, non è più una preghiera, è solo una constatazione, o forse una domanda, si aspetta una risposta che le dia finalmente la certezza che ora non ha più bisogno di pregare, perché quello che ha vicino a sé, contro il suo corpo, sono proprio io. Allora sposto una mano sulla sua schiena, e sento la mia pelle tendersi a quel contatto così semplice e labile, e capisco per la prima volta che Narcissa mi ha aspettato, che ha aspettato con me il momento per quell’incontro e che forse lo ha fatto perché mi ama.

“Quanto ti ho aspettato. Ti ho aspettato tanto.
Ogni notte e ogni giorno. Tutta questa luce. Quella luce mi dava fastidio, non volevo vivere il giorno senza di te, non potevo, io non potevo, Lucius, capisci? Tu non c’eri, e io non sapevo cosa fare per impedire alla luce di entrare. Ho provato in tutti i modi, tutti. Ho tirato le tende e ho chiuso la porta di questa stanza, ma ovunque fossi lei mi trovava. Mi trovava”.

Guardavo le sue labbra come se fossero le ultime parole di una lettera d’amore.

Forse avevo sperato di sentirmele dire un giorno. E lei mi stava dicendo tutto quello, cercando di non piangere, ma ad ogni parola la sua voce perdeva sicurezza, e il suo corpo era scosso da un brivido e si appoggiava al mio come una foglia si appende disperata e con tutte le sue forze al ramo di un albero nel tentativo di non cadere e di resistere alla forza del vento.

“Sono stati tutti qui, tutti. Severus veniva quasi ogni giorno, e c’era Avery e Rabastan. Tutti che cercavano di scostare quelle tende e mi dicevano di lasciare che la vita andasse avanti, di farmene una ragione. Mi assicuravano che avevo anche io una mia strada, che la dovevo proseguire anche senza te, ma andare avanti… non potevo farlo, non volevo, perché mi sembrava un insulto nei tuoi confronti.
E ho iniziato ad aspettare e…”.

Ma non aveva più parlato, e le sue lacrime avevano bagnato la mia pelle, e bruciavano, bruciavano da morire su quei tagli, avevo preso l’abitudine a non farci caso.
Qualsiasi dolore in quel momento, e anche per tutto il tempo della mia fuga, aveva persino smesso di fare male. Quante volte avevo sperato, e invocato la morte di raccogliere le mie membra stanche e di farne un falò? Ma avevo altro da fare forse, e continuavo a sperare, persino la speranza non l’avevo mai conosciuta prima, che Narcissa avrebbe pianto la mia morte, e allora sceglievo di rimanere lì, per non farla piangere, non capendo che forse sarebbe stato meglio farla piangere una notte intera per la mia morte, piuttosto che tutta la vita per la mia assenza, pur sapendomi vivo e tra atroci sofferenze.

“Sono tornato”.

Non avrebbe più dovuto aspettarmi. Ero lì, la tenevo tra le braccia e sentivo le sue mani accarezzare tutto il mio corpo e le sue labbra baciare le mie, le sue mani erano tornate ancora una volta tra i miei capelli e io avevo quell’esile perfezione divina sul mio corpo, il nostro letto non aspettava altro che il nostro ritorno, e io ero scosso da brividi ad ogni contatto, che fosse anche minimo, con Narcissa.
Da quanto tempo era che una donna non mi sfiorava.
Che Narcissa non mi toccava, non mi guardava.
Ero stremato dalla fuga, quella sarebbe potuta essere la mia ultima notte, avrei bruciato in quelle ore tutte le mie ultime energie e forze, ma niente al mondo mi avrebbe allontanato da quel corpo caldo, da quelle mani fredde, da quella pelle liscia, da quelle labbra che per la prima volta mi avevano saputo parlare d’amore.
Si, ora lo sapevo: Narcissa mi amava, e quella promessa l’aveva mantenuta.
In quel momento, mi accorsi di amare il suo corpo.
I suoi occhi, teneri e profondi, ora colmi di lacrime, ora velati di ironia, ora colmi di sprezzante arroganza.
Le sue mani, sottili e delicate, fredde e sensuali, esperte conoscitrici del mio corpo.
Il suo corpo, esile e longilineo, perfetto ed armonico, fragile in tutta la sua bellezza, ma sapeva farmi suo.
Le sue labbra lisce, delicate e passionali, alle quali rubavo sempre il loro sapore di buono e proibito ad ogni bacio.
Il suo odore e il suo profumo, che ogni notte finivano con il mischiarsi e ammaliarmi all’apice dei sensi.
La sua finta ingenuità e quella vera, il suo saper essere triste e non darlo a vedere se non con qualche lacrima nascosta nelle mie spalle, riuscendo sempre a strapparmi una consolazione che non sapevo mai di poter dare.
Il suo respiro lieve, appena accennato, e il suo sospiro, velato e sfuggente.
Amavo ognuna di queste cose di lei, che chiamavo mia Narcissa, e quando baciai le sue labbra ancora una volta, guardandola di sfuggita negli occhi, compresi che allora forse non era tutto quello che amavo, ma più semplicemente lei.

Ma non sapevo se sarei stato in grado di dirglielo, o anche solo di farglielo capire, perché per un esule non c’è mai tregua, e appena sarebbe sorto il sole, avrei dovuto abbandonare quel letto per cercarne un altro che non fosse in quella casa, dove certamente sarebbero venuti a cercarmi.
Fu così che abbracciando il suo corpo, mi costrinsi a dirle la verità: che l’attesa non sarebbe mai finita.

“Domani, al sorgere dell’alba dovrò partire di nuovo”.
“Non potrò aspettare ancora”.
“Allora domani, al sorgere dell’alba, dovremo partire di nuovo”.
“Scriverò a nostro figlio, lasciandogli disposizioni su cosa fare”.
“Guardami”.
Avevo il suo mento tra due dita. E mai mi era sembrata bella come allora.
“Tua. Solo tua, Lucius. Qualsiasi cosa accada”.
“Anche io Narcissa, anche io”.

Fine.



Et voilà. Fine.
Non so proprio da dove mi sia venuta fuori questa one shot a dirla tutta,ma dato che sono grafomane alla prima venuta di qualche parole prendo un foglio e scrivo,quindi alla fine l'ho scritta,ispirata anche da quelle parole di Baricco,stavo rileggendo "Seta" un'altra volta. ^^'
Ed è anche la prima volta che mi azzardo a scrivere in prima persona e ammetto di aver scelto qualcosa di un pò troppo complicato come "prima volta",scegliendo tra tutti guarda un pò proprio Lucius Malfoy. (Ma perchè mi metto sempre nei casini?!)
Spero di aver fatto un buon lavoro e che abbiate voglia di dirmi se è così o meno.
Mi farebbe moooolto piacere.
Thanks.
Bris.

  
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