Anime & Manga > Haikyu!!
Ricorda la storia  |       
Autore: Alchimista    07/11/2016    3 recensioni
Daichi riusciva a trovare rilassante l’andare in bicicletta, anche se si trattava di farlo per tornare a casa dopo gli allenamenti di pallavolo: in qualche modo scaricava, pedalando, l’adrenalina che inevitabilmente accumulava agli allenamenti o durante le partite di prova, quindi lo faceva volentieri, soprattutto se i tramonti erano caldi e poteva andarsene con calma, guardando magari quello che lo circondava.
[...]
Stavano discutendo del più e del meno quando successe; col senno di poi nessuno dei due si sarebbe ricordato di quegli istanti, tanto fu improvviso ciò che accadde. Non lo videro, non se ne resero conto.
[...]
Sentirono solo il peso dei loro corpi che si colpivano, la sensazione di non avere più terra sotto i piedi. Poi lo schianto ed il buio. Non ci fu tempo neanche per il dolore. Forse fu un bene.

Soulmate!AU in cui trovando il proprio compagno si vedono i colori per la prima volta. Daisuga | Asanoya | Kagehina | IwaOi. Angst.
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Asahi Azumane, Daichi Sawamura, Koushi Sugawara, Tooru Oikawa, Yuu Nishinoya
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
   >>
- Questa storia fa parte della serie 'Fate don't know you like I do'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

PairingDaichi x Suga |Asahi x Noya |(in più piccola parte anche Iwaizumi x Oikawa | Kageyama x Hinata). 

Parte: 1/3 (sebbene la storia nasca e si sviluppi come unica e sia divisa solo per comodità).

AvvertimentoSoulmates!AU in cui si vedono i colori per la prima volta quando si trova il proprio compagno. | Angst | Molto angst | Sebbene siano vicende nuove, la storia nel suo continuum e contesto è legata alla prima soulmate di questa raccolta, che può essere letta qui.

Note d’Autore: (e maledizioni) a fine storia.

Ringraziamenti e dedicaUn immenso grazie, come sempre, alla mia Arianna che legge in anteprima, vigila, consiglia e beta tutto quello che scrivo.

 

 

Just a little late (you found me).

 

Parte prima

Nempe tenens quo amo[…]
per freta longa ferar: nihil illum amplexa  verebor
aut, siquid metuam, metuam de coniuge solo.

 

Daichi riusciva a trovare rilassante l’andare in bicicletta, anche se si trattava di farlo per tornare a casa dopo gli allenamenti di pallavolo: in qualche modo scaricava, pedalando, l’adrenalina che inevitabilmente accumulava agli allenamenti o durante le partite di prova, quindi lo faceva volentieri, soprattutto se i tramonti erano caldi e poteva andarsene con calma, guardando magari quello che lo circondava.

«Daichi! Hey, Daichi!».

Il capitano della Karasuno accostò sentendosi chiamare: voltandosi, notò che poco dietro di lui era comparsa la sagoma di Nishinoya, anche lui in bicicletta, che si sbracciava, tenendo il manubrio con una sola mano. Il Libero lo raggiunse velocemente e si fermò riprendendo fiato per quell’accelerata.

«Non dovresti guidare con una sola mano», lo rimproverò quello bonariamente il Capitano, mentre con un cenno della mano lo salutava. Noya si grattò la nuca in imbarazzo: Daichi sapeva essere spaventoso quando si arrabbiava, ma era solitamente calmo e protettivo in una maniera che faceva stare tutti bene, silenziosa e onnipresente. Era facile considerarlo un fratello maggiore: si faceva volere bene con la sua semplice presenza.

«Volevo raggiungerti quanto prima», si giustificò «E non ti fermavi, quindi dovevo farmi vedere».

Daichi scosse appena la testa: aveva perso ormai da tempo la speranza di mettere un po’ di buonsenso in quella testa vuota e ormai il modo di fare spericolato di Noya era diventato anche per lui abituale – in fondo, era parte della sua indole da Libero e, si rendeva conto, non avrebbe voluto che cambiasse.

«Facciamo la strada assieme?», gli aveva intanto chiesto il ragazzo, montando di nuovo in sella e dando l’impressione di non riuscire a star fermo per un attimo – Daichi non poteva fare a meno di notare che era anche per questo che Noya pareva andare tanto d’accordo con Hinata, sebbene non si conoscessero da molto.

«Perché no?». Montò anche lui nuovamente in sella e presero a pedalare con calma, Noya che provava a star tranquillo e al passo del capitano e Daichi fiero del suo ruolo di leader.

Stavano discutendo del più e del meno quando successe; col senno di poi nessuno dei due si sarebbe ricordato di quegli istanti, tanto fu improvviso ciò che accadde. Non lo videro, non se ne resero conto. Daichi aveva l’abitudine, quando non era solo, di camminare o pedalare all’esterno, in una sorta di posizione protettiva rispetto a chi gli era accanto, ma quella volta era Noya a frapporsi fra lui e la strada. Forse fu per questo che non se ne accorse – la guardia bassa, la stanchezza degli allenamenti, la visuale per metà bloccata dal Libero. Guardava avanti mentre parlava, Daichi, quando all’improvviso Noya gli fu addosso. Non capì, davvero non ebbe tempo di realizzare che cosa stesse succedendo. Un attimo prima pedalavano tranquillamente insieme, quello dopo erano entrambi finiti in una scarpata – che costeggiava la carreggiata lungo cui stavano camminando – perché una macchina andando ad alta velocità non li aveva visti ed aveva tagliato loro la strada.

Sentirono solo il peso dei loro corpi che si colpivano, la sensazione di non avere più terra sotto i piedi. Poi lo schianto ed il buio. Non ci fu tempo neanche per il dolore. Forse fu un bene.

 

***

 

Hinata aveva insistito per allenarsi ancora, sebbene ormai fosse quasi sera: non era una novità, la sua, e ormai il professor Takeda si fidava abbastanza da lasciare a qualcuno del terzo anno – se partecipava a quegli straordinari – o a Kageyama le chiavi della palestra quando non poteva aspettare che la giovane Esca finisse. Solitamente, Sugawara era felice di restare con loro anche solo per guardarli allenarsi: gli piaceva vederli tanto affiatati, recuperare il tempo che non avevano passato insieme. Di tanto in tanto partecipava anche lui: stava diventando bravo a capire Hinata ed essere in campo con Kageyama si sarebbe potuto rivelare più utile di quanto potessero pensare in futuro, quindi un po’ di allenamento extra non avrebbe fatto male neanche a lui.

Quella volta osservava. Aveva alzato un paio di volte ad Hinata e eccezionalmente anche Kageyama aveva voluto provare a schiacciare, mentre adesso era il turno della loro personale veloce. Era sempre uno spettacolo vedere quanto potevano essere precisi e rapidi nell’esecuzione: Suga già immaginava che, una volta che Hinata fosse stato in grado di direzionare il colpo a suo piacimento, quella sarebbe stata la loro arma segreta, imprendibile ed invincibile. La Karasuno stava rinascendo ed era così fiero di poter vedere i corvi spiccare di nuovo il volo.

L’alzatore, ancora a bordo campo, portò istintivamente una mano al petto – un paio di battiti erano come saltati, accavallandosi, spezzandogli il fiato. Suga trasse il respiro a vuoto più di una volta prima di riuscirci davvero e mantenendo gli occhi spalancati vide il cambiamento in atto in tutte le sue fasi. Fu come una lampadina tremula che ad intermittenza annuncia la sua prossima fine, se non fosse stato che in lui era completamente il contrario: ad intermittenza, nei suoi occhi, i colori annunciavano la nascita del legame e il ragazzo avrebbe potuto scommettere la propria vita che era con Daichi.

Quando finalmente tutto si stabilizzò, quando Suga riuscì a distinguere le sfumature chiassose che aveva intorno, si accasciò sulle ginocchia per lo shock improvviso.

«Suga!». Hinata corse verso il ragazzo, mentre Kageyama gelava sul posto prima di seguire il compagno. Shouyou gli si inginocchiò accanto, spaventato, chiamandolo ma senza sapere bene che cosa fare finché non fu il più grande a rassicurarlo, mettendogli una mano sulla spalla ed usando il suo aiuto per alzarsi.

«Va tutto bene, Hinata, va tutto bene», sussurrò – tremava, tremava per tutto quello che ogni gradazione nella stanza significava. «Io… li vedo. Vedo i colori». Le parole soffocarono in gola e gli occhi si riempirono di lacrime che lentamente scivolarono sul suo viso appena pallido. Suga non riusciva ancora a realizzare del tutto quello che stava accadendo: era vero, era finalmente vero! Il suo legame, il legame con Daichi… lui aveva un legame con Daichi ora! Un legame come gli altri, un legame che li avrebbe riconosciuti come coppia, che avrebbe finalmente tolto la tristezza e le incomprensioni e la malinconia e…

In tutta quella gioia, nonostante tutta quella gioia, Suga lo avvertì. Distante, appena percettibile, uno strano dolore. Cos’era? La possibilità di perdere qualcosa che finalmente esisteva? La possibilità che tutto tornasse come era stato prima – o peggio – proprio ora che le cose erano cambiate? No… era qualcosa di più profondo di quell’istinto, qualcosa che il ragazzo faticava ad identificare, che a dirla tutta non aveva voglia di comprendere. Era felice, felice davvero dopo anni. La meritava quella felicità, la meritava con tutto se stesso e la voleva più di qualunque altra cosa. Ignorò la sensazione distante, i pensieri negativi, l’istinto: si concentrò solo sul bene che sentiva, sui colori che vedeva.

Gli occhi brillanti di Hinata, appena velati delle sue stesse lacrime, furono una visione bellissima. Suga lo strinse a sé con tutta la forza che aveva, con tutta la gioia che provava e che anche il più piccolo sentiva: s’erano legati così tanto in quei mesi che gioivano e soffrivano delle stesse cose; Hinata sapeva fin troppo bene che cosa significava e tratteneva a stento la contentezza – neanche la sua situazione a metà sporcò quel momento. Kageyama, di natura meno espansivo, sorrideva quasi incantato, con una mano a stringere la spalla di Suga e godendo della gioia comune.

Forse, in fin dei conti, le cose potevano andare bene per tutti. Forse, bastava non perdere la speranza.

 

***

 

Asahi aveva da poco messo piede in casa. Aveva salutato i suoi, rubato qualcosa dalla cucina facendo attenzione che sua madre non lo vedesse, ed era salito in camera sua: era distrutto dagli allenamenti e dalle lezioni, dalla pesantezza dell’intera settimana e non sarebbe riuscito a tenere la testa dritta a tavola neanche volendo. S’era messo a letto, avendo giusto la forza di togliersi pantaloni e camicia e, mangiucchiando qualcosa, aveva preso a fissare il soffitto, perso nei più diversi pensieri.

Con le eliminatorie del Torneo Primaverile che si avvicinavano, le cose tornavano a farsi serie per la Karasuno: era il momento della rivincita e avrebbero dovuto impegnarsi a fondo per mettere a punto nuovi colpi e nuove tattiche si volevano riscattarsi della sconfitta all’Inter High. Il ragazzo sospirò: non era il capitano, ma come Asso anche lui aveva una grossa responsabilità verso la squadra e doveva tenere alto il loro morale, essere in grado di segnare, sempre, di portarli alla vittoria. Suga e Daichi sembravano nati per quel ruolo: il capitano era una tacita sicurezza di avere le spalle coperte, mentre l’esperienza dell’alzatore gli permetteva di essere accurato negli schemi di gioco e prevedere le reazioni degli avversari per poter così fare subito punto.

E lui? Era diventato Asso quasi in maniera implicita, per convenzione, come un meccanismo avviato da sé, e per quanto ormai sentisse suo quel ruolo e lo volesse davvero, non riusciva a scrollarsi di dosso la sensazione di dover fare di più. Forse era per via di Kageyama ed Hinata, due primini che non facevano altro che migliorarsi; alle volte temeva che sarebbe caduto nella facile tentazione di nascondersi dietro le veloci, fingendo che andasse bene così, che la squadra avesse già tutto. Sapeva invece che doveva farsi valere – la squadra sarebbe stata forte solo se avessero combinato tutte le loro armi e i loro colpi migliori.

Asahi si chiese come facesse Suga a gestire quella situazione, dal momento, poi, che non era più titolare. Lo ammirava: insieme a Noya, lui era quello a cui guardava di più in squadra, quello da cui avrebbe voluto imparare più cose.

Tutto cominciò con un lontano fastidio all’altezza dello stomaco, qualcosa a cui Asahi cercò di non fare caso, dando la colpa all’aver mangiato stando sdraiato. Non ebbe, però, che qualche istante per illudersi che non fosse nulla: il fastidio si trasformò in dolore e il dolore salì fino all’altezza del petto. Asahi smise di respirare e spalancò gli occhi – il male era così forte che questi si velarono di lacrime, ma il ragazzo non fu in grado di gridare tanto era lo shock.

Cosa… cosa gli stava succedendo? Stava avendo un infarto, stava morendo, doveva chiamare aiuto? Come… come si chiamava aiuto? Come si muovevano i muscoli…? Il ragazzo sentiva di non poter fare nulla, di non essere in grado neanche di respirare. Il dolore era lancinante, era ovunque, gli occupava ogni pensiero come ogni fibra del corpo, tanto che Asahi non aveva più coscienza di quello che lo circondava. Non pensava, non poteva, gli era impossibile.

Eppure, in quel assoluto nulla fatto solo della percezione del dolore, Asahi seppe che non dipendeva da lui: non si trattava di ragionare ma di istinto, di una verità semplice ed assoluta come la gravità – non era davvero lui a stare male.

«YUU!».

Fu il primo pensiero che la sua mente riuscì di nuovo a formulare, la prima cosa che la sua bocca riuscì a gridare. Ne fu consapevole nell’istante in cui si sentì gridare: Noya stava male, era suo quel dolore, suo quel pericolo. Bloccato in quel letto, con le lacrime che ormai gli rigavano il viso, Asahi sentì l’opprimente sensazione che lo avrebbe perso, che era successo qualcosa di tremendo, di potenzialmente irreparabile.

Ed io non sono con lui.

I compagni morivano. Era il ciclo della vita, la morte non risparmiava neanche loro – perché avrebbe dovuto? I compagni morivano e quando accadeva non c’era sensazione peggiore che chi era loro legato potesse provare. Accadeva una sola volta nella vita ed era un po’ come la morte stessa, un suo anticipato saggio, uno spegnersi a metà. Asahi lo sapeva, aveva visto com’erano gli occhi delle persone che avevano perso i propri compagni – qualcuno andava avanti per inerzia, come vivono le piante, aspettando il nuovo giorno senza pretese, un po’ sperando di non vederlo di nuovo; altri ci provavano ad avere una nuova vita, qualcuno accanto, ma non funzionava mai davvero. Era drammatico il destino.

Asahi era sempre stato il tipo di persona che pensa al peggio. Si diceva che fosse per preparasi: abituarsi al peggio per gioire nel caso, invece, andasse bene. La realtà era che forse aveva paura: di soffrire, di restare deluso, di non riuscire a dormirci la notte. Aveva paura di tutto Asahi perché aveva paura di fare costantemente la mossa sbagliata e perdere, di far soffrire chi gli era accanto – non l’avrebbe sopportato; per questo alle volte rinunciava, per questo aveva smesso di giocare a pallavolo.

C’aveva pensato, la prima volta, pochi giorni dopo aver stretto il legame con Noya. Erano usciti insieme, semplicemente per fare una passeggiata e Yuu aveva riso tanto, facendolo ridere a sua volta. Erano stati bene, così dannatamente bene che Asahi avrebbe voluto che non finisse mai; quando s’erano salutati, Noya lo aveva tirato a sé, cogliendolo di sorpresa e sfiorandogli appena le labbra, prima di augurargli la buonanotte e rientrare con una certa velocità. Asahi era rimasto senza parole a fissare la porta di casa dietro cui era scomparso, imbambolato forse anche per qualche minuto prima di realizzare che magari sarebbe stato meglio andare via. In quel preciso istante aveva pensato che stava bene, troppo bene. Che se fosse successo qualcosa a Noya lui sarebbe stato semplicemente perduto.

Ma era stato un pensiero occasionale, nulla di concreto. Yuu era così pieno di vita e di energie, così instancabilmente attivo come persona e come Libero che davvero Asahi non s’era mai preoccupato realmente per lui. Stava troppo bene e così anche la sua naturale paura spariva quando gli era accanto. Lo rendeva forte come lui stesso non aveva mai creduto di essere.

Ma ora stava succedendo davvero, ora Noya stava talmente male che Asahi lo sentiva, come se gli stessero aprendo il petto per strappargli il cuore dall’interno e nello stesso tempo gli tenessero una mano bloccata sulla gola per impedirgli di respirare. Ora l’istinto, il legame che aveva col suo compagno reagiva di contrappeso all’immobilità dello shock e del dolore e il ragazzo lottava per riprendere possesso dei suoi sensi e del suo corpo, per alzarsi, per fare una qualunque cosa che potesse fargli capire cosa stava succedendo a Noya.

«Ti prego… ti prego… ti prego», sussurrava, mentre riacquistava coscienza dei suoi arti e cercava di slanciarsi dal letto «Ti prego, non puoi… non puoi lasciarmi… Non così, non adesso, non tu… Ti prego…». La pressante sensazione che sarebbe stato troppo tardi martellava nella sua testa. Che avrebbe fatto se fosse successo? Se all’improvviso anche quel dolore immenso fosse sparito lasciando un vuoto enorme, sancendo la fine di ogni cosa? No, no, no, lui quel dolore lo voleva! Lo voleva sentire tutto, se sentirlo significava che aveva ancora una speranza di capire che cosa stava succedendo e magari rimediare. Lo avrebbe raggiunto, magari salvato, avrebbe fatto qualcosa di davvero buono per una volta.

Si gettò dal letto con non seppe quale forza. Il resto fu inutile: il male oscurò ogni altra cosa, portandolo all’incoscienza.

 

***

 

I corridoi degli ospedali, agli occhi di Hinata, erano sempre parsi tutti uguali: bianchi, pieni di porte, pieni di camici e di tanto in tanto pieni di gente che andava e veniva, più o meno tutta con la stessa faccia smorta o sconsolata. Erano anonimi quelli che gli passavano davanti, anche in quel momento: il ragazzo non riusciva a fissare nella sua testa le loro facce, pur guardandoli attentamente, al limite della sfacciataggine. Non sapeva che fare, Hinata, che dire, in che modo porsi in quell’ambiente. Se ne sentiva estraneo, eppure era stato risucchiato da esso con una velocità che gli faceva paura, che lo destabilizzava. Come un muro troppo alto. Ora non riusciva a vedere dall’altro lato.

Kageyama era accanto a lui, dritto, con la testa appena appoggiata al muro che avevano alle spalle. Non aveva detto nulla, non era riuscito a parlare da quando avevano saputo. Nessuno aveva parlato in realtà: Suga aveva appena balbettato qualcosa. Poi erano corsi: Kageyama ricordava vagamente il percorso che avevano fatto, come erano arrivati davanti all’ospedale; da quando s’erano seduti, in attesa, ogni istante s’era susseguito uguale a quello precedente, in un’immobilità che lo disorientava. Che si faceva in questi casi? Che si diceva? Tobio non poteva fare a meno di pensare, egoisticamente, a come avrebbe reagito se una cosa del genere fosse successa a lui, se mai Hinata

Io non l’avrei sentito.

Quel pensiero, da nulla, gli rimbombò nella mente vuota e ancora sotto shock e fu assordante per l’eco che si lasciò dietro. Kageyama abbassò la testa, sgranando gli occhi. Era così. Era davvero così. Loro… lui… se fosse successo qualcosa ad Hinata non lo avrebbe mai saputo. Persino Suga, in cui il legame s’era creato da pochissimo, aveva capito che qualcosa non andava. Ma lui… lui, in fondo, quel legame con Hinata non lo aveva affatto. Tobio non sapeva dare un nome alla sensazione che provava, ma non la voleva. L’avrebbe cancellata dal suo petto se avesse potuto, se solo fosse stato in grado di spazzare via tutto quanto…

La giovane Esca della Karasuno gli prese la mano. Kageama sussultò guardandolo di scatto: s’era accorto che stava male? Hinata pareva avere gli occhi ancora più grandi perché brillavano per un velo di lacrime che li copriva e Tobio non sapeva che cosa dirgli, come consolarlo – era evidente che anche lui stesse male. Le parole però non uscirono: restarono a guardarsi, le mano che si stringevano fra loro per darsi forza.

Suga invece era solo. Lo aveva fatto in automatico: aveva lasciato un posto vuoto fra sé e i due primini quando s’erano seduti in corridoio. Non li voleva accanto. Non perché ce l’avesse con loro in qualche modo, anzi, ma sentiva di dover stare da solo, di doversi isolare per capire che cosa stava effettivamente succedendo. Suga aveva smesso di vivere nel momento in cui una voce a lui del tutto sconosciuta aveva risposto al telefono di Daichi.

Lo aveva chiamato. Aveva insistito diverse volte, imputando la mancata risposta alle più stupide ragioni: doveva sentire la sua voce, gridargli che vedeva i colori, che finalmente era successo! Doveva dirgli di correre da lui, ovunque fosse o che magari sarebbe corso lui, ma che dovevano assolutamente vedersi, perché dovevano guardarsi negli occhi e scoprire le sfumature dei loro corpi e di tutto quello che stava loro intorno: il mondo finalmente li aveva accettati, perché Daichi non rispondeva?

Quando finalmente il lungo rumore ad intermittenza aveva smesso, segnando che la chiamata aveva avuto risposta, Suga era stato un fiume in piena di “Daichi, li vedo! Daichi vediamo i colori! Daichi!”. Il freddo non era mai stato tanto forte come nel momento in cui una voce inaspettata, adulta, seria gli aveva risposto.

 «Lei è un amico o un parente?».

Così aveva saputo tutto. E nell’istante in cui aveva capito, gli era stato chiaro anche perché il legame aveva fatto male sin da subito: Daichi era stato in pericolo forse nell’istante stesso in cui s’era creato il legame, forse lui aveva visto i colori proprio per questo, perché gli annunciassero il pericolo. Koushi aveva ignorato quella sensazione perdendosi nel nuovo mondo che gli si era aperto davanti ed ora ne stava pagando le conseguenze.

Dal momento in cui aveva capito come stavano davvero le cose, aveva smesso di vivere. S’era guardato da fuori balbettare qualcosa ad Hinata e Kageyama che, di certo a causa dell’espressione del suo viso – forse stava piangendo? –, parevano davvero preoccupati; poi s’era visto correre, accompagnato dai due amici, fino all’ospedale dove l’uomo al telefono aveva detto che erano stati portati ed aspettare lì.

Ah, sì, Daichi non era il solo ad essere stato portato in ospedale. Con lui c’era anche Nishinoya.

La mente di Suga percepì vagamente l’arrivo di altre persone, ad un certo punto della serata. S’accorse che accanto a lui s’era seduta la madre di Daichi, che forse gli aveva parlato per un po’, prima di accorgersi che lui davvero non aveva la forza di ascoltarla; più in là gli pareva di aver sentito anche altre voci: le riconosceva, gli erano parse quelle dei ragazzi, ma gli occhi non ce la facevano a mettere a fuoco, la mente non aveva alcuna voglia di registrarli perché poi avrebbe dovuto parlare con loro e sforzarsi di essere qualcuno che, in quel momento, non c’era, non esisteva, che aveva smesso di vivere. Suga si sentiva così: completamente estraneo a se stesso, inesistenze.

I colori brillavano forti nei suoi occhi e lui non sapeva che farsene.

«…Suga».

Koushi non seppe perché, ma a quella voce si riscosse. Girò di poco il capo verso destra e Asahi era lì. La mente riprese ad accumulare dati, come una macchina: il ragazzo era pallido in viso e i capelli sciolti che scendevano senz’ordine gli davano un aspetto sciatto e trascurato; le labbra erano smorte e gli occhi arrossati come se avessero pianto tanto; aveva addosso il pantalone di una tuta ed una maglietta larga e se ne stava con la testa infossata nelle spalle e l’aria più angosciata che potesse avere. Il ragazzo si chiese se anche lui avesse un aspetto simile.

Sospirò e senza rendersene conto, poggiò la propria testa contro la spalla dell’amico. D’improvviso tutto ciò che non era riuscito a provare da quando era arrivato gli stava piombando addosso, come una frana che travolge ogni cosa al suo crollo.

«Che cosa sta succedendo, Asahi?». Il sussurro era flebile e rassegnato.

«Staranno bene. Devono stare bene. Non possono… loro non posso-».

La voce di Asahi era spezzata e pareva ripetere quelle parole come una cantilena senza senso. Suga non sapeva che il ragazzo aveva continuato a soffrire anche quando era caduto nell’incoscienza e che quando i suoi genitori lo avevano trovato in quello stato ed erano riusciti a farlo rinvenire, lui aveva gridato di dover andare in ospedale, perché sapeva che Noya sarebbe stato lì. Per tutto il tragitto aveva tremato dal dolore ed aveva continuato a ripetere che Yuu stava bene, che era solo una reazione esagerata dovuta alla sua paura di perderlo. Quando però avevano scoperto che anche Daichi era rimasto coinvolto nell’incidente e che stavano operando entrambi, qualcosa dentro di lui s’era spezzato: non era riuscito a fare altro che sussurrare che sarebbero stati bene, come una nenia senza più significato. Andava avanti da allora.

«Da quanto tempo…?».

Suga lo guardò sperando che capisse il resto: da quanto tempo sono dentro? Da quanto tempo non abbiamo loro notizie? Da quanto tempo fa male? Da quanto tempo…? Asahi lo guardò interdetto, non per la domanda ma perché avesse bisogno di chiederlo.

«Scusami, io…».

Gli occhi dell’alzatore si riempirono di lacrime: non aveva prestato attenzione perché farlo faceva troppo male, perché realizzare che Daichi sarebbe potuto morire proprio mentre avevano visto i colori era qualcosa che lo lasciava senza fiato, che prendeva al petto, che lo rendeva folle. Il Destino, il Fato, la Sorte o chi per essi non poteva accanirsi tanto contro di loro, non poteva essere tanto sadico.

All’Asso bastò quello sguardo per capire che era successo. E capire gli diede accesso al dolore di Suga, un dolore diverso da suo e allo stesso tempo tristemente simile. Il dolore dei compagni. Se avesse potuto sentire più male di così lo avrebbe fatto, per il modo in cui Suga soffriva, per la storia che aveva con Daichi, per il modo in cui aveva scoperto che cosa voleva dire essere legato per tutta la vita a qualcuno.

«Io ci ho messo tempo ad arrivare, ma mi hanno detto che li hanno portati qui più di un’ora fa», rispose.

Poi allungò un braccio a stringere le spalle dell’amico. Cercava di fargli forza? O forse di far forza a se stesso attraverso quel contatto? Nessuno dei due se lo chiese perché entrambi ne avevano bisogno e le ragioni del gesto non avevano alcuna importanza.

«Sai», sussurrò ad un tratto Asahi «Io non ricordo… io non ricordo quali siano state le ultime parole che gli ho detto».

Suga chiuse gli occhi, respirando appena. Se ne avesse avuto la forza, lo avrebbe rassicurato: lui ricordava perfettamente le ultime parole che aveva detto a Daichi, ma questo non cambiava assolutamente nulla.

Passò ancora un po’ prima che i medici uscissero dalla Terapia Intensiva. Erano in due, in camice e mascherina e gli occhi, si trovò a pensare Suga, non erano affatto rassicuranti. Mentre li guardava avvicinarsi, il ragazzo si rese conto di quanta gente effettivamente c’era attorno a lui: i genitori di Daichi e quelli di Noya ovviamente, poi il padre di Asahi che doveva averlo accompagnato e praticamente tutti i membri della Karasuno.

I medici si avvicinarono ai genitori dei ragazzi feriti e parlarono sommessamente ma con fermezza. Suga e gli altri cercarono di prestare attenzione a quello che dicevano, sebbene non avrebbero dovuto: fortunatamente c’era silenzio nel corridoio e le parole erano comprensibili, anche così.

«Il più grande», stava dicendo uno dei due, rivolto ai genitori di Daichi «Aveva un paio di costole incrinate, diversi lividi ed abrasioni ed una commozione celebrale. Lo terremo in coma farmacologico ed aspetteremo ventiquattro ore sperando che il trauma si riassorba da solo; in caso contrario, dovremo operare».

«L’altro ragazzo invece ha riportato ferite meno serie: ha un braccio rotto, lividi ed abrasioni. Abbiamo dovuto anestetizzarlo per suturare alcuni tagli più grandi all’addome, ma lo porteremo in camera a breve. Dovrà fare riabilitazione, ma sono fiducioso che possa avere una completa guarigione», concluse il secondo chirurgo, rivolgendosi all’altra coppia di genitori.

Quando questi si allontanarono, i genitori di Daichi si strinsero l’un l’altro per farsi forza, mentre quelli di Nishinoya s’avvicinarono alla porte della Terapia Intensiva, in attesa che il ragazzo uscisse – non sembrava esserci nulla di più importante, in quel momento, che poterlo di nuovo vedere, avere un contatto che fosse fisico con lui: quella separazione era stata straziante. Nessun compagno, nessun legame avrebbe potuto eguagliare quello che i genitori hanno con i figli, nessuna sofferenza sarebbe potuta essere grande come la loro, in quel momento.

Asahi non si mosse. Con ancora il corpo di Suga appoggiato al suo, non raggiunse la porta della Terapia Intensiva, non provò neanche ad andare con i genitori del suo compagno. Suga era troppo stanco, troppo ferito e stravolto per rendersi conto di quanto, al di là della sofferenza, Asahi fosse nervoso: si torturava le mani e teneva le testa bassa. Se non fosse stato male anche lui, Koushi avrebbe immediatamente realizzato quello che stava per succedere. Invece, non lo vide affatto.

 

***

 

«Avresti dovuto dirmelo ieri sera».

Oikawa camminava con passo veloce mezzo metro avanti Iwaizumi, per quanto quella posizione gli costasse, per sottolineare quanto fosse arrabbiato. Hajime cercava di stargli dietro come poteva, mentre continuava a minimizzare l’accaduto.

«Non era così forte ieri sera! È peggiorato durante la notte… Non c’era motivo per chiamarti, non avremmo potuto comunque far nulla fino a questa mattina».

«E questo chi lo dice? Saremmo venuti immediatamente in ospedale, sarebbe bastata una tua parola!».

Tooru trattenne il fiato: dirlo ad alta voce gli costava davvero tanto e conosceva Iwaizumi abbastanza da sapere che ne era consapevole anche lui; eppure, sottolinearlo era un modo per fargli capire quanto avesse sbagliato a non parlargli del male che stava sentendo dalla sera precedente e che, ovviamente, era legato a Kageyama Tobio. No, Oikawa non odiava quel ragazzo, probabilmente non lo aveva mai fatto, e da tempo aveva accettato quella situazione: avrebbe sempre fatto parte della vita di Iwaizumi e non sarebbe stato lui ad impedirlo. Ma non poteva farci nulla: sapere che il suo ragazzo stava male a causa di un altro lo irritava, soprattutto perché Hajime era ancora più silenzioso di quanto non fosse di solito quando si trattava di Tobio.

«Vuoi fermarti un secondo, per favore?».

Oikawa scattò – Iwaizumi era quasi senza fiato. Si guardarono negli occhi e Hajime provò a sorridere: durante la notte aveva sentito chiaramente che qualcosa non andava, Tobio aveva avuto paura, stava affrontando qualcosa che lo preoccupava molto e quelle sensazioni negative si erano riflettute su di lui, togliendogli il fiato; ma ora stava meglio – Kageyama s’era calmato almeno un po’ e sentire la sua voce che lo rassicurava in qualche modo era servito a far dissipare almeno in parte il macigno che sentiva sul petto.

«Sto bene», disse – Oikawa si prese qualche istante per guardare quelle labbra tirate su come a volerne registrare ogni singolo frammento. Era un sorriso tutto suo quello ed era uno dei migliori di Iwaizumi, proprio perché appena accennato ed estremamente sincero.

«Tu capisci che se non me lo dici, io non ho modo di saperlo davvero?». Oikawa era serio come poche altre volte. Il tono era stato basso e fermo.

Hajime annuì. Non voleva tagliarlo fuori, non era mai stata sua intenzione: credeva davvero che fosse qualcosa di minimo, che poteva attendere, che sarebbe stato inopportuno allarmare Oikawa durante la notte. E forse… forse per una volta avrebbe voluto risparmiargli una nuova conversazione riguardante, in qualche modo, Tobio. Non perché volesse tenerlo al di fuori, ma perché, checché ne dicesse Tooru, quando Hajime parlava di lui qualcosa s’offuscava nei suoi occhi. Non poteva farci nulla, nessuno poteva, e allora, per una volta, Iwaizumi voleva risparmiarlo ad entrambi quel velo di malinconia. A quanto pareva, aveva finito per far peggio.

Appena entrati in ospedale, Iwaizumi si mosse con la stessa sicurezza che lo aveva condotto da Kageyama la prima volta che s’erano visti, nella palestra in cui si stava disputando l’Inter High. Attraverso corridoi che vedeva per la prima volta, cercò il suo compagno, mosso praticamente dall’istinto, ma consapevole della presenza di Oikawa alle sue spalle.

Quest’ultimo lo seguiva senza parlare, finché non gli parve di notare, in un corridoio laterale, una figura che conosceva. Si fermò per qualche istante, guardando senza essere visto e si accorse di avere ragione: Ushijima Wakatoshi, accompagnato da alcuni ragazzi della Shiratorizawa, aveva appena svoltato nel suo stesso corridoio, ma andando nella direzione opposta non lo aveva notato. Pensò che fosse strano trovarseli lì e l’astio che solitamente provava per il Capitano stavolta si sostituì ad un vago senso di allarme, come se ci fosse qualcosa fuoriposto in quella scena ma non fosse in grado di stabilire cosa.

Iwaizumi, intanto, s’era accorto dell’assenza del ragazzo ed era tornato indietro abbastanza in fretta da vedere la stessa scena e riconoscere le stesse persone.

«Cosa credi che stiano facendo qui?», chiese Oikawa, mentre riprendeva a camminare.

«Forse dei semplici controlli», rispose distrattamente Hajime «Non credo siano affari nostri», concluse poi.

Ad Oikawa, però, ci volle un po’ per scrollarsi di dosso la sensazione che ci fosse qualcosa di strano in quella situazione.

Quando trovarono finalmente Tobio, questi sembrava dormire, con gli occhi chiusi e la testa appoggiata alla spalla della piccola Esca della Karasuno, che invece li aveva visti arrivare. Si guardarono per qualche istante, forse indecisi sul da farsi o magari solo per rendersi conto di quella situazione – abituale ormai, per le diverse volte in cui s’erano visti, ma in cui non s’erano mai davvero sentiti a proprio agio. Quando Shouyou pensò di svegliare Kageyama, il ragazzo si mosse, sulla sua spalla, ed aprì lievemente gli occhi.

«Hajime?», chiamò, con voce bassa per il sonno, mettendo a fuoco ciò che aveva di fronte. Qualcuno un po’ più sentimentale, avrebbe detto che lo aveva sentito.

«Hey», lo salutò questi, inclinando appena il capo e sorridendo «Mi hai spaventato, stanotte».

Kageyama si mise immediatamente dritto. L’aveva…? Oh. Non ci aveva pensato. Non subito almeno: era successo tutto così all’improvviso e poi l’attesa gli era sembrata interminabile… non sapeva davvero che cosa stesse succedendo o provando… Quando lo aveva chiamato era stato quasi un istinto e, ora che ci pensava, non ricordava bene neanche che ora fosse. Aveva solo voluto sentire la sua voce.

«Mi dispiace», disse, alzandosi «Non credevo che potessi sentire anche una cosa del genere… io… avrei dovuto avvisarti prima. Non ci ho pensato, è stato tutto-».

«Hey, hey, calmati. Non ti stavo rimproverando. Ad ogni modo, mi fa piacere che tu stia meglio: significa che le cose non sono peggiorate».

Quando si trattava di Kageyama, Oikawa notò che Iwaizumi era protettivo come non l’aveva mai visto prima: era spontaneo nei movimenti e nelle parole, rassicurante, quasi emanasse un’aura di tranquillità che in qualunque altro caso non era così evidente, alle volte neanche con lui. Di solito la sua calma era silenzio, riflessione, quasi mai si tramutava in qualcosa di attivo. Si chiese, il capitano dell’Aoba, se quel ragazzino sapesse quant’era fortunato.

Hinata, invece, aveva visto che Kageyama era estremamente aperto con quel ragazzo: s’era scusato ed aveva parlato con una libertà che solitamente non si concedeva, o che forse proprio non sapeva di avere. Di solito capirlo era difficile e lui stesso era sbattuto contro quel muro molte volte prima di comprendere davvero come funzionavano le cose con lui. Ma con l’Asso dell’Aoba tutto scorreva naturale e Shouyou alle volte pensava di non poter far altro che osservarli.

«Come stanno i vostri amici?». Oikawa aveva parlato guardando proprio Hinata, passando oltre, fingendo di esserci abituato. 

«Nishinoya sta bene, tutto sommato – ha un braccio rotto, ma nessun danno serio e potranno dimetterlo presto. Daichi… il nostro capitano non si è ancora svegliato».

«Lo stanno tenendo in coma farmacologico», proseguì Kageyama, volendo essere preciso «Ma sono preoccupati per il trauma cranico…». A quelle ultime parole, i volti dei due ragazzi dell’Aoba s’incupirono.

«Hinata!».

Una voce femminile interruppe l’atmosfera di nuova preoccupazione che s’era creata tra i quattro ragazzi. Shouyou si sporse oltre la figura di Tobio e riuscì a scorgere Yachi che con passo veloce li stava raggiungendo: sembrava affaticata, come se avesse fatto tutta la strada correndo – poco dietro di lei Kiyoko le teneva la mano e si faceva quasi trascinare, mantenendo una certa compostezza. Anche sul volto della più grande c’era però un’espressione accigliata e più seria.

«Ci sono novità? Come stanno? Questa mattina ci ha chiamati Yamaguchi…». I due ragazzi fecero segno di diniego con la testa e la giovane manager abbassò il capo, sconfortata. Era stato stupido, ma aveva sperato che la situazione non fosse così grave come era parsa dalla telefonata.

«Suga è nella stanza di Daichi: ha dato da poco il cambio ai suoi genitori, che sono rimasti dentro per la notte. Nessuno ha ancora dato il cambio a quelli di Noya, invece, anche se Tanaka non si è allontanato neanche per un istante. Il resto di noi sta semplicemente vagando per i corridoi in attesa che cominci l’orario di visite…».

Kiyoko annuì, sedendosi e facendo fare lo stesso ad una Yachi estremamente provata: era stata lei a chiamarla, dopo che Yamaguchi l’aveva informata – aveva preferito che sentisse una notizia del genere dalla sua voce, piuttosto che da quella di chiunque altro. Sapeva che parole usare e in che modo prepararla ed il loro legame avrebbe fatto sì che Hitoka non desse letteralmente di matto per la preoccupazione, almeno finché non fosse arrivata a casa sua. Ma ovviamente neanche Shimizu aveva potuto evitare che la ragazza si spaventasse tanto a sentire, soprattutto, le condizioni di Daichi, quindi aveva convenuto che l’unica soluzione sarebbe stata quella di andare quanto prima in ospedale.

«…Asahi?», chiese, con una certa innocenza Yachi, ma dall’espressione che assunsero subito sia Hinata che Kageyama capì di aver detto qualcosa di non così tanto semplice. Era successo qualcosa anche a lui? …Forse per via del legame?

«Durante la notte è andato via. Nessuno lo ha più visto da allora», disse con un certo disagio Shouyou «Yamaguchi si è offerto di andare a cercarlo, insieme a Tsukki ed Ennoshita – si sono allontanati una mezz’ora fa».

«Azumane non è il compagno del vostro Libero?», si trovò a chiedere, sorpreso, Iwaizumi. Kageyama annuì e nessuno continuò su quell’argomento: non era normale che qualcuno lasciasse il proprio compagno in una situazione del genere – se Hajime aveva sentito chiaramente la preoccupazione di Tobio, allora che cosa dovevano star provando Asahi e Yuu?

 

***

 

«Non so se te l’ho mai detto, ma ho passato davvero tanto tempo a chiedermi di che colore fossero i tuoi capelli… Non avrei mai pensato che fossero così, ma mi piace molto questa sfumatura di castano: ti dona tantissimo, ti rende ancora più autoritario come capitano».

La voce di Koushi s’alzò di un tono quando proruppe in una risata che suonava allo stesso tempo incontrollabile e forzata, isterica. Il ragazzo stava appoggiato al lato del letto di Daichi, puntellato su di un gomito, mentre l’altra mano giocherellava con le ciocche di capelli del ragazzo – le dita parevano volerle conoscere da capo perché erano nuove alla vista e illudevano di essere tali anche agli altri sensi. Suga non si sarebbe mai aspettato, però, di farlo mentre Daichi dormiva di un sonno non suo.

«Ora mi chiedo se anche i tuoi occhi siano più o meno dello stesso colore… Ma sai… per poterli vedere devi svegliarti, devi stare bene… Ti prego, ti prego Daichi, tu devi stare bene… Io non posso, non credo di essere tanto forte da poter reggere… non so come si faccia, Daichi…».

Le lacrime presero a scivolare lungo le guance di Suga senza che questi potesse impedirlo o volesse farlo: aveva resistito tutta la notte, non s’era lasciato andare davanti agli altri, nonostante tutti dacché avevano saputo del legame, non avessero fatto altro che guardarlo con un misto di pietà e dispiacere. Ora sentiva ch’era arrivato il momento di piangere e disperarsi perché mai come allora si sentiva solo e perduto: aveva quello che più desiderava da quando aveva incontrato Daichi, ma i colori adesso sapevano solo di un’ironia cattiva e gli ricordavano costantemente che il legame forse era arrivato troppo tardi. O giusto in tempo per perché potesse sentirlo morire.

Le lacrime allora divennero singhiozzi, che scuotevano le spalle di Koushi in un pianto disperato: sentiva tutto il dolore dei compagni, ne era sopraffatto a tal punto che non poteva che sfogare in questo modo anche tutto il resto, soprattutto la rabbia. Mormorava parole sconnesse, continuando a pregare Daichi di non lasciarlo solo, di non andarsene in un modo tanto crudele, di resistere. Ce l’avevano fatta. Perché non potevano essere felici almeno stavolta?

La madre del ragazzo entrò in stanza senza fare rumore. Vide Suga, con il volto nascosto tra le lenzuola bianche del letto e le mani ora strette a pugni. Singhiozzava forte in un pianto che avrebbe fatto male a chiunque e che feriva lei nel profondo. Allungò una mano verso di lui: voleva confortarlo, dirgli che suo figlio era forte, che si sarebbe ripreso presto e sarebbero stati felici, ma esitò; bastò un attimo, la mano restò sospesa a mezz’aria, troppo lontana da Suga e troppo fredda. La donna realizzò che non poteva esserne certa: non poteva consolare quel ragazzo perché non era certa che il suo Daichi si sarebbe ripreso.

Uscì nello stesso modo in cui era entrata e fu come se non ci fosse mai stata nella stanza. Si chiuse la porta alle spalle e soffocò il pianto con una mano davanti alle labbra. Suo marito era ancora via, aveva detto di aver bisogno d’aria e lei aveva creduto di essere sola lì fuori.

«Signora Sawamura…?». La voce sottile di Hinata la riportò alla realtà: i compagni di squadra del figlio erano rimasti per tutta la notte lì con loro – alla fine anche i medici s’erano arresi e ad avevano permesso loro restare in corridoio, a patto che non disturbassero o entrassero in troppi nella stanza di Daichi.

Alzò la testa verso di loro e lesse su quei volti la serietà e la paura che fosse successo qualcosa: la guardavano con occhi spalancati e corpo rigido. Prima ancora che potesse specificare che non era successo nulla, che era stata la sofferenza di Suga a farle reagire in quel modo, si sentì un tonfo provenire dalla stanza. La donna si voltò spaventata, aprendo subito la porta, il suo pensiero allarmato andò a Daichi, a che cosa potesse aver provocato quel rumore.

Ciò che si trovarono davanti, la donna e i ragazzi, sorprese tutti. Suga era a terra, sulle ginocchia, una mano che cercava il letto da cui s’era allontanato di qualche passo e l’altra, invece, all’altezza del petto, sul quale calava la testa. Il respiro, pesante, era il solo rumore che scandiva quella scena.

«Su-sugawara», balbettò Yachi – non riusciva a muoversi, perché non capiva che cosa stava succedendo e lo stesso motivo pareva aver paralizzato tutti i presenti. Tranne Oikawa. Il capitano dell’Aoba si mosse e con un paio di falcate sicure fu al fianco dell’Alzatore, accovacciandosi accanto a lui, ma facendo bene attenzione a non toccarlo ancora.

«Posso immaginare che cosa tu stia provando, Sugawara. Non ti dirò che va tutto bene perché è evidente che non sia così, ma sono qui accanto a te, voglio aiutarti». Parlava in modo serio, ma la sua voce era allo stesso tempo calda e rassicurante. Koushi mosse la testa verso di lui.

«Mi manca l’aria», riuscì a dire, ma le parole erano uscite in modo forzato ed ora che era così vicino a lui, Oikawa vedeva quanto fosse pallido.

«È un principio di attacco di panico. Concentrati su di me, Sugawara. Proviamo a respirare insieme?».

Koushi non sapeva quello che stava facendo: non aveva mai sofferto di attacchi di panico prima e in quel momento gli pareva di non riuscire neanche a pensare. Che cosa aveva detto Oikawa? Respirare, doveva respirare. Come si respirava? Cercò il ragazzo con lo sguardo, ma tutto quello che riusciva effettivamente a pensare era che si stava comportando come uno stupido, proprio ora che doveva resistere, per Daichi. Se stai tanto male adesso, come reagiresti se lui morisse? Quel pensiero bloccò del tutto la difficile respirazione di Suga, che si sentì completamente sopraffatto da ciò che lo circondava.

«Sugawara? Sugawara? Koushi?!», cercò di chiamarlo Oikawa – sapeva che avrebbe dovuto portarlo fuori da quella stanza, prima che la situazione peggiorasse, ma gli interessava, prima, fargli riprendere una normale respirazione. «Guarda me, d’accordo?». Stava bene attento a non toccarlo, sebbene l’istinto fosse quello di metterlo quantomeno in piedi «Concentrati sulla mia respirazione. Ti va se proviamo a respirare insieme?».

La voce di Oikawa, così calma e forte, era un balsamo sulle insicurezze di Suga, sembrava spingere un po’ più lontano tutto ciò che incombeva su di lui, il legame che faceva male, Daichi che non era con lui, le mura di quella stanza improvvisamente troppo strette. Gli aveva detto di stare con lui, di guardarlo. Poteva farlo. Oikawa aveva preso a  respirare con forza, contando fino a due prima di espirare e di nuovo fino a due prima di inspirare; Koushi cercò di seguirlo rendendosi conto di quanto fossero corti i propri respiri all’inizio. Sotto lo guardo attonito di tutti i presenti, il capitano dell’Aoba riuscì lentamente a calmare l’alzatore della Karasuno, finché questo non fu in grado di alzarsi da solo: traballava, evidentemente scosso e pallido, ma respirava ora con una certa regolarità.

«Ha bisogno di una boccata d’aria. Vi spiace restare qui con il vostro capitano mentre lo porto fuori?». Oikawa non lo disse, ma sapeva che sarebbe stato meglio se a restare lì con Daichi fossero i compagni di squadra di Sugawara, invece che lui ed Iwaizumi: Koushi sarebbe stato più tranquillo e in compenso con un estraneo non avrebbe sentito la pressione di dover spiegare quello che era appena successo, se non voleva.

Hinata e Kageyama annuirono d’istinto e ad Iwaizumi bastò un’occhiata per capire che Tooru non aveva bisogno di compagnia. Annuì e lo guardò allontanarsi con Sugawara: lo conosceva abbastanza da sapere che era in piena fase recettiva – pronto a qualunque cosa fosse successa al ragazzo che aveva accanto. Quindi sapeva che sarebbe stato bene.

«Oikawa sa come gestire gli attacchi di panico?», chiese ancora sorpreso Kageyama, avvicinandosi ad Iwaizumi. Questi annuì con un leggero sospiro.

«Sappiamo entrambi come si fa, in realtà», specificò «Tooru sa mettere moltissima pressione su di sé. È una fortuna che sia effettivamente così bravo da superare sempre i propri limiti».

 

«Come ti senti?».

Ora che Koushi riusciva di nuovo a pensare con una certa lucidità, la prima cosa che notò fu che la voce di Oikawa era ancora sicura e calma – si sarebbe aspettato una certa esitazione, un muoversi intorno a lui incerto per via di quello che era successo, ma il ragazzo si comportava come se nulla fosse stato, quasi facesse quello per vivere, soccorre la gente così stupida da farsi venire un attacco di panico nei momenti meno opportuni.

«Improvvisamente stanco, ma tutto sommato bene. Mi fa un po’ male la testa…». Gli parlò con sincerità – il minimo che potesse fare, dopo tutto l’aiuto che gli aveva dato. «Grazie. Io… non m’era mai capitato prima».

«Non dirlo come se dovessi scusarti: non c’è nulla di cui vergognarsi. Con tutto quello che ti è successo e considerata l’influenza che il legame sta avendo sulla tua sfera emotiva e sensoriale, credo sia stato il minimo. Un po’ di aria fresca, qui, ti farà bene – e posso andare a prenderti dell’acqua al distributore, se vuoi».

Oikawa fece quasi per andarsene, ma Suga si mosse istintivamente verso di lui – non gli servì fermarlo perché questi tornasse sui suoi passi. Lo capiva: non voleva restare da solo, avrebbe dovuto pensarci. Gli sorrise – il suo sorriso malandrino, quello che Koushi aveva visto durante la partita dell’Inter High, che serviva per provocare. Strappò una breve risata anche a lui, per quanto inappropriata.

«Non isolarti, Mr. Refreshing, o perderai il tuo tocco magico. E la Karasuno ne ha troppo bisogno o la prossima volta che vi affronteremo, non arriverete neanche al terzo set».

Suga rise ancora – rise per il nome strano con cui lo aveva chiamato, per la sfacciataggine con cui stava parlando, perché il dolore che sentiva, forte ancora nel petto, era ancora lì ma stava almeno respirando. Rise tra le lacrime, che tornarono a ricordargli quello che stava affrontando. Oikawa restò lì a guardarlo – s’aspettava anche quello.

«Immagino possa chiamarsi un progresso», concluse, quando Suga riuscì di nuovo a calmarsi. Poi tornò serio «Sai… credo che ormai sia abbastanza chiaro a tutti quanto siano incasinati i legami. Tra me e Iwa-chan e lui e Kageyama e anche la piccola Esca… e poi tu e il capitano che vi trovate in questo modo… Forse è proprio questo il punto: la perfezione non esiste – certo, io ci sono spaventosamente vicino, ma non stiamo parlando di me ora. La perfezione non esiste, sarebbe troppo facile altrimenti, non ti pare? Credo che la cosa importante sia non mollare. Non mollare, Sugawara».

Oikawa lo guardava fisso, intendeva davvero quello che aveva detto. Koushi ci pensò: in fondo, lui il legame con Daichi lo aveva ed era corrisposto. Certo, il dolore che provava era tremendo e minacciava ancora di farlo crollare ad ogni istante, ma forse ne valeva la pena – Oikawa quel dolore non lo avrebbe mai provato.

«Mi riaccompagneresti dentro? Non voglio stare troppo lontano da lui…». Tooru sorrise.

«Certamente, Mr. Refreshing».

«Posso farti una domanda?». Suga non voleva essere indiscreto, ma Oikawa non esitò ad annuire. «Hai avuto a che fare con gli attacchi di panico…?».

«Sì, Koushi. Ho avuto a che fare con gli attacchi di panico».





 

 





________________

E quindi è successo, sono di nuovo cascata in questo prompt di soulmates complicate ed imperfette – dopo la prima c’avevo preso gusto… tanto che ho deciso di farne una serie. In teoria avrei i plot per altre due, ma non so con che tempi le realizzerò, soprattutto perché questa è stata chilometrica e ci ho impiegato mesi per concluderla. Ad ogni modo, farò di tutto per portare a termine il progetto!

 

Qualche precisazione… Come scritto già sopra, questa è la prima parte di tre (farvi sorbire un pippone di 54 pagine tutte in una volta mi pareva una punizione troppo crudele) e cercherò di pubblicare il resto abbastanza velocemente così che nel giro di una decina di giorni sia completa – dopotutto, era nata per essere una one-shot, anche se lunghissima e andrebbe letta come tale.

 

Ultima cosa: la frase latina che apre questa storia è tratta dal VII libro delle Metamorfosi di Ovidio e significa  “No, stretta a colui che amo, andrò attraverso gli ampi mari: nulla temerò fra le sue braccia o, se temerò qualcosa, temerò solo per il mio sposo”.

 

Detto ciò mi eclisso – a presto con le prossime parti.

 

Alch.

   
 
Leggi le 3 recensioni
Ricorda la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
   >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Haikyu!! / Vai alla pagina dell'autore: Alchimista