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Autore: ComeWhatKlaine__    04/11/2016    4 recensioni
Scosse il capo violentemente cercando di scacciare i brutti pensieri: erano salvi, erano al sicuro, erano insieme.
Andava tutto bene. Era tutto apposto.
Vero?
[...]
“Tu stai giocando col fuoco, ragazzina!”
“Non ho mai avuto paura di bruciarmi in vita mia, se è questo che vuoi sapere.”
Le rise, perfido e beffardo, in faccia.
“Non hai capito niente, sciocca terrestre. Non mi importa nulla di te."
[...]
Ora le sue mani erano di nuovo piene e la sua vita aveva riacquistato il suo senso perduto.
La morte e i demoni erano scomparsi.
Ma era ancora troppo da metabolizzare.
OS nell'immediato post Majin Bu.
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bulma, Trunks, Vegeta | Coppie: Bulma/Vegeta
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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~A Myriam.


Da che ne avesse ricordo, quella era sempre stata la parte della giornata che preferiva.
Ogni qual volta gli ultimi raggi di Sole danzavano lenti e assonnati, ritirandosi al di là dell’orizzonte, e quel cielo sconfinato ed immobile si tingeva di mille sfumature vermiglie, le sembrava di riuscire a respirare meglio.
E questa volta non faceva eccezione: respirava, respirava a fondo, continuando a scrutare quella volta così apparentemente lontana, ma che dopo tutti quegli anni saturi di avventure folli le pareva così vicina da sentire quasi di riuscire a  sfiorarla anche solo allungando la mano.
Sorrideva appena, circondata da quel tramonto che sapeva di casa e da quell’atmosfera tanto familiare ed eppure così nuova, dati i recenti avvenimenti.
C’era anche il silenzio a circondarla ed anch’esso, per quanto estraneo alla sua indole caparbia e frizzante, era ormai divenuto un ospite al quale si era abituata.
Era stato nell’oscurità ed avvolta dalle lunghe e spigolose braccia del silenzio e della solitudine che aveva realizzato tante cose su di sé e sulla sua vita, era in esse che si era “fatta le ossa”.
Era stato il rimbombo sordo del silenzio a rammentarle che avrebbe dovuto farcela con le sue forze.
Le aveva fatto capire tante cose, il silenzio, anche e, forse soprattutto, perché in esso aveva dovuto scavare a più e più riprese ed avanzare in esso un passo felpato alla volta, per riuscire a raggiungere il fondo di due iridi nere come la più cupa e lunga delle notti e un cuore sepolto dalle macerie di mille fantasmi.
Ed era lì, a pochi passi da lei, quell’universo di tormento, orgoglio e passione, con quelle braccia forti che tante volte l’avevano stretta e con quelle iridi che parevano ardere, ora celate dal velo delle palpebre, nella tranquillità così surreale che aleggiava sull’aereo su cui si trovavano, impostato sul pilota automatico e diretto verso casa.
Verso casa loro.
Bulma chiuse leggermente gli occhi e rivolse poi lo sguardo alle sue spalle, prendendosi qualche momento per ammirare quel piccolo spettacolo che le si parava davanti, raro e prezioso come pochi: il suo piccolo Trunks, con il ciuffo glicine e ribelle riverso sulla fronte, dormiva beatamente, appoggiato alla spalla massiccia di suo padre che riposava con la tempia appoggiata al finestrino.
Non riuscì a trattenere il sorriso e la lacrima che seguirono: erano salvi, erano al sicuro, erano insieme.
Il suo cuore, per un istante, tornò a pulsare dolorosamente, com'era successo più e più volte nei giorni precedenti, ricordando come il mondo le fosse crollato addosso nell’apprendere quanto la sua famiglia si fosse sgretolata.
Scosse il capo violentemente cercando di scacciare i brutti pensieri: erano salvi, erano al sicuro, erano insieme.
Salvi, al sicuro, insieme.
Andava tutto bene. Era tutto apposto.
Vero?
L’imponente edificio della Capsule Corporation occupò interamente la visuale e la distrasse nuovamente dai suoi pensieri; si avvicinò rapidamente al quadro dei comandi, per preparare il veicolo ad atterrare nel cortile anteriore, facendo attenzione a non svegliare i suoi uomini bruscamente.
L’atterraggio venne completato in pochi minuti e senza troppe turbolenze, ma furono abbastanza da destare il Principe dal suo sonno leggero.
Bulma si girò nella sua direzione, allacciandosi il foulard intorno al collo, e gli rivolse un tenero sguardo che però Vegeta non riuscì a sostenere.
Per l’ennesima volta, dovette prendere un respiro profondo.
“Prendi Trunks, lo portiamo a letto. Non voglio rischiare di svegliarlo, sembra davvero esausto, povero piccolo.”
Vegeta annuì silenziosamente, prendendo il piccolo tra le braccia, con una delicatezza che non gli apparteneva e senza aggiungere neanche una parola sul suo viziare Trunks come un qualunque e volgare terrestre.
Ma era tutto okay.
Vero?
Bulma inserì il codice di sicurezza rapidamente, facendo spalancare il grande portone d’ingresso e il profumo di casa prese a cullare i suoi pensieri sfiniti.
Diede uno sguardo in giro per la casa, toccando ora il tavolino, ora l’appendiabiti, stupendosi di quanto tutto sembrasse rimasto immobile ed immutato.
Nessun urlo, nessun demone rosa, nessuna esplosione.
Solo le  vetrate, il divano lucido e l’ampia balconata su cui si affacciava la sua camera, la loro camera, e sulla quale riusciva a vedere uno ad uno i ricordi di un passato ora così lontano.
Si avvicinò piano alla ringhiera, quasi col terrore che tutto potesse andare in frantumi da un momento all’altro sotto di lei.
Se chiudeva gli occhi poteva ancora sentire l’eco lontana delle discussioni passate.

“Dannata terrestre, si può sapere dove diavolo ti cacci negli unici momenti in cui servi a qualcosa?!”
Si aggirava nervosamente per gli immensi corridoi dell’abitazione, il solito cipiglio e un ringhio ad incorniciare quel viso segnato da anni di lotta senza fine.
Percepì finalmente la debole aura di quella nevrotica donna dai capelli azzurri e si diresse a passo spedito verso una ben precisa direzione.
Trovò la porta di quella che, aveva capito, doveva essere la sua stanza semiaperta, con una corrente leggera che, da lì, si incanalava nel resto del corridoio adiacente.
Si fiondò in essa: vuota.
“Ma che diavolo!” pensò, prima di rendersi conto che dietro la tenda bianca, anch’essa mossa dalle dita leggere di quella brezza, l’ampia porta a vetri era spalancata ed un’ombra sottile si delineava al di là di essa.
-Beccata!-
“Senti bene, donna, muoviti a riparare la Gravity Room o questo posto finisce in mille pezzi.
Il regolatore di gravità continua a bloccarsi e io non ho intenzione di rinunciare all’allenamento a causa di voi stupidi incompetenti!”
Le aveva urlato la sua richiesta –il suo ordine- parando davanti a sé il pugno chiuso, costante monito per chiunque osasse in qualche modo sfidarlo.
E quella donna non faceva altro, in realtà.
Da quando era tornato sulla terra e si era trovato a stare in contatto con quella strana terrestre dalla lingua tagliente e gli occhi grandi, quest’ultima non perdeva occasione per stuzzicarlo, per metterlo in ridicolo o per tentare di tenergli testa.
-Ridicola- continuava a ripetersi il Principe.
E anche questa volta non faceva eccezione: si era alzata di scatto dalla sdraio su cui stava ammirando, quasi incantata, il tramonto – tsk, solo degli esseri inferiori come i terrestri potevano trovare affascinante qualcosa di tanto stupido – e dopo qualche secondo di silenzio e sbigottimento dovuti a quella improvvisa irruzione, aveva preso ad urlargli contro, come da manuale.
“STUPIDO SCIMMIONE CHE NON SEI ALTRO!
Ti sembra questo il modo di sgattaiolare in camera mia?! E come ti permetti di rivolgerti a me in questi termini?! Io ho appena finito di lavorare ad un progetto che mi ha preso tutta la giornata, quindi non ho alcuna intenzione di rimettermi a lavorare a quella stupida camera gravitazionale che continui a rompere a causa dei tuoi stupidi ed inutili allenamenti, SONO STATA CHIARA?!”
Fu un attimo.
Le arrivò addosso e le bloccò entrambi i polsi con la mano destra.
Con la sinistra le aveva bloccato il mento, costringendola a guardarlo negli occhi per farle capire che non scherzava affatto.
“Tu stai giocando col fuoco, ragazzina!”
“Non ho mai avuto paura di bruciarmi in vita mia, se è questo che vuoi sapere.”
Le rise, perfido e beffardo, in faccia.
“Non hai capito niente, sciocca terrestre. Non mi importa nulla di te.
Mi importa solo di potermi allenare come e quanto mi pare e tu abbasserai la cresta e riparerai ciò che c’è da riparare, su questo puoi contarci.”
La sentì stringere i pugni, in quello che sembrò un ridicolo mezzo per incutergli timore.
“Sei tu a non aver capito nulla, Vegeta. Io non prendo ordini da te.
Qui non sei Principe o Re di un bel niente.”
Vegeta rafforzò la presa sui suoi polsi sottili: avrebbe potuto romperli come niente.
Avrebbe potuto sgretolarla sotto le sue mani con un soffio.
-Perché non lo aveva ancora fatto?-
“Imparerai a capire chi comanda. Dovrai farlo.
Puoi giurarci, Bulma.”
Lasciò la presa e la lasciò cadere sulle candide piastrelle di quella balconata, senza che nessuna altra parola fosse aggiunta.
Spiccò il volo verso quel cielo ancora non del tutto oscurato, senza rivolgerle più uno sguardo.
-Perché non lo aveva ancora fatto?-



“E’ a letto, ronfa più che mai, neanche una cannonata in faccia lo sveglierebbe, non c’era alcun bisogno di preoccuparsi.”
Quella voce profonda e così ben conosciuta la riportò alla realtà: si era persa nei suoi pensieri, la testa appoggiata al  muro e la mano al limite della ringhiera, dimenticandosi egoisticamente per un po’ di tutto ciò che la circondava.
Per un attimo le venne da ridere, pensando a come si fosse evoluta la situazione negli anni, sebbene loro fossero sempre loro, sempre su quel balcone.
Stesse persone, animi diversi, più di un legame ad unirli.
Quelle mani grandi, che quasi l’avevano sbriciolata in passato, portavano ora su di esse l’impronta di tante carezze, da lui elargite nella segretezza e nel buio della loro intimità.
Il cielo ormai aveva iniziato a trapuntarsi di stelle e l’aria a raffreddarsi; incrociò le braccia sul seno cercando un po’ di calore e rispose piano: “Beh, preparati caro, domani sarà più iperattivo del solito e vorrà sapere tutto sulla vostra battaglia finale.”
Le ultime parole furono poco più che un sussurro: era ancora troppo da metabolizzare, il fatto che ciò che più amava le fosse scappato dalle mani e dalla vita per essere risucchiato in quel vortice assurdo di malvagità pura e distruzione.
Ora le sue mani erano di nuovo piene e la sua vita aveva riacquistato il suo senso perduto.
La morte e i demoni erano scomparsi.
Ma era ancora troppo da metabolizzare.
Lui, in particolare, era sempre troppo da metabolizzare.
Poteva sentire il suo sguardo scrutarle la schiena: sentiva il peso quegli occhi profondi e brillanti come carboni ardenti alle sue spalle; quegli occhi che, come tante altre cose di quell’uomo, aveva imparato ad amare e che solo pochi giorni prima aveva visto riempirsi nuovamente di odio e malvagità.
Non credeva sarebbe successo mai. Non ancora. Non di nuovo.
-Forse avrebbe dovuto aspettarselo- si ripeteva.
“Lo so a cosa stai pensando.”
Aveva perso il conto, ormai, di quante volte, quel giorno, era stata riportata alla realtà dopo essersi persa nel labirinto dei suoi pensieri.
Ci fu un lungo momento di silenzio, interrotto unicamente dai rumori del traffico in lontananza.
“Anche io pensavo di sapere tutto quello che ti passava per la testa. O, per lo meno, quasi tutto.
Evidentemente mi sbagliavo.”
Nelle sue parole non c’era rabbia, non davvero.
Era amareggiata, certo, ma ciò che prevaleva era la tristezza, profonda e disarmante, e un senso di impotenza straziante che le attanagliava il cuore nel petto da quel terribile istante in cui aveva visto materializzarsi davanti a sé, nello stadio del Tenkaichi, il Principe sanguinario e privo di ogni compassione che credeva ormai scomparso, svanito, dopo tutti quegli anni passati a costruire, mattone dopo mattone, l’equilibrio e la serenità che credeva e sperava avessero davvero raggiunto.
Ma si era sbagliata, era evidente.
Forse quella era una matassa davvero troppo ingarbugliata per venirne a capo: si era convinta di aver saldamente afferrato una delle sue estremità tra le mani, mentre invece l’aveva solo sfiorata.
Forse l’ombra del Principe distruttore si era solo sbiadita, dopotutto.
“Non ci girare troppo intorno, Bulma. So di cosa vuoi parlare e, ti prego, fallo ora. Non tiriamola troppo per le lunghe.”
Gli occhi azzurri di lei guizzarono immediatamente indietro a cercare i suoi, che nuovamente non vollero sorreggere il peso di quello sguardo ceruleo.
-Non riesce proprio a guardarmi negli occhi.-
“Io ne voglio parlare?! No Vegeta, mi dispiace, ma qui il tuo proverbiale sesto senso si sbaglia.
Io … io sono esausta, okay? Io non voglio parlarne. Io davvero, davvero non voglio parlarne.
Io sono qui, dopo giorni di letterale inferno e di esplosioni e sangue e morte.
E … e tu sei qui e sei vivo, e Trunks è di sopra e dorme come un ghiro e da domani, per lui, sarà tutto come prima ed è questo che voglio anch’io.
Io voglio svegliarmi accanto a te, sentirti arrivare nel cuore della notte dopo gli allenamenti e sentire il tuo calore. Voglio … voglio urlarti contro per il modo in cui riduci la cucina e perché stanchi troppo Trunks con i tuoi regimi pazzi.
Voglio ridere come una pazza per la faccia che fai quando mia madre ti riempie di complimenti.
E voglio, voglio disperatamente fare l’amore con te e sentirmi di nuovo parte di te e del tuo mondo perché, ora come ora, mi sembra di essere una perfetta estranea per te. Okay?
Ecco ciò che voglio. Io non voglio parlarne.
Ma devo, devo, devo parlarne perché sento … Io sento che se non capisco … Io sento che se non riuscirò a capire il perché è successo quello che è successo, potrei impazzire del tutto.”
Dovette fermarsi a quel punto, perché le lacrime avevano preso a scorrere incontrollate lungo le sue guance di porcellana, che sembrava potessero arrugginirsi da un momento all’altro, e si odiò per questo.
Aveva sempre detestato piangere davanti a lui.
Lei era forte.

“E sentiamo, che dovrei fare io?”
Aveva risposto così, con un mezzo ghigno sul volto, incrinato da un nervosismo impercettibile, alla notizia che quella sciocca terrestre  gli aveva dato pochi istanti prima.
A quanto pare era rimasta incinta, gravida di un moccioso mezzosangue.
Non era difficile intuire come fosse successo: era quasi un anno ormai che, tra alti e bassi, mandavano avanti quella … beh, non sapeva esattamente come definirla.
Non era una relazione, lui non era “legato” in nessun modo a quella donna nevrotica e inferiore.
Era un passatempo, uno sfogo.
Era sesso, puro sesso consumato nel buio e nel silenzio delle loro camere.
Era passione che ardeva e che entrambi non perdevano tempo a far bruciare.
Ma nulla più.
Non significava niente, così come non significava niente quel moccioso di cui a breve avrebbe potuto riconoscere l’aura.
Niente.

“Come sarebbe a dire che dovrei fare? Mi hai sentito bene?!
Ti ho detto che sono incinta e questa è una responsabilità che è anche tua.
E farai bene a prendertela.”
-Questa poi-
Le rise in faccia gelido, glaciale.
Si avvicinò a lei lentamente, fissando l’esile figura nella penombra, rimasta immobile e con i pugni serrati per la rabbia.
Continuò ad avanzare fino a quando non arrivò ad un palmo da lei: erano così vicini che i loro visi quasi si toccavano.
“ Domani partirò per lo spazio per allenarmi.
Diventerò così forte da eliminare Kaaroth con un colpo solo.
Dopodiché, assieme a lui, anche questo insulso pianeta scomparirà e con esso tutti terrestri.
Quindi direi che il moccioso è davvero l’ultimo dei miei affari, Bulma.
Lei si allontanò repentinamente, come bruciata, ma questa volta non dalla passione.
Gli occhi le si stavano riempiendo di lacrime che lei cercava pateticamente di trattenere e la voce prese  tremarle: “Tu sei … Tu sei solo un vile, Vegeta. E un codardo.
Scappi via verso chissà quale anfratto galattico perché non riesci ad affrontare le conseguenze delle tue azioni.
E se ti fa paura un bimbo non ancora nato, allora temo dovrai rivedere il tuo concetto di ‘guerriero imbattibile’, perché, credimi, non lo sei e non lo sarai mai.”
A quel punto le afferrò il colletto della camicetta che indossava e la spinse contro il muro con forza, rivolgendole un ringhio quasi animalesco.
“Tu non capisci niente, stupida donna. Non sai nulla su come o cosa sia un guerriero, né su di me.
Tu non sai niente, non sei niente.
Sei stata solo un trastullo nel mio letto.  Nulla di più.”
Ora le lacrime avevano preso a scorrerle davvero sulle guance.
Lui lasciò la presa e le voltò le spalle, quasi compiaciuto nel vederla piangere.
-E’ quello che si merita-
Aveva giocato con il fuoco e alla fine si era scottata di brutto.
Pensare che lui, in un secondo, avrebbe potuto farla scomparire, con un colpo secco.
Avrebbe potuto togliersela di torno una volta per tutte.
-Perché non lo aveva ancora fatto?-


“Quindi ti prego … solo … perché?”
La sua voce era rotta, spezzata, come fosse attraversata da migliaia di cocci di vetro.
La risposta tardò ad arrivare, ma quando giunse fu chiara e concisa.
“Ero perso.”
Bulma rimase in silenzio, ancora appoggiata alla parete candida del balcone.
Era perso.
Quelle due parole significavano tutto e niente. Per lui erano state una confessione anche fin troppo spinta.
Era perso e lei non se ne era accorta, non era riuscita ad interpretare i suoi silenzi nel modo giusto.
Non aveva capito il perché  tante volte scrutava le stelle quasi a volerle contare tutte.
Non era riuscita a comprendere il suo tremare sotto le sue carezze più leggere.
Lui era perso e lei non era stata in grado di essere la sua stella polare.
Il suono grave della voce del Principe tornò a riempire la stanza, e lei quasi sussultò.
“Prima di arrivare qui sulla Terra, era semplice.
Conoscevo solo la distruzione, e la conoscevo bene. Non potevo perdermi in essa.
Combattevo perché mi piaceva distruggere, perché, in un certo senso, mi faceva sentire “giusto”.
Mi sentivo al mio posto in mezzo alle macerie.
Poi è cambiato tutto: la volontà di distruggere c’era ancora, ma l’ho proiettata completamente su Kaaroth.
Avevo un nuovo obiettivo o forse … beh, forse quello è stato il mio primo vero obiettivo.
Sin da piccolo mi hanno sempre insegnato a raggiungere lo scopo con ogni mezzo: qualunque altro comportamento è simbolo di codardia e debolezza.”
Fece una pausa, mentre Bulma continuava a fissarlo, pendendo dalle sue labbra.
Sapeva che aveva bisogno di tempo per esprimersi, non era abituato a farlo.
Lei lo sapeva, aveva capito.
Poi sono successe tante cose, cose che non avevo previsto.
Sono cambiate molte cose.”
Per la prima volta, quel giorno, alzò gli occhi per guardarla e Bulma poté finalmente perdersi in quelle iridi da lei tanto amate.
“Sono arrivato ad un punto di stop. Sono arrivato a convincermi del fatto che a quell’obiettivo avrei dovuto rinunciare. Io, capisci?
E sebbene in questi anni io … ecco, io … Tu, Trunks …”
Si fermò di nuovo e Bulma lo vide inspirare profondamente.
Aveva capito ancora.
“Quando siamo entrati in contatto con quel mago, il mio spirito sopito si è in qualche modo risvegliato.
Era un’occasione per non lasciare quell’obiettivo in sospeso. Erano la mia occasione e il mio momento.
E’ stato come tornare indietro nel tempo, come ricevere una spinta all’indietro, ma così forte da non poterla evitare. Ero di nuovo solo in mezzo alla distruzione.
In qualche modo, nello scegliere il male non ho avuto scelta.”
A quel punto Bulma si abbandonò contro la parete, con le lacrime che ripresero a scorrere senza freni, senza possibilità di fermarsi, senza volontà di farlo.
-Perché, perché doveva essere andata così?-
“Se vuoi andrò via, anche subito. Sarebbe giusto così.”
-Cosa?-
A Bulma mancò il respiro alla sola idea che gli sfuggisse dalle mani di nuovo e il cuore parve mancare più d’un battito questa volta.
Avvicinandosi di scatto a lui, con la voce intrisa di un terrore e di una disperazione che solo coloro che si erano trovati accanto a lei al Palazzo del Supremo, nel momento in cui Goku aveva dato la terribile notizia della sua scomparsa, urlò:
“Credi che sia questo ciò che voglio? Vegeta, io … io ho creduto di morire quando ho saputo che non c’eri più, io ho sentito letteralmente il mio cuore spezzarsi … di nuovo.”
Vegeta la guardò interrogativo, con lo sguardo velato da una tristezza nuova.
“Vedi, io ero lì.
Ero lì durante quell’esplosione.
Ho sentito il mio mondo sgretolarsi con te.”
I suoi singhiozzi riempivano la stanza, accompagnati dal solo suono del vento che entrava dal balcone ancora spalancato.
“Io non potrei mai volerti lontano da me, mi sembra di morire anche solo quando sei troppo lontano da non poterti toccare.”
Fu a quel punto che lo sentì: quel contatto tanto agognato, tanto sognato, tanto mancato.
L’aveva stretta, come sempre senza darle il tempo di realizzare che si stesse avvicinando, e il suo odore la stava inebriando.
Sentiva le sue braccia forti cingerla, stringerla forte: era lì, era vivo, era con lei.
Lei gli buttò le braccia attorno al collo, aggrappandosi a lui che, nonostante tutto, era la sua ancora.
Nonostante fosse perso, lui non aveva mai smesso di essere la sua di stella polare.
Vegeta le accostò le labbra all’orecchio destro e le poche parole che pronunciò sussurrando rimasero impresse nel cuore e nella mente di Bulma come un marchio a fuoco.
“Quando mi sono trovato faccia a faccia con quel mostro, la scelta l’ho avuta, invece.”
Aveva avuto una scelta.
Aveva scelto loro.
Era lì perché aveva scelto di combattere per loro.
Non li aveva voluti eliminare dalla sua vita, non li aveva considerati debolezze.
Alla fine erano stati la sua forza.

Vegeta non le avrebbe mai detto tutto ciò, non ci sarebbe mai riuscito, sebbene riuscisse a lasciarsi andare molto più rispetto al passato.
Lui era fatto così, e Bulma così lo amava.
Improvvisamente si sentiva più leggera.
“Tu hai visto cose orribili, vissuto cose orribili.
Ma sei sopravvissuto e anche noi sopravvivremo.”
E le loro labbra si toccarono, voraci, affamate le une delle altre.
Era come tornare a respirare, come riaffiorare in superficie dopo un’apnea anche troppo lunga.
Non era passato più di qualche giorno dal loro ultimo bacio, rubato silenziosamente durante l’attesa per il Torneo, eppure così tanto era successo tra loro che più di una vita sembrava trascorsa.
Vegeta assaporò le sue labbra, esplorandole lentamente, diversamente dal solito.
“Bentornato a casa, tesoro.”
Bulma gli sussurrò quelle parole staccandosi appena da lui, per esser poi catturata in nuovo bacio, e in un altro.
Le mani di Vegeta accarezzarono tutta l’esile figura che stringevano, arrivando all’altezza delle sue natiche, dove si fermarono per poterla sollevare.

Ogni volta che la sollevava, stringendola tra le braccia si stupiva di quanto leggera fosse.
Era una piuma che senza remore danzava tra gli artigli del leone.
“Fa’ piano, Trunks si sveglierà.”

Il bambino dormiva nella culla nella stanza accanto, comunicante con quella in cui lui e Bulma si trovavano.
“Dimentichi che è anche mio figlio, non urlerà come un qualunque poppante terrestre solo per qualche colpo dall’altra stanza.”
Prima che lei potesse ribattere, lui la zittì, mordendole leggermente il labbro inferiore e passandole poi la lingua sul contorno della sua bocca rosea.
Erano passati quasi sei mesi da quando la pace era tornata sulla  Terra dopo la sconfitta di Cell.
Sei mesi da quando aveva dovuto salutare quel valoroso giovane venuto dal futuro, che aveva scoperto essere suo figlio e per il quale, per la prima volta in vita sua, aveva provato un sentimento totalmente incondizionato.
Quello stesso figlio che adesso dormiva a pochi metri di distanza da lui e che, ora, non avrebbe mai potuto considerare un errore.
Erano passati sei mesi anche dalla scomparsa di Kaaroth e dalla sua estrema decisione di rinunciare al combattimento, rifiutando, di conseguenza, anche a parte della sua essenza.
Il suo spirito guerriero si era completamente svuotato e, da allora, l’unica guerra in cui si era buttato era quella contro sé stesso, contro il baratro della depressione.
E, per quanto gli costasse ammetterlo, c’era stata nuovamente lei ad aprirgli uno spiraglio.
Lei, quella piccola terrestre forse più testarda anche di lui, che era stata la prima a riuscire a scavare sotto la sua superficie e ad addentrarglisi dentro.
Lei, che gli era entrata irrimediabilmente sottopelle, che si era aggrappata a lui con le unghie e con i denti e che non lo aveva mai lasciato andare, sebbene lui avesse continuato a spingerla via.
E anche ora, lei era così: aggrappata alla sua schiena, mentre lui la penetrava ripetutamente, che gli graffiava le spalle possenti e passava la lingua sul suo collo e succhiando, quasi a volerlo marchiare.
Non avrebbe saputo descrivere davvero come erano andate le cose tra loro o quando quelli che lui, all’inizio, considerava solo trastulli erotici tra gli allenamenti fossero diventati altro.
Eppure era andata così: ora non si considerava solo un ospite di passaggio in casa sua o nel suo letto.
Lei era sua adesso, sua sotto ogni aspetto.
E suo sotto ogni aspetto era anche quel bambino.
-Forse era questo che i terrestri consideravano ‘famiglia’.-
Continuava a spingere, a spingersi in lei, a premere ancora e ancora, fino in fondo.
“Ti amo”.
Ogni volta che lei glielo diceva, Vegeta avvertiva il bisogno istintivo di chiudere gli occhi per sentirlo meglio.
Fino in fondo.


“Ti amo.”
Bulma continuava a ripeterglielo, a sussurrarlo lentamente al suo orecchio mentre lui si spingeva in lei.
Lei cercò ancora le sue labbra, per continuare ad ubriacarsi di esse, e lui gliele concedeva senza esitazione, intrecciando la propria lingua a quella della sua donna.
-Dio, il suo sapore, era il migliore del mondo.-
Era un modo tutto nuovo di fare l’amore per loro.
Era lento, cadenzato, come se entrambi avessero paura di spezzare un equilibrio appena rinato.
Sentì le sue dita ruvide accarezzarle il collo, per scendere poi sui suoi seni morbidi, che bramavano il suo tocco, così come ogni altra parte del suo corpo, e che ritmicamente si muovevano sotto le sue spinte.
Vegeta rimase in silenzio, l’unico suono da lui prodotto era quello sordo dei suoi gemiti mentre affondava nella calda intimità di Bulma.
Ma poi, quando entrambi sentirono di essere arrivati praticamente al limite, il grido acuto che Bulma stava per emettere fu interrotto da quella che, per lei, fu la migliore delle dichiarazioni d’amore che potesse aspettarsi.
“Sono con te.”
E ancora, poteva significare tutto o niente, ma, dette all’orecchio di chi sapeva interpretare, quelle parole erano più preziose di qualunque gemma nell’Universo.
Vennero insieme, vennero ansimando l’uno nella bocca dell’altro e bagnati dalle lacrime che da quegli occhi turchesi si erano liberate ancora, questa volta solo ed unicamente per l’assoluta felicità che l’aveva pervasa.
Era tornata ad essere parte di lui, era di nuovo sua.
“Sei sempre il mio eroe. Lo sarai sempre.”

Non era troppo tardi per loro. Erano sopravvissuti e le loro ferite iniziavano a rimarginarsi.
Avevano attraversato l’inferno, anche letteralmente, per poi ritrovarsi.
Non era stato semplice, ma erano loro ad essere complicati: era la loro natura ed andava bene così.
Si erano spezzati, disfatti, frantumati, anche a vicenda, più e più volte, ma avevano sempre ritrovato la forza per rimettere insieme i pezzi.
Forse era nella loro natura: forse ciascuno di loro due continuava ad essere, a suo modo, un pezzo perduto di un puzzle imperfetto.
Ma erano insieme e, a modo loro, erano perfetti.

Erano salvi, al sicuro.
Erano insieme e andava tutto bene.
  
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