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Autore: callingonsatellites    05/11/2016    0 recensioni
L'aria fresca sulle braccia. Il sole che brucia negli occhi. Le gambe leggermente indolenzite, e una melodia sconosciuta che girava nella sua mente. Poi un forte dolore alla testa. E ora fissava quegli occhi color nocciola, e ogni domanda veniva annullata come se quei due pozzi scuri fossero l'unica cosa importante ed esistente, l'inizio e la fine di tutto.
Genere: Commedia, Romantico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Hey boys & gurls. Incredibile ma vero, siamo arrivati all’EPILOGO DI QUESTA STORIA INFINITA! Dai, ditelo che un po‘ vi dispiace. Perché in fondo a me dispiace un pozzo (?), e non so se sopravviverò senza l’ansia di dover aggiornare You Can Remember. Voi che dite? Che se sono sopravvissuta all’influenza sopravviverò a tutto (questo per dirvi: COPRITEVI CHE FUORI FA FREDDO, NON FATE COME ME CHE MI SONO FATTA DUE GIORNI A LETTO E HO ANCORA IL MAL DI GOLA. Tutto ciò è tragicamente tragico D: )? Speriamo. Adesso me ne vado e vi lascio a leggere :** baci guys :D


Da dieci minuti si sentiva un nitido e fastidioso bussare alla porta. E siccome ovviamente nessuno aveva voglia di alzarsi e andare ad aprire, il rumore continuava.
-Oh, Kim, ti prego. È sempre la moglie del vicino, che viene a lamentarsi perché ieri stavate suonando. Vai a chiedere scusa e chiudila fuori- borbottò Karen, da sotto il cuscino.
-Oppure chiudila fuori direttamente- le fece eco Michael.
Che allegra mattinata.
-Per me può anche continuare a suonare all’infinito… - disse Kim, alzandosi e infilandosi una sorta di vestaglia di spugna rosa sopra il pigiama, composto da un paio di pantaloncini senza arte né parte e una vecchissima maglia die Ramones. - … che tanto non mi sentirà più suonare- concluse, giusto un attimo prima di infilarsi gli occhiali, stamparsi un bel sorriso in faccia e aprire la porta; dietro alla quale comparse la faccia matusalemmica di una signora alta un metro e trenta, che avrebbe potuto avere settant’anni come centoventi, con quella classica espressione da Vecchietta Che Si Lamenta Dei Giovanotti d’Oggi.
-Buongiorno, signora Edwright! Ha dormito bene questa notte?...- chiese Kim, venendo ovviamente interrotta dalla signora.
-Spiegatemi come avrei fatto a dormire! Avete fatto casino fino alle nove e mezza! Ma quando andate a letto voi?! I vostri genitori non vi danno nessuna regola?! Siete una generazione vergognosa. Se avessi fatto io una cosa del genere… ah, non ci sarebbe nemmeno venuto in mente! Voglio parlare con tua madre!
-Signora, ci dispiace tantissim…
-Eh no, cara! Non te la cavi con le solite scuse! La prossima volta chiamo la polizia! E dico sul serio!!- minacciò la vecchietta, agitando l’indice sotto gli occhi della ragazza.
-Le prometto che non succederà più. Così non dovrà chiamare la polizia e potrà dormire tranquilla. Va bene? …
Non attese la risposta, congedò la signora e chiuse la porta. Potrà sembrare parecchio scortese, ma non ci si poteva fare più di tanto: la signora Edwright andava a letto alle otto e mezza, e alle nove pretendeva silenzio assoluto nel raggio di quindici chilometri, altrimenti avrebbe fatto il giro di tutte le case a lamentarsi del rumore. E siccome spesso, come era accaduto la sera prima, Kim si trovava con alcuni ragazzi a suonare qualche canzone nel garage di casa sua, la visita della signora per il giorno dopo era più che assicurata.
Ma non sarebbe più stata un problema. Non per lei e i suoi genitori, almeno: il trolley rosso ciliegia in cui aveva ammassato ciò che riteneva indispensabile alla sua sopravvivenza la attendeva nel bel mezzo del salotto, troneggiando sul tappeto finto persiano fra i cd dei Rolling Stones, che si guardavano in cagnesco con i vinili dei Beatles di sua madre appoggiati sul tavolino di fronte.
Se ve lo state chiedendo, sì, è proprio così: quello stesso giorno, Kim Wendell avrebbe levato le tende da casa. Ma andiamo con ordine.
-Preparo caffé anche per voi?- non c’era nemmeno bisogno di chiedere una cosa del genere.
-Ma certo. Anzi, dovremo iniziare a pensare di alzarci, cara- disse Michael. –A che ora è che parte il tuo aereo?
-Alle dieci e mezza, papà- rispose la figlia, sorridendo mentre tirava fuori un pacco di biscotti al cioccolato.
-Oh, caspita. Allora meglio sbrigarsi.
Cinque minuti dopo, tutti pronti e seduti intorno al tavolo della cucina, i tre si sbirciavano a vicenda da dietro le tazzone di caffelatte.
-Sei sicura che non ti vorranno mandare a quel paese, quando ti vedranno?- chiese, protettivo come sempre il papà.
-Ma và, che dici. Voi uomini non capite un cavolo di queste cose- lo zittì Karen. –Piuttosto … sei riuscita a trovare quelle scarpe stranissime, alla fine?- chiese, masticando un biscotto.
-Per un soffio. Era l’ultimo numero disponibile.
-E credi che gli piaceranno?- intervenne di nuovo Michael.
-Ma chiudi quella bocca! Non te lo ricordi? Certo che gli piaceranno.
-Oh, e va bene! Allora non parlo più.
-Esattamente quello che vorremmo che facessi- sarebbero andati avanti tutta la mattina, non che non si volessero bene anzi si amavano alla follia, ma i suoi genitori erano maghi nel perdere ore a discutere di cose stupide.
-Sono le nove e un quarto, mamma!- avvisò Kim, ripulendosi un baffo di latte.
-Oh cielo- esclamò la madre, scattando in piedi. –Sbrigati tesoro. Ci vuole un’ora per arrivare in aeroporto. Ci conviene uscire.
Michael rispose con un mugugno, trangugiò l’ultimo rimasuglio di latte e si alzò restio, fissando con dispiacere la confezione dei biscotti.
 
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  L’altoparlante comunicò l’imminente partenza del velivolo, in direzione Berlino.
-Uh, tesoro, credo sia il tuo aereo- disse Karen, toccando la spalla alla figlia.
-Sì- fece lei, osservando la scaletta che veniva avvicinata all’entrata dell’aereo per far salire i passeggeri. –è proprio il mio.
-Allora fai buon viaggio- le augurò il padre, sorridendo da dietro gli occhiali. –E mi raccomando.
Kim abbracciò i genitori, e mormorò un –Vi voglio bene- soffuso sulla camicia mal stirata di suo padre. Poi, giusto in tempo per accodarsi alla fila, afferrò la maniglia del trolley e salì a bordo, trattenendo il cappello –che, sì, era lo stesso di due anni prima- dall’aria che tirava. Poi, mandò un bacio ai genitori, e continuò a sventolare la mano dal finestrino finché la pista non divenne una lontana striscia grigio pallido.
Venne riscossa dalla voce gentile di una hostess che le chiedeva se desiderasse un caffè, o qualcosa da mangiare.
-Un caffè lungo- disse, sarebbe stato il secondo quella mattinata e probabilmente le sarebbe costato un costante nervosismo ed una fastidiosa iperattività, ma non aveva voglia di mandarla via. –Lo prendo amaro- aggiunse.
Quando la donna si fu allontanata, tornò a volgere lo sguardo verso il finestrino. Liverpool era diventata un grumo grigio e verde, adesso. Come quando era andata via a sedici anni, e quando era tornata più o meno sei mesi dopo. Si chiese se non avesse dovuto farsi un abbonamento a vita, per quel benedettissimo volo.
 
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Atterrarono,  ora più ora meno, verso mezzogiorno. Il sole picchiava abbastanza forte, ma, come c’era da aspettarsi, non faceva per niente caldo. Prese i suoi bagagli dal nastro trasportatore, il trolley rosso ciliegia e la custodia del basso. Sorrise ricordandosi la sorpresa di trovarlo fra le valigie della sua famiglia, all’atterraggio in Gran Bretagna più o meno tre anni prima. Georg era un ragazzo maledettamente sveglio, lei non ci aveva minimamente pensato: d’altronde meno male, altrimenti avrebbe dovuto prenderne uno nuovo. Si divertiva seriamente a strimpellare, e le veniva piuttosto bene: avrebbe potuto offrirsi come bassista a qualche band del luogo. Oppure sperare che il caro Listing si rompesse un dito e fargli da sostituta in qualche concerto.
Uscì dalla struttura fischiettando, e all’uscita venne investita da una folata di vento che le portò via il cappello.
-Argh! Diamine … - si lamentò, correndo dietro al copricapo, che sventolava allegro nell’aria fredda.
All’improvviso comparve una mano da dietro un angolo, che lo afferrò al volo. –Preso!
Kim si fermò sul marciapiede, e attese che il proprietario della mano si facesse vedere: infatti, non dovette aspettare troppo per veder spuntare un ragazzo alto e smilzo, con una zazzera di capelli color amarena e una maglia con su scritto “English Is Better”.
-Incredibile, mi calza ancora a pennello. Sai che potrei reclamarlo?- disse, in perfetto inglese londinese, ballonzolando con la sua camminata stilosa verso la ragazza, che, lentamente cercava di scannerizzare chi avesse davanti.
-Uh- fece, quando lui fu abbastanza vicino. –Miles? Possibile?
-Possibile che sia io? Certo, io sono ovunque- disse lui, sistemandosi i ciuffetti rosa sotto il cappello.
-No, possibile che ti sia tinto di … fucsia? E questo è mio. Compratene un altro- aggiunse, riprendendosi il cappello.
-Ehi!- protestò il ragazzo, ma senza successo. –Comunque sì. E Albert ha detto che non mi vorrà più vedere finché non sarò tornato di un colore normale.
-Ma quindi … i ragazzi sono ancora tutti lì? Schweit, Fried …
-Buh, ovvio- borbottò, grattandosi la testa. –Anche se ora siamo maggiorenni patentati e con un lavoro, non significa che non possiamo cazzeggiare in un vicolo- disse, come se fosse un concetto elementare scritto in qualche pagina di Wikipedia.
-Beh, giusto. Magari più tardi li passo a salutare. Piuttosto … non è che sapresti indicarm-
-Ah! Ti piacerebbe che non fossimo venuti anche noi? E ci avresti lasciati come ultimi nella tua lista degli impegni. Che pessima amica- la interruppe un nano biondo, spuntato da dietro un albero mezzo secco in parte alla strada.
-Oh. Ma spiegatemi, perché lui ha cambiato colore e tu no?- chiese Kim, additando la capigliatura biondiccia di Schweit.
-Scusa, perché lui si colora una volta al mese io devo cambiare tinta? Non capisco i tuoi ragionamenti! Piuttosto, carino il verde lime. Ti dona- rispose il biondo, imitando con scarsi risultati la voce di una ragazza.
Kim sorrise, arrotolandosi una ciocca verde su un dito. Nel frattempo altri due ragazzi erano spuntati dal nulla cosmico, commentando il sole incredibile che c’era quel giorno.
-Kim, spiegagli che la luce solare è sempre la stessa, la differenza sta nel fatto che lui vive segregato nel suo antro e quindi non la vede mai- disse uno dei due, identificabile come un Cristoph molto, molto cresciuto, indicando un Fried che non era cambiato un cavolo, fosse per la peluria da capretta sotto il mento.
-Hai mangiato lievito, Cris?- chiese Kim.
-No, è diverso, è Ad che ha mangiato concime, gli è cresciuta l’erba in faccia- disse lui, prendendo in giro il moretto in parte a lui, che però non arrivava nemmeno a dargli una pacca sulla nuca da quanto l’altro fosse alto.
-Mi siete mancati, ragazzi- disse Kim, ridendo.
-Lo sappiamo benissimo, è ovvio che ti siamo mancati. Come ti manca un passaggio per arrivare a casa del tuo fidanzato, o sbaglio?- fece Fried, ancora appeso alla spalla di Cristoph, tentando di tirargli uno scappellotto.
-Rinfresco la mia teoria nel dire che sei un piccolo genio, Wanda. Non ditemi che avete ancora una di quelle cose malefiche che …
Troppo tardi, la sua frase venne interrotta dal movimento fluido con cui il gruppo si divise, mostrando non due, ma ben tre Vespe scassate, parcheggiate in grande stile sul marciapiede.
 
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-Ok, d’ora in poi lavorerò come una scema per comprarmi una macchina decente, poi mi incollerò al sedile per non essere costretta a farmi dare di nuovo un passaggio da voi- dichiarò Kim, con tanto di indice alzato, quando –per miracolo- riuscì a scendere dalla cosa infernale che l’aveva portata per mezza Berlino fino al parcheggio dell’enorme palazzo, completamente in cemento e vetro dove era diretta.
-Oh, fa come ti pare … io continuo a fidarmi di Meredith più di mia madre- disse Miles, tirando una pacca al fanalino della Vespa, che se non si era già staccato era solo per grazia di Dio.
-Ti stai chiedendo come facevamo a sapere dove abitavano i gemelli, vero?- chiese Fried, cambiando discorso.
… e qui arriva la parte in cui vi svelo il piano malefico: nella sua piccola testolina di genio del male, Kim aveva già progettato, tre anni prima, quando aveva saputo che sarebbero andati via da Magdeburgo, ciò che avrebbe fatto: avrebbe atteso i vent’anni anni, quindi la maggiore età e anche un po’ di più, poi avrebbe affittato un appartamento a Berlino, e sarebbe tornata in Germania di soppiatto. Aveva studiato indirizzandosi al management, e lì c’era un’università abbastanza buona per diventare manager o economista o qualcosa del genere, i suoi l’avrebbero aiutata a pagare gli studi e l’affitto e avrebbe trovato qualche lavoretto del cavolo, giusto per non campare sulle spalle dei suoi; e in questo modo si garantiva una sopravvivenza. Ma la parte importante del piano malefico, quella che ci interessa è quella che riguarda il dove.
Infatti il compito affidato ai baldi giovanotti di Magdeburgo era di tenere costantemente sott’occhio la band, i gemelli in particolare, Bill in particolare ancora più particolare. Non solo per tenere informata ventiquattr’ore su ventiquattro la ragazza, che si rodeva dentro ogni giorno dal nervoso di essere così dannatamente lontana da lui, e a cui non sarebbero bastati tutti i messaggi e le chiamate del mondo, in più era un po’ che i ragazzi non si facevano sentire. Maledette interviste e concerti e album da promuovere e canzoni da scrivere e tutto il resto. Ma stiamo tragiversando: ciò che dovevano assolutamente sapere i ragazzi era Dove Sarebbero Andati a Vivere i Gemelli Kaulitz (Una Volta Lasciata La Magione Materna). Perché sì, nonostante la cifra stratosferica e tutto il resto, Kim avevrebbe affittato proprio  quello accanto. *
E questo è il piano diabolico. Cosa sarebbe successo dopo, era un mistero. Intanto è bene essere arrivati fin qui, no?
-Stupiscimi con il tuo racconto!
-Ringrazia Melanie, per questo … se c’è qualcuno bravo a sembrare una fan esageratamente innamorata e scassa scatole, disposta a tutto per pedinare costantemente la sua band preferita, è di lei che stiamo parlando. Che poi le è riuscito ancora più facile, perché i Tokio Hotel le piacciono sul serio, ed è seriamente innamorata persa del tizio con le treccine … com’è che si chiama?
-Tom?!- a Kim era caduta la mascella per terra. Aveva visto migliaia di foto del chitarrista piene di cuoricini e milioni di ragazze che dichiaravano al mondo il loro amore per quest’ultimo, ma ogni volta, ogni santa volta, non poteva fare a meno di ricordarsi di lui, alla festa dopo il concerto, ubriaco marcio, che corteggiava un vaso cinese posto sulla mensola del camino come se fosse una bella ragazza. E se non ve l’avevo raccontato prima, era solo per conservare la sua già scadente decenza reputazionale.  
-Ma aspetta, Melanie è quella con le lentiggini finte grosse come palle degli occhi e i capelli tinti a metà di due colori diversi?- chiese dopo averci riflettuto un po’.
-Esatto, proprio lei- le rispose Cristoph, lasciandosi scappare un sospiro sognante. –Sapessi come disegna bene le farfalle? Le ho chiesto di fare un paesaggio che ricordasse il Paese delle Meraviglie di Lewis Carrol una volta, e … ah, che meraviglia, che meraviglia!- iniziò a straparlare, senza troppe intenzioni di fermarsi.
-Siete matti tutti e tre, sia tu, che lei che il tizio che l’ha inventato. Per quello c’è questo feeling tra voi- commentò Miles, mentre si esaminava un ciuffo amarena.
-E tu sei frocio, per quello- rispose acido Cris.
-E allora?!- sbottò isterico l’inglese. –Ti cambia la vita?! Smettila di usare quella parola come un insulto! Che poi non sono gay. Sono stiloso. È diverso. Sai quanti gay vedo che si vestono come i barboni e quanti etero tirati a lucido manco fossimo alla corte della regina? Tu hai troppi stereotipi.
-E tu troppe paranoie- avrebbero potuto continuare così tutto il giorno.
-Proprio tu, l’artista, dovresti sostenermi! E invece …
-Certo che non siete cambiati per nulla, eh?- commentò Kim.
-Giusto, dimostriamo alla nostra amica qui presente che siamo degli adulti maturi e intelligenti- intervenne Fried, iniziando a spingerli uno lontano dall’altro, e intimando loro di tornare sulla propria Vespa. –E leviamoci di torno, che credo abbia da fare- concluse, mettendo in moto e facendole l’occhiolino.
Lei alzò una mano in cenno di saluto, tanto se avesse detto qualcosa non l’avrebbe sentita perché quei catorci facevano troppo casino. Li guardò allontanarsi, con Cris e Miles ancora che se ne dicevano su.
-Ah- sospirò, una volta che furono spariti dietro la strada, girandosi verso l’entrata del condominio. –Bene, credo sia meglio portare dentro la roba.
 
# *So che è alquanto inverosimile. Ma capitemiiii, dovevo fare un po’ di scena. E poi tutti sappiamo che in fondo tutti gli inglesi sono pieni di money u.u (su, su, credeteci con me) … abbiate pietà di me, sono una fangirl esaurita <:D
 
Spinse la pesante porta di vetro della reception –perché ovviamente quel posto aveva pure la reception-, e si trovò sotto un’ondata di luci bianche a led. Semi-accecata, raggiunse il bancone, e si rivolse alla signora:
-Salve, sono Kim Wendell … ho affittato la stanza numero 21.
-Uh- mugugnò quella, voltandosi e spiandola da sotto gli occhiali. –Mgh, certo, ecco le sue chiavi- le allungò un portachiavi di metallo argentato, con appese un paio di chiavi identiche. –Buon soggiorno.
Kim biascicò un ‘grazie’ mentre trascinava la sua roba su per le scale.
-Guardi che se vuole c’è l’ascensore.
-Uhm, no, grazie. Vado per le scale- a dire il vero voleva allungare il tragitto il più possibile, non vedeva l’ora di trovarsi in cima, non aveva idea di chi o cosa avrebbe trovato lì, se avrebbe incrociato uno dei ragazzi, non aveva avvisato proprio nessuno, a parte i ragazzi di Mag, che sarebbe tornata quel giorno, quindi sarebbe stata una sorpresa enorme per tutti. Non vedeva l’ora di rivedere Bill in faccia. Di toccarlo, sentire il suo profumo, guardare il suo sorriso da sogno, baciare di nuovo quelle labbra che aveva toccato solo una volta. Non serve stare ad elencare tutte le volte in cui si era ritrovata, la mattina, a sbavare sul cuscino a causa di quelle grosse e piene labbra rosee.
-Argh. Quante cavolo di rampe ci sono ancora?-si chiese, alzando il basso un attimo prima che sbattesse contro uno scalino.
-Non so se avere più paura per quella valigia o per quel povero strumento, sappi che ogni pacca che prende è come una coltellata per il mio povero cuore, dentigialli- la canzonò una voce dietro di lei.
‘Oh Mio Dio. Non ci credo’ pensò, girandosi –molto lentamente, altrimenti avrebbe fatto un bel ruzzolone giù per le scale.
-Tom?
Il ragazzone moro con le treccine e i jeans pari a un paio di tende cucite insieme la fissava divertito da una rampa di scale più in basso. Era abbastanza difficile da riconoscere, insomma, erano passati tre anni abbondanti: ma l’espressione da pesce lesso era unica e inconfondibile.
-Non corri ad abbracciarmi?- chiese lui, spalancando le braccia con le maniche della giacca che pendevano come ali da pipistrello  e un gran sorriso ebete che ornava la faccia abbronzata.
-Primo: come cavolo hai fatto a riconoscermi?- chiese lei, alzando un indice, quando ebbe finito di boccheggiare per la sorpresa. Tom rimase un attimo interdetto, poi abbassò le braccia.
-Beh, diciamo che, mentre ero per strada, ho visto scorrazzare una tipa con i capelli verdi (che ricordo dall’ultima volta che hai chiamato mio fratello via Skype) insieme ad un branco di tizi urlanti su una Vespa scassata senza casco (scena che sappi che non dimenticherò facilmente), poi ho visto che tenevi stretta una custodia bianca da basso come quella che avevi nel salotto a Mag, poi ho collegato il fatto che quei tizi mi stessero palesemente stalkerando per mezzo della loro amica fan girl con i capelli di due colori diversi e … - tacque un attimo, contanto più di una volta gli “indizi” che aveva raccolto sulle dita. –E basta, il resto non me lo ricordo. E poi, beh, la tua grazia è inconfondibile, dentigialli- fece, alzando le spalle.
Lei rimase letteralmente a bocca aperta dal monologo d’intelligenza che le aveva appena fatto Tom. Che fosse diventato un ragzzo sveglio? … -Complimenti, Tom! Mi hai stupito, sul serio. Ma serio serio.
-Bene. Ora mi abbracci?- chiese di nuovo lui, ri-spalancando le braccia. 
-No, altrimenti cade giù tutto. Piuttosto, mi aiuteresti a portare questa roba all’appartamente 21? Poi, se fai il bravo, ti abbraccio.
Il chitarrista obbedì mugugnando, e insieme si avviarono su per le scale. –Ma l’affitto lo paghi di tasca tua?
-Mamma e papà mi danno una mano.
-Oh. Capisco … tanto non credo che dovrai preoccuparti di questo. Non appena Bill ti vedrà, sarà disposto a comprare l’intero palazzo per garantirti un posto dove stare il più possibile vicino a lui- sghignazzò Tom, d’altronde aveva ragione. Bill aveva il cuore grande, e le tasche grandi almeno quanto il cuore, ci si sarebbe dovuto aspettare da lui una cosa del genere. Ma Kim non era così meschina da chiedergli di pagarle il posto dove stare. Un po’ di orgoglio british ce l’aveva, in fondo in fondo.
-Non glielo dirai, vero?- chiese Kim.
-Che sei qui?
-Esatto.
-Beh, lui è in casa in questo momento, e stiamo facendo talmente tanto casino che sono sicuro, lo scoprirà da solo- borbottò Tom.
A Kim vennero i sudori freddi a immaginare una possibilità del genere. Davvero non riusciva a farsi entrare in testa che, Cavolo, stava per rivederlo. E se avesse voluto mandarla a quel paese? E se avesse avuto un’altra ragazza?
-Tom?
-Sì?
-Bill è sempre stato single?- si sentì incredibilmente oca a fare una domanda del genere. Agitazione delll’ultimo momento, si giustificò.
Difatti Tom scoppiò in una grassa risata.
-Perché, gelosa?
-Dai, porco quarantaquattro, rispondimi!
-Heee heeee … Kim è gelosa.
-Tom. Guarda che chiamo Melanie.
-Melanie? Oh. Ok. No, nessuna ragazza. Non credo che a Bill piacciano le ragazze.
Kim lo guardò stranita e tremendamente perplessa.
-A parte te, ugh, ovvio. Era per dire … insomma, tu non sei il tipo di ragazza a cui si pensa quando si dice ‘ragazza’- disse, dando enfasi alle sue parole con un’epressione stramba da filosofo fallito. -Una ragazza normale non gli piacerebbe. Credo che se ti dovesse tradire lo farebbe con un ragazzo.
-Ah. Ma non lo ha mai fatto. Vero?
-E che ne so? Non sto mica nelle mutande di mio fratello, io!- protestò Tom.
-Però certe teorie dicono di sì, tesoro- lo prese in giro lei, con un sorrisino malizioso.
-NO! Non iniziare a parlare di twincest, o come si chiama. È la peggio cosa che uno dei nostri fan potesse mai pensare!- frignò l’altro.
-SHHHHHH, cavolo, non urlare- gli tirò una pacca sulla schiena.
Che poi, che conversazione stupida. A meno che non avesse bevuto un concentrato di cattiveria, Bill non sarebbe mai stato capace di trovarsi un’altra persona. Non era così meschino. Anche se in una cosa Tom aveva ragione, il moro non era il tipo da ragazza. Scosse la testa, scacciando pensieri poco consoni da fan girl arrapata all’ultimo stadio.
-Ok, dovremmo essere arrivati …
Spuntarono da dietro l’angolo della parete della tromba delle scale, e si ritrovarono in un piccolo corridoio su cui si affacciavano tre porte diverse: i numeri incisi sulle targhette erano 19, 20 e 21.
Kim si avvicinò alla terza, quella con il numero 21. –Questa dovrebbe essere la mia- inserì la chiave, e la girò nella toppa un paio di volte, facendo scattare la porta. –Uh, ottimo. Allora tu aspettami qua, che porto la ro…
-Ah, Tom, sei qua, proprio te cercavo, senti, non è che per cas… hey, lei chi…
-SHHHHHHHH!!!!- il chitarrista si lanciò addosso a Georg, uscito in quel preciso istante dalla porta numero 19 assieme ad una diffusa melodia grunge, mentre Kim volò a chiudere la porta prima da cui era venuto che potesse uscire qualcun altro.
-Georg? Hey, Georg … - chiamò, infatti, una voce da dentro. –Tutto ok?
-Dì che è tutto ok e che scendi un attimo- gli ordinò Tom sottovoce, con il viso paonazzo.
-Uhm, sì, tranquillo Bill, guarda, scendo un secondo a vedere se tuo fratello è per strada … torno subito- recitò, fissando interrogativo il chitarrista, che nel frattempo sbirciava dentro il buco della serratura per controllare che il fratello non stesse uscendo, tenendo chiuso lo spioncino con le dita.
Quando furono sicuri che non stesse arrivando nessuno, trascinarono il povero bassista che nel frattempo non aveva ancora capito niente all’interno dell’appartamento 21.
-Cos’è, un tentativo di rapimento?- chiese quest’ultimo, quando Kim ebbe chiuso la porta.
-Certo, da parte di due persone che conosci- disse Tom, passandosi una mano sul viso e sospirando.
-Beh, io ti conosco, ma lei non ho idea di chi sia- gli fece presente Georg, indicando Kim, che era girata di schiena, intenta a fissare oltre lo spioncino.
-Oh, Cristo salvatore. Denti gialli, facci la cortesia di girarti e toglierti gli occhiali, che poi … quando cavolo è successo che hai messo gli occhiali?- borbottò Tom, mentre Kim si girava e toglieva gli occhiali, a Georg si spalancavano gli occhi e cadevano le braccia, entrambi sorridevano come bacucchi e correvano ad abbracciarsi in stile Bay Watch.
-Hey … denti gialli … mi hai sentito?
-Uh, hem, certo, sì- disse lei, ricomponendosi.
-Beh … mi spiegate adesso? Com’è che compari così tutto d’un tratto?- iniziò a chiedere il moro, senza smettere di sorridere euforico.
-Giusto, bella domanda, alla fine non l’ho capito nemmeno io. Racconta, su, su.
-Il mio piano malefico non ve lo spiegherò mai- disse lei. –Vi basti sapere che, finché avrò soldi per pagarmelo, questo appartamento è mio e non mi smuoverò più dalla Germania. Credo.
I due compari si scambiarono uno sguardo perplesso, e poi chiesero all’unisono, rivolti a Kim:
-Ma proprio mai più?
-Ma proprio mai più- confermò lei, lasciandosi andare ad un bel sorrisone beato e spalancando le braccia, inspirando a pieni polmoni quell’aria che, sebbene avesse respirato per poco tempo rispetto ai suoi diciannove anni di puro smog inglese, le era mancata tanto.
 
#
 
-Secondo me inizia a insospettirsi- borbottò Georg, aspirando gli ultimi rimasugli di milkshake dal fondo del bicchiere con la cannuccia.
-No, più che altro avrà paura di essere finito al centro di una cospirazione e che tutti noi siamo tenuti sotto tiro da criminali svevo-russi che mirano a rapirlo usando noi come mezzi per attirarlo in trappola- ribatté Tom, mimando con le braccia il gesto di mirare con un fucile.
-O molto più semplicemente si chiederà perché oggi tutti lo evitano, e tu devi guardare meno telefilm- disse invece Kim, controllando l’ora sul display del cellulare. –E basta far casino con quella cannuccia!- sibilò, fulminando il bassista con un’occhiataccia.
-Insomma, Georg! Datti una regolata, siamo in presenza di una signorina- lo redarguì Tom.
-Disse Lo Hobbit- mormorò Georg acido; parole sottolineate dal chitarrista che tirò un bel rutto da concerto.
-Ma dove si è perso Gustav?!- si chiese Kim, scrutando fra le facce dei clienti seduti all’interno del bar in cui si erano rifugiati. Stare nella stanza 21, così vicini all’obbiettivo Porcospino, era troppo pericoloso per la loro missione. Sì, perché quella era una missione segreta e molto importante, e avevano deciso pure degli accurati nomi in codice (Porcospino non si addiceva più di tanto alla super-leccata di mucca nero lucido che aveva adottato il cantante in quel momento abbandonando la cara capigliatura alla Goku, ma l’avevano comunque stabilito all’unanimità, in memoria dei vecchi tempi).
-Aspettate, vado a controllare al banco delle ciambelle- fece Tom, alzandosi con un sospiro affaticato.
-Ugh, no, fermo, eccolo là- disse Georg, strattonandolo giù.
Difatti, il batterista comparve poco dopo, con tre krapfen grandi quanto un emisfero cerebrale in ogni mano, guardandosi le spalle ogni tanto mentre camminava in direzione del tavolo 7, dove erano seduti i tre.
-Pellicano, muovi il tuo culo grosso e poggialo sulla benedetta sedia prima di domani, per favore- ringhiò Tom, facendo finta di parlare al walkie-talkie e trascinado il povero biondo al suo posto.
-Aspetta, spiegami perché ‘Pellicano’- disse subito Gustav.
-E’ il tuo nome in codice, agente. Siamo in missione, e non devi sgarrare- lo minacciò il chitarrista. –Adesso ascolta bene.
-Aspetta … e tu chi saresti? No, un attimo … oh, mio Dio! Non ci posso credere!- si aggiustò gli occhiali, sbattendo le ciglia dalla sorpresa. –Wendell? La dentigialli? Quando sei arrivata?
Kim fece per rispondere, ma venne interrotta da un Georg fin troppo frettoloso. –Giusto questa mattina. Adesso chiudi la bocca e apri le orecchie.    
-Allora- incominciò Tom, allargando le mani sul tavolo fra i tre, e guizzando con lo sguardo da uno all’altro. –La questione è molto semplice. Dobbiamo tenere all’oscuro mio fratello.
-Perché?- lo interruppe immediatamente il biondo, masticando il primo krapfen.
-Perché che sorpresa sarebbe altrimenti?!
-Ma aspetta, non ho capito. Perché lei è qua di preciso?
-Aaaaargh- sospirò Tom, sbattendosi una mano in fronte. –Smettila di fare domande con ovvie risposte. Si è trasferita a Berlino, nella stanza vicino alla nostra, Bill non lo sa e non deve saperlo. Deve essere una sorpresa.
-Aaah, ok. Ho capito. Quindi siamo tipo wedding-planner, in questo momento. Solo che al posto di un matrimonio dobbiamo organizzare un ri-incontro romantico. Uh, chiaro- borbottò, con la bocca piena di quello che era già il secondo krapfen.
-Oh, alleluia, ci sei arrivato. Bene. Ora la questione è … dove? Come? Quando?- elencò Tom, sollevando un dito alla volta.
-Ma scusa … dobbiamo per forza? Insomma, non possiamo chiamarlo tipo qui e adesso, andarcene e lasciare che si arrangino loro due?- chiese ovvio il batterista, indicando Kim che nel frattempo era diventata color ciliegia matura.
-Uhm- mugugnò Tom. –In effetti non era una soluzione che avevo considerato.
-Ma io non voglio!- strillò Kim in preda al panico. –Cioè, sì, voglio, ma ho paura. Sono agitata. E-mo-zio-na-ta. Troppo. Capisci?!?!- farfugliò, muovendo le mani a caso. –Non. Abbandonatemi. Per favore- aggiunse sottovoce, appendendosi al braccio di Georg, che in tutto questo tran-tran era rimasto fermo al suo milkshake finito.
-Oook, ook. Lasciate fare al maestro del romanticismo. Tranquilla baby, me ne occupo io- affermò, sbattendo il bicchiere sul tavolo con grande aria da boss.
-NO! Non permettetegli di prendere il telefono!!- ululò il chitarrista, già pronto a lanciarsi su di lui brandendo una qualche spada immaginaria.
-N … non intendevo chiamarlo. Aspetta un attimo. Non hai capito un tubo- scandì Georg, alzando le mani. –Ascoltate, il mio piano è estremamente semplice.
 
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Due ore dopo, erano tutti e quattro riuniti sotto l’ingresso del ristorante cinese poco lontano dall’appartamento dei gemelli: un gruppetto decisamente agitato e messo a lustro, che attirava non poco l’attenzione di chi passava di lì.
Tom, che per l’occasione si era messo una camicia della sua taglia e pure delle scarpe nuove, diede le ultime disposizioni ad un Georg che non faceva altro che controllare l’orologio ogni tre millisecondi, un Gustav che spiava di continuo avanti, indietro, a destra e a sinistra dando l’effetto di uno struzzo con problemi cervicali, e ad una povera Kim andata in iperventilazione già da un pezzo che stava morendo lentamente sopra un paio di tacchi troppo alti.
-Allora, ripetiamo per l’ultima volta. L’appuntamento è esattamente qui, alle otto. Sappiamo che ritarderà di almeno dieci minuti. Quando arriverà, Kim sarai al tavolo, ben infossato in fondo al locale che ho già prenotato. Fin qui ci siete?
-Ma sei sicuro che gli piaccia il cinese?- chiese Gustav, alzando un dito e sporgendosi verso sinistra.
-Cristo, Gus, lo conosci solo da dieci anni ben che abbondanti. Sì, gli piace il cinese, a anche il giapponese, ma il cinese di più. E smettila di fissare quel bambino prima che la madre ti faccia causa!- sibilò Tom tirandogli una leggera pacca sulla nuca.
-E sei sicuro che sia il caso di farli rintanare in quel buco angusto?- intervenne il bassista.
-Non è un ‘buco angusto’, è un tavolo appartato. È diverso.
-Ma ci sono le foglie della pianta che impediscono di vedere chi si ha di fronte.
-INSOMMA! Ho rimorchiato mezza Germania con questo sistema, andrà benissimo anche per loro due. Posso andare avanti?- proseguì senza attendere la risposta. –Quando arriverà, gli diremo di andare al tavolo 42, quello che “abbiamo prenotato”, mentre noi siamo fuori ad aspettare Karina e sua sorella, che “avranno avvisato” di “avere un contrattempo”. Chiaro?
I tre annuirono.
-Bene. Poi il tutto è molto semplice. Ci assicuriamo che non vada a pescare la ragazza sbagliata al tavolo sbagliato, e ci piazziamo dalla parte opposta al ristorante; dove comunque potremmo avere una visione del quadretto.
-E se decido che dovete levarvi di torno … - mormorò Kim, fissando Tom da dietro le lenti a contatto che avevano sostituito la montatura grossa, nera e decisamente poco elegante che era solita portare da poco a quella parte.
-Appoggi le tre dita della mano destra sulla guancia, verso di noi. Chiaro?
-Cristallino.
-Recepito.
-Aaaargh …
Erano le otto meno cinque.
-Coraggio, soldato Wendell- la incoraggiò il buon Georg, dandole una pacca sulla spalla. –Vai alla tua postazione!
-Andrà tutto bene, vedrai- aggiunse sottovoce, prima di spedirla nell’intrigo di pareti rosse e lanterne gialle, sola e in balia dell’emozione e del vestito troppo stretto, alla ricerca del tavolo 42.
 
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Bill voleva un applauso. Come minimo: era riuscito a farsi la doccia, sistemarsi i capelli, truccarsi e non infilzarsi con un orecchino in meno di trenta minuti. Per non parlare della rapidità con cui aveva scelto l’outfit: meno di dieci minuti. Ed era pure riuscito a scendere velocemente le scale senza fare un capitombolo con gli stivali a tacco alto, ma ormai quella era diventata un’arte. Avrebbe battuto Bolt sui cento metri, con i tacchi.
Adesso si trovava sul bordo della strada, dalla parte opposta rispetto al ristorante. Poteva vedere da lontano Gustav che gli faceva ‘ciao’ con la mano, mentre nell’altra teneva un cartoccio un po’ unto semivuoto. Non aveva voglia di sapere cosa fosse.
Aspettò che passassero un altro paio di auto, poi sgambettò a tutta velocità verso i tre.
-Allora? Sono in anticipo?- chiese, tutto trafelato.
-Rispetto ai tuoi tempi, sicuramente sì. Ben due minuti rispetto alla tempistica stimata- affermò Georg, controllando un orologio grosso e dorato che non ricordava di aver mai visto. –Complimenti, Kaulitz. Mi hai sorpreso.
-Abbiamo prenotato al numero 42. Tu vai, così evitiamo che quale dentig- uhm, muso giallo ce lo freghi. Noi stiamo qua ad aspettare Karina e Anne, hanno avuto un problemino con la macchina e arriveranno tra una decina di minuti- spiegò Tom, evasivo, facendo scorrere lo sguardo qua e là sui passanti. Bill rimase un attimo fermo lì, cercando di seguire gli occhi del fratello, ma poi venne spintonato dentro dalle mani unticcie di Gustav; che Dio, no, il suo povero cappotto Versace nuovo! …
-E muoviti!
Non appena varcò la soglia, venne investito da un’onda calda di odore di fritto. All’inizio era un po’ stomachevole, ma poi ci si abituava e diventava quasi piacevole. Almeno, a lui piaceva l’odore del cinese. Sapeva di caldo.
-Uhm, mi scusi … cerco il numero 42- chiese ad una cameriera di passaggio, che dovette alzare quasi all’indietro la testa per guardarlo in faccia.
-Qualantadue? In fondo a destla, vicino alle vetlate- rispose lei, marcando il suo bell’accento cinese, l’indice teso verso un punto indefinito vicino ad una finestra.
-Uh. Grazie- si avviò in quella direzione, anche se lì c’erano solo pochi tavoli da due. Si aspettava che avessero richiesto una tavolata almeno da quattro persone, insomma, non aveva voglia di mangiare solo con suo fratello mentre Georg e Karina facevano i piccioncini al tavolo accanto. Lo faceva sentire tremendamente solo.
Ad un certo punto si fermò, esaminando i numeri dei tavoli.
-Umm … 39 … 40 … 41 … - girò di centottanta gradi, compiendo un perfetto angolo piatto ruotando sulla punta degli stivali e provocando un soffuso scampanellìo con i vari gingilli che aveva addosso. I suoi occhioni immensamente nocciola e perfettamente contornati di nero si fermarono esattamente sul cartellino giallo, posto sul tavolo esattamente di fronte a lui, che recava in una scrittura elegante il numero … -42.
Restò un attimo perplesso, perché in effetti quello contrassegnato era un tavolo da due, ed era anche mezzo coperto dalle foglie pendenti di una pianta fin troppo verde. Stava per girarsi verso un cameriere per chiedere se non ci fosse stato un errore, quando …
-Eeetcìì!- ma … si stava ancora sognando o aveva ascoltato troppi dischi dei Nirvana consecutivamente? La pianta aveva starnutito? No, un attimo, erano due piante diverse. Cioè, sotto una prima grande pianta ce n’era un’altra, più verde. Verde lime?
Quella che gli era sembrata una pianta, ma che invece a quanto pare era una testa, una testa di ragazza, si alzò puntandogli due grandi occhi verdi e terrorizzati addosso. –Uh? Cosa? TU? AH! NO! U … un attimo! Io … sei già qui?! Cosa … aargh. No, mi sono sbagliata. Non è possibile. Dove diavolo è Tom quando serve?! … - quella cosa stava iniziando a strillare, e lui non aveva ancora capito cosa stava succedendo.
Anche se …
Oh. Un attimo.
-P … perché mi fissi in quel modo?- biascicò la ragazza, scrutando l’espressione di assoluta sorpresa che si era dipinta sul viso perfetto del ragazzo.
-Io … tu … - strinse gli occhi riducendoli a due fessure, mentre mormorava parole senza senso.
-B … Bill … sei un po’ inquietante- fece la ragazza.
-KIMMY!- urlò un secondo esatto dopo, spalancando gli occhioni e facendo sussultare mezzo ristorante, compresi i tre compari che nel frattempo si erano piazzati dietro il tavolo con i biscotti della fortuna, e stavano prendendo un colpo di cuore dietro l’altro a seguire la scena.
Lei non fece in tempo a replicare che subito venne stritolata in un abbraccio, di una forza che non ci si sarebbe potuti aspettare da uno magrolino come Bill, un abbraccio fatto di gel e capelli verdi, eyeleiner e tacchi altissimi, puzza di fritto e odore di piante e di notte. Dopo un attimo di confusione, anche Kim gli cinse le spalle con le braccia, ricambiando la stretta: quanto aveva desiederato farlo. Tre lunghissimi anni, in cui ogni volta che abbracciava qualcuno, sentiva quasi l’esigenza che quella persona si trasformasse nel moro. Nel ragazzo a cui pensava per ultimo prima di dormire, che ricompariva come un tatuaggio indelebile sulle sue palpebre e un film permanente nei suoi sogni.
E a proposito di sogni. Durante quei tre anni abbondanti, dopo quel bacio che non aveva mai, mai dimenticato, erano comparse tante di quelle cose: le bastava chiudere gli occhi per veder riaffiorare un ricordo che non aveva. Una cena in un ristorante parigino. Un passante che si offriva di far loro una foto sotto la Torre. Un gelato che sapeva di lamponi freschi. Una parola storpiata in francese, un attimo di panico in cui lui non si ricordava come si diceva quella determinata cosa in inglese. Parlavano sempre in inglese, lui lo parlava quasi meglio di lei. Ma ogni tanto, si ricordava, ora, finalmente, persi a guardarsi negli occhi, facevano entrambi un tale casotto con quelle dannate parole che avrebbero voluto prendere tutti i dizionari del mondo e bruciarli, fare un enorme falò che stesse a significare quanta poca importanza avessero le parole per loro.
Dal canto suo, Bill non aveva vissuto quei tre anni in maniera molto differente. Ogni volta che partiva, che tornava a casa, che prendeva in mano quel dannato cellulare, scorreva velocissimo i messaggi in cerca di un segno di lei. E se –raramente- dovesse succedere che non ne trovava, si fiondava subito a scrivere, anche due, tre, dieci messaggi diversi pieni di quanta voglia avesse di rivederla. Di notte stringeva il cuscino e fissava il soffitto a occhi spalancati, parlava nel sonno e si svegliava avvinghiato a suo fratello, quelle volte che dormivano insieme, che si lamentava di quanto fosse diventato appiccicoso. Il povero Tom avrebbe meritato una medaglia per i momenti come quelli. Almeno una volta su due, dopo due ore che gli aveva dato la buonanotte,  Bill si ripresentava alla sua porta in cerca di qualcosa di una ragione stupida per non restare solo nella sua camera. Come se la solitudine fosse una grossa e pericolosa bestia nascosta sotto il letto, pronta a schizzare fuori e divorarlo senza pietà, lasciandolo in un pugno di singhiozzi e lacrime.
Bill era sensibile. Tremendamente sensibile. E lei gli era mancata, perché la vedeva in ogni persona con gli occhi verdi gli capitasse a tiro, la sentiva in ogni ‘Bill?’ che gli veniva rivolto. E sentiva il sapore delle sue labbra rosse e screpolate dal freddo in bocca tutte le mattine.
Ma adesso era tutto finito. Adesso lei era lì. Non gli importava quanto sarebbe rimasta. Era lì, perché era maledettamente certo che fosse lei, ed era maledettamente certo che fosse lì. E non l’avrebbe lasciata andare per nessun motivo al mondo, proprio nessuno, nessuno nulla faccia della Terra e dentro l’Universo, dentro ogni Universo parallelo che fosse mai esistito non esisteva cosa che avrebbe potuto separarli di nuovo. Adesso erano lì, abbracciati sotto una pianta in una tavolo imbucato di un ristorante cinese, e contava solo questo.
-Bill?- pigolò lei, la faccia schiacciata contro la superficie ruvida del cappotto Versace con la schiena unta per colpa di Gustav.
-Sì?- fece lui, scostandosi quel poco che bastava per guardarla negli occhi.
E per una volta, per una dannata volta Kim non indugiò un minuto di più e, in barba al carpe diem, lo baciò come mai nessuno aveva baciato nessun’altro nella storia. È vero che per poco non si ribaltarono all’indietro sul cameriere che passava con le braccia piene di ciotole di brodo e spaghetti rischiando un’alluvione, però, cavolo; gli prese quel bel viso pallido fra le mani, e chiuse quella splendida bocca perfetta nel bacio più dolce che le sue labbra inesperte potessero inventare.
E in quel momento, al tavolo 42 del Chinatown di Berlino, vicino alla pianta che faceva starnutire e fra i commensali e i camerieri che per un attimo di erano girati a guardare chi fossero i Romeo e Giulietta della serata, sotto gli occhi vigili dei G&G e di Tom, che sorridevano e si davano gomitate come le nonnine che guardano le telenovelas spagnole, ammiccando come i matti; Bill e Kim erano di nuovo, per la seconda volta di una lunghiiiiisssima serie, su quel ponte scassato, illuminato dalle luci della Tour Eiffel nella densa notte parigina, che non facevano altro che i ragazzi innamorati, e, per una volta, felici, ma felici sul serio.
 
 
DA
DANNNNNNNNNNNNNNNNNNNNNNNNNNNN
*coro angelico discende dal cielo*
Non sapete quanto sia strambo dire queste parole CAVOLO è la prima volta che finisco una storia *-* c’è anche da dire che questa è stata la mia prima ff, iniziata puramente a caso, senza una minima parvenza di trama, partendo da un’idea che mi era venuta mentre giravo in tondo con la bici. Due anni fa più o meno.
OCCRISTO DUE ANNI?!?!?! Ma stiamo scherzando?!?! Incredibile che sia passato tutto questo tempo!! Che poi se avessi aggiornato più spesso si sarebbero dimezzati anche quattro volte, però … o porco due. D: raga io ancora non ci credo. Ma voi ci credete?? Cioè … woh. Che roba.
HO FINITO YOU CAN REMEMBEEEEERRR OMMIODDIOOOOOOOOOO XoX però sono felice. Voi siete felici? Mi state tirando dietro casa vostra con tutti i mobili perché il finale vi fa schifo? Nooo, daiii, siate buoni anche questa volta.
… mi sto trattenendo dallo scrivere un altro mezzo papiro di roba, potrebbe essere infinito questo epilogo-e dire che di solito prologo ed epilogo sono le parti più corte. Altro che, qua saranno dieci pagine e passa di Word. Dico sul serio ç_ç
Anyway … personalmente mi stanno ancora tremando le mani, l’epilogo l’avevo finito già ieri sera ma erano le undici passate ed era meglio infilarsi a nanna prima di avere un colpo di cuore; quindi me la sono presa comoda a portarlo fino a oggi.
SUL SERIO vorrei aggiungere altro ma NON LO FARO’ quindi teniamocelo così com’è. Dio, io spero vi piaccia almeno quanto possa esservi piaciuto questo sclero di storia in sé … e qui bisogna fare un GRANDISSIMO ENORMISSIMO ALTISSIMO PURISSIMO LEVISSIMO CATTIVISSIMO –coi Minions- GRAZIE a tutti quelli che sono anche solo passati a dare un’occhiata schifata a questa fic:  ma soprattutto a chi ha letto e recensito, parlo di Martry_K soprattutto, onorate e ringraziate questa brava e santa donna, perché se non c’era lei a recensire tutti i benedetti capitoli io rimanevo sola nella mia piccola depressione, ma anche chi ha lasciato solo un paio di commenti, come alessia483, e tutte le anime senza nome che sono passate a dare una letta senza scrivere niente. Voglio bene anche a voi. <3
EBBENE, non aggiungerò altro ma vi lascerò a godere della magnifica sensazione di non avere più questo sclero tra le scatole!!! … mi ci vorrà un po’ a recepire quest’idea, sarò sincera u_u però sono felice un casino n_n perché nonstante tutto … è stata una bella storia, ed è stata divertente da scrivere!! Spero, per voi, divertente da leggere.
Sia tutti voi, che le quattro fascinose muse ispiratrici di questa cosa (?-Georg vestito da musa, ve lo immaginate? X_x), non vi ringrazierò mai abbastanza. :’)    
Baci, e ci sentiamo al prossimo capitolo di One Story Many Stories, che arriverà non appena avremo sistemato il prossimo di You Keep Giving Me a Taste of Your Venom (che vi consiglio di leggere se vi piacciono le cose molto punk e molto disagiate, con tentativi di defrocizzamento(?) e ovviamente, triangoli per tutti! :D --->>> spamspamspamspam o_o), e, perché no, alla prossima fan fiction disagiata che verrà prodotta dalla geniale mente della sottoscritta, da voi conosciuta come callingonsatellites, oppure …
Baci :*                         Lisa^^
 
 
 
[nota a fine pagina sotto la nota a fine pagina (?):
So che non è molto professionale ma … mi sono resa conto di non aver finito il discorso delle scarpe di cui si sente parlare all’inizio. Fatto sta che non sapevo dove infilarlo, il tutto ci stava fin troppo bene concluso così, e AAGh. Beh, vi basti sapere che di altro non si tratta altro che di due palazzoni alti venti centimetri che un giorno Kimmy trovò in un negozio imbucato nella ridente Liverpool, e che avevano così tanto la faccia di un paio di scarpe da Bill Kaulitz che … beh, il suo Instagram ce la dice lunga su come è andata a finire. 8)]
   
 
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