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Autore: mikimac    30/10/2016    2 recensioni
Sherlock è morto, si è ucciso, lasciando solo John, in un mondo freddo e senza sole. Fino al giorno in cui Sherlock torna a bussare alla porta di John. Nulla, però, può cancellare il tempo trascorso né le conseguenze di un atto compiuto per amore.
Genere: Angst, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: John Watson, Lestrade, Mycroft Holmes, Sherlock Holmes
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Andare avanti
I personaggi non mi appartengono, ma sono di Sir Arthur Conan Doyle, del sadico duo Moffat&Gatiss e della BBC. Questa storia non ha scopo di lucro. Se dovesse ricordare una delle innumerevoli storie ambientate nello stesso periodo od altre, chiedo scusa, ma sarebbe un caso.

Buona lettura




È di nuovo lì. Sul marciapiedi di fronte al Bart’s.
È ancora lì. Cellulare in mano ed occhi fissi sulla figura allampanata, che si staglia contro il cielo grigio.
È perennemente lì. Con il cuore in gola, ad osservare Sherlock, in piedi sul cornicione del Bart’s.
È sempre lì. A pregare che lui scenda. A pregare di trovare le parole che lo convincano a desistere.
Ed ancora una volta fallisce. Non riesce ad impedire a Sherlock di lanciarsi nel vuoto.
Non può fare altro che guardare.
Il Belstaff che si gonfia. Le braccia allargate.
Un angelo che si libra con le ali nere. Un angelo che cade.
Trascinando John con sé all’inferno.
John si svegliò, spalancando gli occhi, il respiro affannato, sudato. Si portò il braccio sugli occhi, in un gesto di rassegnata disperazione. Sbirciò la sveglia. I numeri blu segnavano le 00.34. Aveva dormito poco più di mezz’ora. Il cuore stava tornando a battere ad un ritmo quasi normale. Era così ogni notte, da quando era accaduto. Da quando Sherlock… da quando il suo coinquilino… da quando il suo migliore amico… da quando lui… non riusciva nemmeno a concludere il pensiero. Dirlo ad alta voce era impensabile.
Eppure, ogni volta che riusciva a chiudere gli occhi, aveva davanti a sé la stessa immagine. L’angelo che cadeva. L’angelo con le ali, che non riuscivano a sorreggerlo. A farlo volare.
“Io non sono un eroe.”
La voce gelida di Sherlock gli attraversò la testa. Forse non sarà stato un eroe, ma gli aveva salvato la vita. Ed ora se la era ripresa. Senza Sherlock Holmes, lui non era più nulla. John Watson aveva smesso di esistere, perché il sole intorno a cui ruotava si era spento.


Andare avanti


Era la Vigilia di Natale. La gente era felice e carica di pacchetti regalo da mettere sotto gli alberi decorati, per la gioia di grandi e piccini. Per le strade risuonavano le note delle canzoni natalizie, i tintinnii delle campanelle di improbabili Babbo Natale, le risate allegre delle persone che si incontravano e si scambiavano gli auguri. Anche all’interno del pub, l’atmosfera era gioiosa e chiassosa.
John Watson aveva sperato che questo gli avrebbe permesso di dimenticare, almeno per qualche ora, che la sua felicità era stata cancellata dal gesto sconsiderato della persona più importante della sua vita. Alcuni anni prima, Sherlock Holmes lo aveva salvato dal tedio di un’esistenza inutile e priva di ogni aspettativa. Quell’uomo alto, troppo magro, scontroso, maleducato, irrispettoso, incosciente, con un cervello eccezionale ed un cuore enorme, aveva travolto il reduce dell’Afghanistan, coinvolgendolo nella sua vita burrascosa, avventurosa e piena di pericolo.
Viva.
John si era sentito di nuovo utile e determinante, anche quando Sherlock lo insultava. In realtà, lui sapeva quanto l’unico consulente investigativo al mondo lo rispettasse. Gli piaceva fare da cassa di risonanza ai pensieri caotici di Sherlock. Vedere l’eccitazione, per avere risolto l’enigma di turno, nascere sul viso del suo migliore amico. In quei momenti, Sherlock era raggiante ed esuberante.
Bello.
Mentre Holmes usava la sua meravigliosa mente, Watson si assicurava che mangiasse, dormisse e non fosse troppo incivile con il resto dell’umanità. Un sorriso tenero spuntava sempre sulle labbra di John, quando Sherlock si arrendeva alla sua insistenza e si infilava in bocca un pezzetto di cibo, sbuffando e lamentandosi del fatto che ciò avrebbe rallentato la soluzione del caso.
Tutto questo era finito, in una mattina uggiosa, quando Sherlock Holmes aveva deciso di porre fine alla propria vita, confessando di essere un impostore, un ciarlatano, un trucco.
Non che John gli avesse creduto. O gli credesse ora. Per quanto le ultime parole del suo migliore amico gli rimbombassero nella mente, anche quando faceva di tutto per allontanarle, John Watson continuava a credere in Sherlock Holmes. Nel suo cervello unico e brillante. Nel fatto che lui vedesse ciò che agli altri sfuggiva e lo collegasse, in modo da svelare i piccoli e grandi misteri dell’animo umano. Non capiva perché avesse cercato di convincerlo che fosse un inganno. Forse pensava che avrebbe sofferto meno, per la folle ed insensata decisione che aveva preso. Non avrebbe dovuto uccidersi. Potevano uscire insieme dalla trappola che gli aveva teso quel bastardo di James Moriarty. Insieme avrebbero trovato una soluzione.
Loro due.
Sherlock e John.
Uniti contro il resto del mondo.
Sherlock, invece, aveva deciso in modo diverso.
Lo aveva tradito.
Lo aveva lasciato indietro.
Solo.
Ed il mondo era diventato un posto grigio, vuoto e senza sole.
Da quel giorno, la vita di John non aveva più avuto senso. La trascinava, giorno dopo giorno, in una routine, che gli stava togliendo ogni voglia di vivere. Anche gli amici di un tempo, non riuscivano ad aiutarlo.
La signora Hudson piangeva spesso, ma John era troppo arrabbiato per consolarla. Così la evitava il più possibile, accettando i turni con gli orari più assurdi, che gli venissero proposti nella clinica in cui lavorava.
Molly si era ritirata in un dignitoso dolore, espresso in brevi messaggi, ma in pochissimi contatti personali. Sembrava quasi che si sentisse in colpa per qualcosa e John non riusciva a capire di cosa si ritenesse responsabile. Non che la cosa gli desse fastidio. Non avrebbe saputo come confortarla. Lui aveva già i propri sensi di colpa con cui convivere, non aveva parole per sollevare gli altri dai loro.
Mike aveva tentato di trascinare John fuori dal guscio in cui si era rinchiuso, ma non c’era riuscito. Dopo vari fallimenti, aveva smesso di cercarlo, incapace di lenire il dolore profondo e sordo, che aveva investito la vita di John.
Sarah era diventata una presenza silenziosa al suo fianco. Non lo forzava. Non cercava di costringerlo a fare nulla che non volesse. John gliene era grato, ma sapeva che Sarah era solo in attesa di raccogliere i pezzi, nell’istante in cui lui sarebbe, inevitabilmente, crollato.
Harry non sapeva nulla di Sherlock Holmes e John non la aveva contattata. Era sicuro che la sorella gli avrebbe offerto un solo tipo di conforto. Forse ubriacarsi fino a svenire poteva essere la giusta soluzione alle sue angosce. Avrebbe sicuramente dimenticato il peso al cuore, che gli stringeva la gola fino ad impedirgli di respirare. Però John non voleva scordare Sherlock. Al mondo doveva rimanere almeno una persona che ne rispettasse il ricordo.
Greg non lo aveva mai cercato. Probabilmente aveva paura che John potesse prenderlo a pugni. Non che avesse tutti i torti. Lestrade si era fatto convincere da quei due idioti di Donovan ed Anderson che Sherlock avesse architettato ogni caso che avesse risolto, per dimostrare un’intelligenza che non aveva. Donovan ed Anderson si erano lasciati ingannare dall’infido raggiro orchestrato da James Moriarty ed avevano trascinato Gregory Lestrade nell’abisso, insieme a loro. L’ispettore si sentiva responsabile del suicidio di Sherlock, anche se aveva tentato di aiutarlo. Aveva ragione. John non avrebbe mai fatto né detto nulla che potesse lenire il dolore di Lestrade. Aveva sbagliato e doveva sopportarne le conseguenze.
Il più colpevole di tutti, però, era la persona che avrebbe dovuto proteggere Sherlock e, invece, lo aveva consegnato al suo carnefice. L’uomo, che John non poteva proprio perdonare per la morte di Sherlock, era Mycroft Holmes. Se lo avesse avuto davanti, avrebbe potuto ucciderlo. O, almeno, tentato di farlo. John sapeva che, dietro ai suoi modi affabili e raffinati, Mycroft era stato addestrato a difendersi. Sicuramente anche ad uccidere. Il maggiore degli Holmes aveva evitato ogni contatto con John. Non si era presentato al funerale del fratello, a cui non erano andati neanche i genitori. Era come se gli Holmes avessero deciso di cancellare Sherlock dalle proprie vite. Forse era un modo per lenire il dolore. John pensava che fosse da vigliacchi, anche se, crogiolarvisi, non era salutare. Oppure, ancora peggio, si vergognavano di Sherlock.
Il dottore si era trovato spesso a pensare ad un modo per mettere fine alla propria vita, vuota ed insensata. Se non lo aveva ancora fatto era perché non voleva che la sua morte aggiungesse ulteriore biasimo al ricordo di Sherlock. Non voleva che il suo amico fosse accusato anche del suo suicidio.
Chiuso nel proprio dolore, isolato in un mondo senza amici, John faceva di tutto per evitare di frequentare locali in cui potesse incontrare qualcuno che lo conoscesse. Odiava lo sguardo di compatimento che molti gli riservavano, perché credevano che fosse stato ingannato e che fosse troppo orgoglioso per riconoscerlo. Forse preferiva quelli che lo deridevano, perché loro scatenavano la sua rabbia. Questo era l’unico sentimento che ancora riuscisse a provare e lo facesse sentire vivo. Una volta passata la furia, però, tornava ad essere apatico. Andare a bere una birra in un luogo in cui nessuno sapesse chi fosse, era l’unica cosa che lo facesse sentire quasi normale e che riuscisse ad allontanare quella sensazione di inutilità, che stava imperversando nella sua vita.


L’uomo urtò il braccio di John, mentre stava per portarsi il boccale di birra alla bocca, facendo finire una parte del liquido ambrato sulla giacca del medico.
“Potrebbe stare attento,” borbottò John, prendendo alcuni tovagliolini di carta per asciugarsi.
L’uomo si voltò verso di lui. Era visibilmente ubriaco, più giovane, robusto ed alto di John. Osservando il fisico, si poteva notare quanto si tenesse allenato: “Hai detto qualcosa, bassotto?”
“Che un po’ di educazione non guasterebbe, ma temo che siano parole sprecate.”
“Vorresti insegnarmi l’educazione, piccoletto? Sai che potrei mangiarti in testa, vero?”
John sospirò. Non aveva voglia di farsi coinvolgere in una rissa con uno stupido ubriaco. Non sarebbe servito a nulla. Si alzò, facendo un cenno al barista, pronto a pagare il conto per andarsene, ma l’uomo non desisté: “Batti in ritirata, nanetto? Hai paura di prenderle, vero?” Rise in maniera sguaiata, ma si bloccò, fissando John, che stava pagando.
“Aspetta! Aspetta un momento… io ti conosco! Bruce, la faccia del nano non ti è familiare?” L’uomo si era girato verso il compagno di bevute, un suo coetaneo, altrettanto alto e grosso. Anche Bruce studiò John, che si era alzato per andarsene: “Ehi… certo che lo conosci, Carl! È lo stupido che scodinzolava dietro a quel tipo che si è buttato dal Bart’s… come lo chiamavano?”
“Parli dell’investigatore con il cappello buffo?”
“Esatto! Lui era il suo amico. Il tipo che lo aiutava nei casi e che si beveva tutte le sue panzane.”
“Hai ragione, Bruce! Dove credi di andare, buffone? Fermati e spiegami come hai potuto essere così idiota da credere a tutto quello che ti raccontava quell’imbroglione. Scommetto che è perché dentro ad un corpo da nano c’è un cervello piccolo piccolo,” ghignò, afferrando John per un braccio.
La rabbia salì dalle viscere, incontenibile: “Mi lasci andare,” sibilò, in tono minaccioso, stringendo i pugni.
“Credi di farmi paura, piccoletto? – lo derise l’uomo, piazzandosi davanti a lui – Non temo gli idioti, io.”
“Forse  perché ne vedi uno tutti i giorni, quando ti guardi allo specchio.”
“Carl, sai quale altra voce girava su questi due?” Chiese Bruce, ignorando le parole di John.
“Si diceva altro?”
“Sì. Tutti pensavano che fossero amanti.”
“Davvero? Dimmi, nanetto, ti piaceva prenderlo nel culo dal tuo amico? Perché sono sicuro che anche il tuo cazzo sia troppo piccolo e tu faccia fatica a infilarlo da qualche parte,” rise Carl, orgoglioso della propria battuta.
“Chissà se l’imbroglione lo abbia mai davvero soddisfatto. Potremmo fargli vedere noi cosa siano dei veri uomini. Che ne pensi?”
L’uomo si era avvicinato alle spalle di John, pressandolo contro l’amico. Mettendogli una mano sul sedere e strizzandolo. Avvicinando il volto, per immergerlo nei capelli del dottore.
La rabbia di John esplose. Diede una testata decisa all’uomo che aveva alle spalle, piantandogli contemporaneamente un gomito nello stomaco, con tutta la forza scatenata dall’adrenalina. Prima ancora che l’altro capisse cosa stesse accadendo, John lo colpì allo stomaco, con un pugno. Senza fiato, l’uomo si piegò in due. John unì le mani e le lasciò cadere sul collo dell’uomo, che stramazzò a terra, privo di sensi.
Fu allora che entrarono due agenti di polizia, armi in pugno: “Mani in alto! In ginocchio! Non ti muovere!”
John obbedì, senza opporre resistenza né spiegare le proprie ragioni. Le mani che gli afferrarono i polsi e gli portarono le braccia dietro la schiena, per mettergli le manette, lo fecero con efficienza e forza. Gli agenti lo caricarono su un’auto e lo portarono in centrale. John non disse una parola. Forse una cella era il posto giusto in cui trascorrere quella Vigilia di Natale.


“È proprio necessario?” La voce ed il viso di Sherlock esprimono tutto il suo disgusto. John sta decorando l’albero e ha chiesto al suo coinquilino di aiutarlo. “Questa festa è stata…” John gli appoggia una mano sulla bocca, per farlo tacere. Non è arrabbiato o deluso od infastidito. Sa cosa pensi Sherlock di qualsiasi cosa abbia a che fare con le tradizioni e le convenzioni sociali. Sa che per lui decorare l’albero e la casa sia una inutile perdita di tempo: “Faremo felice la signora Hudson,” ribatte, tranquillamente. Toglie la mano dalle labbra di Sherlock e gli porge una decorazione. Sherlock  stringe le labbra e la fissa come se fosse una bomba a mano, pronta ad esplodere. John non si muove. Sherlock sbuffa ed afferra la decorazione, mettendola sull’albero: “Contento?”
John non lo guarda. Sta decorando l’albero e nasconde un sorriso: “Ce ne sono ancora tante.”
Sherlock ne prende un’altra dalla scatola, con un grugnito: “Solo perché me lo chiedi tu.”
John sorrise. Il ricordo era affiorato involontariamente. Era sdraiato sulla brandina, nella cella. Non aveva voluto chiamare nessuno né rivolgersi ad un avvocato. Quello era un posto come un altro, per trascorrere le feste. Probabilmente Sherlock avrebbe gradito la vigilia alternativa, che John stava trascorrendo. Era convinto, comunque, che il suo amico apprezzasse la compagnia delle poche persone, che riteneva degne della sua considerazione, molto più di quanto lasciasse vedere. E lui sapeva di essere uno dei pochi fortunati ad essere nella lista delle persone a cui Sherlock Holmes tenesse.
La porta della cella si aprì. John si voltò verso l’ingresso, incuriosito. Sperava che non gli stessero portando un compagno di cella. La solitudine era diventata una cara amica, con cui aveva imparato a convivere. Un agente gli fece cenno di seguirlo: “Abbiamo sentito i testimoni. Lei si è solo difeso. Può andare a casa.”
Un sospiro di disappunto lasciò le labbra di John. Si chiese se lo avrebbero lasciato tranquillamente lì, dentro quella cella, se avesse picchiato il poliziotto che lo stava rilasciando. Notò che l’uomo stava guardando l’orologio, impaziente. Evidentemente era a fine turno e doveva andare a casa dalla sua famiglia. Se lui avesse causato dei problemi, l’agente sarebbe stato costretto a restare in centrale. John lo fissò quasi con ostilità, ma si alzò, senza dire una parola. Solo perché lui non voleva tornare in una casa fredda e vuota, che non aveva nulla di natalizio, non giustificava il fatto di tenere quell’uomo lontano dai suoi cari. John seguì il poliziotto verso l’uscita, ma si bloccò, quando vide l’uomo alto, dai capelli sale e pepe, fermo vicino al bancone di ricevimento, che lo stava evidentemente aspettando.
“Ciao, John,” borbottò Gregory Lestrade, con le mani affondate nelle tasche del cappotto.
John non rispose. Strinse la mascella e passò oltre Lestrade, diretto verso la strada. La neve aveva iniziato a cadere. Lenta. Fitta. Silenziosa. Sherlock sapeva quanto John amasse vederla scendere dal cielo. Lo avrebbe chiamato e sarebbero rimasti per ore ad osservarla cadere e coprire Londra, dalla finestra del salotto di Baker Street. Uno accanto all’altro. In silenzio. Perché i loro silenzi erano pieni di parole non pronunciate, ma che entrambi sentivano perfettamente.
“Mi dispiace per quello che è successo, ma non ho potuto fare nulla per evitarlo,” sussurrò una voce appena dietro di lui. John la ignorò. Alzò il bavero della giacca, come faceva sempre Sherlock.
“Puoi smettere di farlo, per favore?”
“Di fare cosa?”
“Il misterioso con quegli zigomi e il colletto del cappotto rialzato per fare il figo.”*
John sorrise. Chissà cosa avrebbe pensato di lui Sherlock, vedendolo comportarsi allo stesso modo.
Io non ho i suoi zigomi. Il suo portamento. La sua eleganza. Io sono solo uno spaventapasseri con il bavero alzato.
“John! Per favore! Parlami.”
“Non abbiamo nulla da dirci, ispettore Lestrade. Ognuno di noi deve convivere con i propri errori. Non posso darti l’assoluzione che cerchi, perché non riesco a darla nemmeno a me stesso. Tu hai deciso di dare retta ai sospetti di Donovan ed Anderson, mettendo in dubbio l’intelligenza e l’integrità di un uomo, che ha commesso il solo errore di aiutarti a sembrare un poliziotto migliore di quello che sei. Hai fatto ciò che ritenevi giusto. È tardi per i ripensamenti.”
John non si voltò indietro. Stava riflettendo se cercare un taxi o tornare a casa a piedi.
“Cosa avrei dovuto fare, secondo te? Quando Anderson e Donovan mi hanno sottoposto i loro dubbi, non potevo non ascoltarli. C’era della logica, in quello che dicevano!”
John si ostinò a fissare la strada, come se Lestrade non avesse parlato.
“Per favore, John. Ho dovuto fare il mio lavoro. Sono stato costretto a vagliare tutte le ipotesi. Non potevo certo immaginare che Sherlock decidesse di lanciarsi da un palazzo, invece di lottare per dimostrare la propria innocenza.”
John continuava a rimanere chiuso in un ostinato silenzio. Greg avrebbe preferito che gli urlasse contro, che lo prendesse a pugni, che lo insultasse. Quell’ostentata indifferenza faceva più male di qualsiasi altra cosa: “Ti ho mandato quel messaggio, per avvisarlo che stavamo arrivando, proprio perché io credevo in lui, nelle sue capacità, nella sua intelligenza. Non ho mai pensato che fosse un imbroglione. Mai.”
John decise che sarebbe tornato a casa a piedi. Una passeggiata sotto la neve, era quello che ci voleva, per lenire le sue ferite. Si avviò lungo il marciapiede, mentre Greg lo osservava allontanarsi e sparire, avvolto dalla neve.


John camminava lentamente, ascoltando i propri passi affondare nella neve fresca. Non  aveva alcuna fretta di tornare in una casa piena solo di ricordi. Le strade erano praticamente deserte. La gente era raccolta nel caldo delle case, dei locali o delle chiese, in attesa dello scoccare della mezzanotte. La neve attutiva i rumori, rendendoli quasi innaturali. Magici. John sentiva una strana pace, come se non stesse camminando in un luogo reale e potesse avvenire il miracolo.
Stasera Sherlock tornerà da me. Stanotte smetterà di essere morto.
Incrociò un uomo, uno dei pochi coraggiosi che osavano avventurarsi per le vie innevate, ma non alzò gli occhi, lo ignorò.
“Capitano,” la voce era esitante, come non fosse sicura di averlo riconosciuto. Nessuno lo chiamava capitano da anni. John continuò per la propria strada. “Capitano,” insisté la voce, avvicinandosi. Qualcuno appoggiò, delicatamente, una mano sulla sua spalla: “Capitano Watson, si ricorda di me?”
Finalmente John si voltò e si trovò davanti un viso sorridente. L’uomo aveva poco più di trenta anni, era moro, con i capelli tagliati cortissimi e gli occhi verdi, che lo fissavano felici. Era avvolto in un giaccone blu e gli stava allungando una mano, in attesa di una sua reazione.
Quel volto lo riportò ad un’altra vita, vissuta prima di conoscere Sherlock. Sembravano essere trascorsi secoli, invece erano passati solo un paio di anni. John sentì il caldo vento afghano fra i capelli, sulla pelle. La sabbia che si infilava nei vestiti. La risata allegra degli uomini della sua compagnia, che si rilassavano, fra una missione e l’altra.
Quante vite viviamo in un’unica esistenza?
“Frakes. Sergente Patrick Frakes!” Allungò una mano e prese quella dell’uomo giovane.
“Tenente, signore. Ora sono tenente,” ribatté Frakes, stringendo la mano di John con calore.
John scosse la testa, incredulo. Si ricordava bene di quell’uomo. Era stato assegnato come soldato semplice al suo distaccamento in Afghanistan. Era timido e riservato, ma sempre disponibile e cercava di rimanere umano, malgrado la guerra facesse di tutto per trasformarlo in un uomo duro ed indifferente. Aveva fatto carriera, diventando sergente in breve tempo. Faceva parte della sua squadra, il giorno in cui John era stato ferito. Non era cambiato molto. Qualche ruga in più, forse, ma il sorriso era sempre lo stesso: gioviale e sincero.
“Capitano, sono così contento di vederla. La trovo in forma.”
“Non sono più capitano, Frakes. Mi chiami pure John.”
“Per me lei è sempre stato il miglior ufficiale con cui abbia lavorato e mi sembrerebbe di mancarle di rispetto, chiamandola per nome.”
“Avrebbe ragione se fossi ancora in servizio, ma non sono più nell’esercito. Immagino che sia in licenza.”
“Sì, mi sono sposato e… senta, capitano, qualcuno la sta aspettando? Io stavo andando in quel pub a bere qualcosa, in attesa che mia madre e mia moglie escano dalla funzione.”
“Lei non è andato con loro?”
L’uomo fissò il marciapiede, strascicando i piedi: “In guerra si vedono cose orribili, capitano. Lo sa anche lei, vero? Questo mette in dubbio tante certezze.”
“So cosa voglia dire,” sussurrò John. Il mondo era crollato addosso anche a lui e stava facendo fatica a rimetterne insieme i pezzi.
“Andiamo? Mi farebbe tanto piacere fare quattro chiacchiere con lei. Posso raccontarle tutti i pettegolezzi riguardanti i nostri commilitoni. Ad esempio, sono sicurissimo che lei non sappia che Lewis si è deciso a farsi avanti con Bennett,” ammiccò, in tono cospiratorio.
“Non ci credo! Deve raccontarmi tutto!” John gli sorrise entusiasta. Non aveva nessuno che lo aspettasse. Trascorrere qualche ora a farsi raccontare cosa fosse accaduto agli uomini con cui aveva condiviso un pezzo della sua vita, sarebbe stato un bel modo, per trascorrere quella solitaria Vigilia di Natale.


Erano scoppiati a ridere. Di nuovo. John non ricordava l’ultima volta in cui avesse riso tanto. Sicuramente era stato per qualcosa che avesse detto o fatto Sherlock. Una fitta gli strinse il cuore. Doveva sentirsi in colpa per il fatto che si stesse divertendo? Era la prima volta che accadeva da quando Sherlock…
“Mi dispiace per il suo amico.”
La voce di Frakes riportò il dottore alla realtà, come se gli avessero gettato addosso una secchiata di acqua gelida. John fissò il boccale di birra, girandoselo fra le mani. Non voleva guardare Frakes. Non voleva vedere quello sguardo di compatimento, che gli riservavano tutti quelli che credevano che fosse stato ingannato. In quelle poche ore, John aveva abbassato le proprie difese ed ora non sentiva più dentro di sé l’energia per difendere Sherlock ed il suo ricordo.
“Doveva essere un grande uomo,” continuò Frakes.
John alzò gli occhi sul tenente, sorpreso. Vi lesse solo una sincera partecipazione al suo dolore.
“So cosa abbiano scritto i giornali su Sherlock Holmes, ma era un suo amico. Se lei lo ha reputato degno della sua fiducia e della sua amicizia, non doveva essere l’imbroglione descritto dalla stampa. In fin dei conti, non tutto quello che si legge è oro colato.”
“Grazie, Frakes,” sussurrò John.
“Cosa fa ora?”
“Lavoro in una clinica.”
“Perché non torna in servizio?”
John aggrottò la fronte, sorpreso dalla domanda di Frakes. Non aveva mai pensato di rientrare nell’esercito. Correndo per le strade di Londra, inseguendo criminali e risolvendo casi, insieme a Sherlock, si era lasciato alle spalle il suo passato militare. Ora, però, Sherlock non c’era più.
“So che era stato congedato per problemi fisici, ma mi sembra che si sia perfettamente ripreso. Potrebbe parlarne con il Colonnello Wilkinson. Sono sicuro che la farebbe rientrare in servizio in pochissimo tempo. Potrei fissarle un appuntamento con lui per dopo domani. Che ne dice?”
“Dopo domani?”
“Mia moglie è sua figlia. Lo vedo domani al pranzo di Natale,” sorrise Frakes, arrossendo.
“Davvero? – John spalancò gli occhi, incredulo – Ha decisamente avuto un bel coraggio a corteggiare la figlia del suo comandante!”
“Ne è valsa la pena. Jenny è fantastica… Allora? Mi dica di sì.”
John tornò a fissare il boccale di birra. Ne bevve un sorso. Perché no? Non aveva motivi che lo tenessero legato a Londra. Sherlock era morto. Harry non aveva certo bisogno di lui. Aveva allontanato tutti i vecchi amici. Forse era tempo di voltare pagina. Di ricominciare da capo. Ancora. “Mi piacerebbe riprendere servizio. Se il colonnello Wilkinson accettasse di incontrarmi, gli parlerei volentieri.”
“Mi dia il suo numero di cellulare. Domani le mando un messaggio con ora e luogo dell’appuntamento.”
Poco dopo si salutarono con calore e con la promessa di sentirsi presto.
Tornato a casa, mentre le campane suonavano a festa e la neve continuava ad ammantare le strade di bianco, John riuscì a dormire una notte intera, senza sognare l’angelo cadente.


Il giorno di Natale trascorse lento e noioso. John cercava di non sbirciare continuamente il cellulare e di non crearsi troppe aspettative. Non era sicuro che potesse rientrare nell’esercito e sentiva che un altro fallimento avrebbe distrutto quel poco di sicurezza che era riuscito a conservare, in quei mesi di agonia. Si immerse nella lettura, ma la sua mente finiva sempre per proiettarsi nel futuro, immaginandosi in zona di guerra, utilizzando le proprie conoscenze per salvare delle vite. Quando, poco dopo le tre, il cellulare suonò, annunciando l’arrivo di un messaggio, John quasi saltò sulla poltrona. Esitante, prese il telefono e guardò chi gli avesse scritto. Sullo schermo apparve il nome di Frakes.

[15.06] Domani. Base Bradbury. Ore 16. Ci sarò anche io. Sarà bello riaverla con noi.

John si scoprì a sorridere, come se avesse ricevuto il regalo di Natale, che non sapeva di aspettare.


Mycroft Holmes era seduto in una poltrona della sala principale del Diogene’s Club. Stava leggendo i giornali. Da qualche settimana, gli articoli su Sherlock erano scivolati dalla pagina principale alle pagine interne, per trasformarsi in anonimi trafiletti e sparire completamente, negli ultimi giorni.
La gente ed i media dimenticano in fretta. Uno scandalo ne sostituisce un altro. Se fosse così anche per l’organizzazione di Moriarty, non avremmo avuto bisogno di inscenare la morte di Sherlock.
La sala era vuota. Gli altri soci erano tutti impegnati nel tradizionale pranzo natalizio, insieme alle loro famiglie. Gli Holmes non erano mai stati una famiglia tradizionale. Con la scusa della tragedia che li aveva appenda colpiti, avevano deciso di evitare qualsiasi tipo di celebrazione. La vibrazione del cellulare sorprese Mycroft, che lo estrasse dalla tasca. Un accenno di sorriso gli increspò le labbra, quando vide il mittente. Anthea non riposava nemmeno il giorno di Natale.

[15.08] Il dottor Watson ha ricevuto un messaggio dal tenente Patrick Frakes, che gli ha fissato un appuntamento con il colonnello Oscar Wilkinson.

Mycroft fissò lo schermo, interdetto. Aveva promesso al fratello di tenere d’occhio John ed era preoccupato per lui. Si era isolato e stava reagendo molto male al finto suicidio di Sherlock. Quando avevano organizzato l’operazione, non avevano tenuto nella giusta considerazione quella variabile costituita dai sentimenti umani, così estranea alla natura degli Holmes, che razionalizzavano tutto, ma così profondamente radicata in John Watson. Probabilmente era stata proprio quella sua spiccata sensibilità a permettergli di accettare i difetti di Sherlock, riuscendo a farlo convivere con lui, come non aveva mai fatto nessuno. Mycroft si ricordava che Wilkinson fosse stato il superiore di John, quando era nell’esercito, e si chiese se il dottore stesse pensando di rientrare in servizio. Non poteva permettere che gli accadesse qualcosa. Sherlock non glielo avrebbe mai perdonato. Se da una parte John era il punto debole del fratello, perché avrebbe fatto qualsiasi cosa per proteggerlo, era anche vero che il dottore fosse un’ancora di salvezza per Sherlock, che non aveva più preso in considerazione di drogarsi, da quanto era entrato nella sua vita.

[15.10] Fissa un appuntamento con Wilkinson, domani mattina al Diogene’s. Amichevole. Non formale. Il dottore non deve esserne informato.

Mycroft non dovette attendere troppo per la risposta. L’efficienza della sua assistente non si faceva fermare da una semplice festa.

[15.20] Ore 9.


La mattina dopo, Londra si svegliò avvolta dal gelo. Dopo la fitta nevicata della Vigilia e del giorno di Natale, le temperature erano calate. La candida neve si era trasformata in gelido ed insidioso ghiaccio. I piedi dell’uomo in divisa fecero scricchiolare il manto ghiacciato, che divideva l’auto dall’ingresso del Diogene’s. Il colonnello Oscar Wilkinson aveva poco più di sessanta anni, ma ne dimostrava molti meno. Non era particolarmente alto, con un fisico atletico ed asciutto. I pochi capelli rimasti erano diventati grigi già in giovane età. Gli occhi marroni esprimevano ancora gioia di vivere, malgrado tutto quello a cui avevano assistito. Il maggiordomo del Diogene’s, nel più assoluto silenzio, lo condusse nella sala in cui Mycroft Holmes riceveva i suoi visitatori.
Al rumore dei passi che si stavano avvicinando, Mycroft distolse gli occhi dal giornale, che stava leggendo, ed osservò il suo ospite. Non sembrava nervoso, quasi si fosse aspettato quella chiamata. Con un movimento elegante, Holmes si alzò dalla poltrona e tese la mano, esibendosi in un sorriso cordiale: “Buongiorno, colonnello Wilkinson, posso offrirle un tea o un caffè?”
“Un caffè andrà bene, grazie. Senza zucchero.”
Mycroft fece cenno all’uomo di accomodarsi nella poltrona di fronte alla sua, mentre il maggiordomo gli servì il caffè e lasciò la stanza. I due uomini si studiarono per qualche secondo, con curiosità.
“Ho fatto qualche domanda su di lei e penso di sapere perché io sia qui,” esordì Wilkinson.
“Davvero?”
“John Watson.”
“Continui.”
“Suo fratello è l’uomo che si è ucciso davanti al capitano Watson. Erano coinquilini. E molto legati, stando ai giornali. Quello di cui non sono sicuro, è che cosa lei voglia che io faccia o non faccia.”
“Il dottor Watson ha preso un appuntamento con lei, affinché lei lo aiuti a tornare in servizio.”
“Se anche fosse, a lei cosa interessa?”
“Come lei ha detto poco fa, il dottor Watson era un amico di mio fratello. Il suo solo amico, a dire il vero. Mi preoccupo per la sua incolumità.”
“Io non sono un uomo diplomatico, signor Holmes. Sono un militare. Sono arrivato al grado di colonnello per i miei meriti sul campo, ma non diventerò mai generale, perché la politica non mi interessa e non addolcisco mai la pillola. Mi hanno riferito che lei sia un uomo pericoloso e che sia meglio non averla come nemico. Io, però, stimo ed apprezzo John Watson come uomo e come ufficiale. Se lei è veramente preoccupato per lui, come dice, non credo che si offenderà, se le dirò cosa io pensi sinceramente.”
“Può parlare liberamente, colonnello. Non vi saranno conseguenze di alcun genere. Questa vuole solo essere una chiacchierata amichevole, fatta fra persone che hanno a cuore il bene del dottor Watson.”
“John Watson è stato un ottimo ufficiale. Un uomo rispettato e benvoluto da tutti coloro con cui abbia lavorato. Quando è stato rimpatriato e congedato, è stata una grande perdita. Visto quello che ha fatto per la polizia di Londra, non avrà problemi a superare i test fisici. Sono sicuro che potrà riprendere servizio e rendersi utile al paese, lasciandosi alle spalle quello che suo fratello gli ha fatto. Il capitano Watson non meritava di essere tradito dal suo migliore amico né di essere costretto ad assistere al suo suicidio. Se cerca un modo per riappropriarsi della propria vita ed andare avanti, non sarò certo io ad impedirglielo.”
“Non crede che sia troppo presto per il dottor Watson… per John… essere mandato in zona di guerra? Con quello che sta passando, non pensa che potrebbe prendere delle decisioni avventate? Non sto dicendo che cercherebbe di proposito la morte o che metterebbe coscientemente a rischio la propria squadra, però potrebbe non essere abbastanza lucido nel valutare il pericolo.”
“Non lo rispedirei mai in zona di guerra. Per chi mi ha preso? Ci sono tanti ospedali militari, in Inghilterra, che possono avvalersi della competenza, della professionalità e dell’esperienza del capitano Watson. Non è necessario che sia mandato in missione. Non all’inizio, almeno. Con il tempo, non si può sapere.”
“Volevo essere solo sicuro di questo. Che John non fosse spedito fuori dal paese troppo presto.”
“Direi che abbiamo finito,” disse Wilkinson, alzandosi per andarsene.
“Immagino che non le dispiaccia se terrò d’occhio John. Non lo prenda come una mancanza di fiducia nei suoi confronti. Voglio solo essere certo che lui sia al sicuro.”
“Perché tutto questo interesse per il capitano Watson? Senza offesa, signor Holmes, ma suo fratello è morto e lei non ha alcun motivo né diritto di intromettersi nella vita del dottore.”
Mycroft allontanò lo sguardo, come se stesse soppesando le parole da dire: “Sto proteggendo il cuore di mio fratello,” rispose, infine, in tono sommesso.
Il colonnello annuì: “Penso che lei non voglia che io riferisca al capitano della nostra conversazione.”
“Le sarei grato, se non lo facesse.”
“Voglio che sia chiaro che lo faccio per lui, non per lei. Sono convinto che non apprezzerebbe questa intrusione nella sua vita. Il capitano ha già sofferto abbastanza, a causa di un Holmes. Non credo sia giusto che provi ulteriore dolore, per colpa dell’altro.”
“Ne sono consapevole, ma la ringrazio ugualmente.”
Senza aggiungere altro, il colonello se ne andò. Mycroft lo osservò, fino a quando scomparve dalla sua vista. Per un po’ di tempo, John sarebbe stato al sicuro. Forse Sherlock sarebbe riuscito a tornare prima che il buon dottore fosse assegnato a qualche missione all’estero.


Erano trascorsi sei mesi. L’inverno e la neve avevano lasciato il posto ad una primavera calda ed afosa. L’elicottero militare stava trasportando attrezzature e personale da una base londinese ad una situata nel Devonshire. John era rilassato, seduto ad occhi chiusi, con la schiena appoggiata alla parete. Ascoltava le battute dei suoi compagni di viaggio. Malgrado non si trovasse in zona di guerra, la routine della vita militare e gli impegni di lavoro in ospedale, gli avevano concesso una tregua al dolore che provava. Non che avesse dimenticato Sherlock. Il suo angelo cadente. Solo che il dolore aveva lievemente smesso di levargli il fiato e di fermargli il cuore. A volte era così stanco, che si lasciava cadere sul letto e crollava in un sonno pesante e senza sogni. Non voleva dimenticare Sherlock. Voleva fare pace con il suo ricordo. Non voleva che la caduta fosse l’unico ricordo a popolare la sua mente. Voleva ritrovare il viso sorridente, gli occhi trasparenti, la voce profonda, che lo avevano portato a seguire Sherlock senza pensarci due volte, quando non sapeva neanche chi fosse.
“E poi, cosa è successo?” La voce impaziente era di Alastair Cormoran, il più giovane dei militari presenti sull’elicottero. Discendeva da una famiglia nobile decaduta ed era sempre sorridente e cordiale con tutti.
“Lena mi ha detto che non mi avrebbe fatto entrare nemmeno se fossi stato l’ultimo uomo sulla faccia della terra e mi ha sbattuto la porta in faccia,” ridacchiò Peter Marler, provocando uno scoppio di risate.
Anche le labbra di John si piegarono in una smorfia divertita.
L’allegria venne bruscamente interrotta da uno scossone improvviso. Gli uomini si ancorarono come meglio poterono, mentre l’elicottero perdeva quota.
“Cosa sta accadendo?” Chiese John nel microfono, che aveva nel casco, ad uno dei piloti.
“Qualcosa ha colpito uno dei motori, forse un uccello. Il motore ha subito dei danni e si è spento. Tenetevi forte. Stiamo tentando un atterraggio di emergenza,” rispose il più alto in grado.
Il silenzio si fece teso. Tutti ascoltavano il rumore dell’unico motore superstite, che si lamentava, come un animale in agonia. Mentre il secondo pilota lanciava l’SOS, comunicando la loro posizione, il primo cercava un posto in cui atterrare in sicurezza, senza mettere in pericolo i civili che potevano trovarsi sotto di loro. Del fumo aveva iniziato ad uscire dal motore in avaria. Erano decollati da poco tempo. Se il fuoco avesse raggiunto il serbatoio, l’elicottero sarebbe esploso. Nessuno di loro si sarebbe salvato.
“Stiamo per toccare terra. Preparatevi a slacciare le cinture ed uscire velocemente. Correte il più lontano possibile dal velivolo,” il primo pilota avvisò i passeggeri.
Con un tonfo secco, il velivolo si depose su un terreno solido. I militari si slacciarono le cinture ed uscirono, mettendosi subito a correre. John contò gli uomini, sollevato che fossero tutti usciti dall’elicottero. Aveva fatto in modo di essere l’ultimo, per controllare che tutto procedesse per il meglio. Non capì perché Cormoran fosse caduto. Forse era inciampato in un dislivello del terreno. Forse aveva messo male un piede. Non era importante. Il fatto preoccupante era che non si stesse rialzando. John lo raggiunse e lo sollevò di peso, prendendolo sotto le ascelle: “Forza, resisti. Bastano pochi passi,” lo incoraggiò. Il boato alle loro spalle fu fortissimo. L’onda d’urto li sollevò, facendoli volare come foglie al vento, per diversi metri. Il mondo diventò un posto stranamente silenzioso. John non sentiva dolore in nessuna parte del corpo.
“Sherlock,” sussurrò, con un sorriso sulle labbra.
E il buio lo accolse, nel suo abbraccio sereno e pieno di pace.


Angolo dell’autrice

*Dialogo da ”The Hounds of Baskerville”

Eccomi di nuovo qui, dopo un breve periodo di assenza, con una Post Reichenbach, nata mentre la mente vagava durante una passeggiata al lago, la primavera scorsa.  Lo stile sarà un po’ particolare e spero che vi piaccia. Ringrazio chi sia arrivato a leggere fino alla fine e chi voglia lasciare un commento.

Se volete sapere cosa sia successo a John, l’appuntamento è per domenica prossima.

Ciao!
   
 
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