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Autore: Nemurenai    08/11/2016    2 recensioni
[…] Si rese conto di essere più legata al ricordo nostalgico che aveva di Nobita, piuttosto che al Nobita attuale.
Non avrebbe mai dimenticato i momenti, ora dolceamari, di quei pomeriggi d’infanzia fatti di ginocchia sbucciate, grandi sorrisi sdentati e risate cristalline, in cui erano inseparabili.
Il loro era stato un amore cucciolo e innocente, germogliato fra i banchi delle elementari, senza nemmeno essere consapevoli del significato di quei sentimenti. Eppure, ormai, non erano più compatibili. Era dura da mandar giù, ma doveva prendere atto che le persone cambiano, a volte in meglio, altre in peggio. Se si è fortunati si riesce a proseguire pacificamente il cammino insieme nonostante le diversità, ma più spesso ciò non è possibile poiché tali divergenze diventano insormontabili. […]

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[Gian ✘ Shizuka]
E se Nobita e Shizuka, ormai adolescenti, fossero impelagati in una relazione "tira e molla" che dura da anni?
E se Takeshi, alias Gian, avesse maturato, nel frattempo, un interesse per quest’ultima?
Genere: Commedia, Malinconico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Crack Pairing | Personaggi: Hidetoshi Dekisugi, Nobita Nobi, Shizuka Minamoto, Suneo Honekawa
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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FADED


Capitolo 1


 

L’intenso calore sprigionato dalla lattina di caffè caldo al caramello, appena elargita dal distributore automatico, le avvolse le mani guantate di lana, strappandole un sospiro estasiato. Detestava il freddo pungente di quei giorni almeno quanto odiava attendere quel ritardatario cronico di Nobita. Shizuka diede una rapida occhiata all’orologio da polso, domandandosi perché negli ultimi tempi quel benedetto ragazzo, a lezioni terminate, finisse sempre per farsi incastrare oltre l’orario dovuto con gli allenamenti del club di baseball.

“Lo sai che non c’è modo di sottrarsi alla dittatura di quel prepotente di Gian”, piagnucolava Nobita ogni volta. Lui e Suneo non avevano mai smesso di chiamarlo col nomignolo che gli avevano affibbiato fin dall’infanzia. “Scusa tanto se preferisco farti aspettare un po’ piuttosto che rischiare la vita, sai com’è.”

Sì, Shizuka lo sapeva bene com’era. Era sempre stato così.

Per non parlare di quando respingeva i suoi inviti ad uscire accampando le solite pigre motivazioni, ossia che preferiva starsene in casa a giocare ai videogames, a leggere manga o semplicemente a cazzeggiare in libertà. Non si impegnava neppure nell’inventare scuse che la ferissero meno della seccante verità.

Purtroppo, malgrado tutti i suoi sforzi, la situazione rimaneva pressoché invariata rispetto ai due anni precedenti.

Si portò la lattina alle labbra ma il caffè doveva essere della stessa temperatura del nucleo terrestre, arguì Shizuka, rimpiangendo di non poterlo bere subito per riscaldarsi. Rabbrividendo, si tirò la sciarpa fin sul naso e si accomodò meglio sui gradini davanti all’ingresso della scuola, su cui era seduta da venti minuti buoni. Li percepiva fastidiosamente gelidi, nonostante lo spesso strato di collant invernali e il tessuto pesante della gonna della divisa che indossava. Era già buio da un pezzo ed erano quasi le sei, ormai a quell’ora non era rimasto praticamente più nessuno a parte la squadra di baseball; difatti, le giungevano alle orecchie grida e rumori ovattati provenienti dal campo dietro l’istituto.

- Shizuka-chan? Cosa fai qui al freddo?

La voce di Takeshi la fece sobbalzare, non l’aveva sentito arrivare. Alzò lo sguardo verso l’imponente figura che le si era stagliata davanti e accennò un saluto con la mano guantata con cui reggeva la lattina. – Ehilà, capitano. Aspetto qualcuno che tu stai trattenendo, se proprio vuoi saperlo.

Udendo la sua risposta Takeshi aggrottò un sopracciglio. – Ah, intendi quel perdente? Ma quand’è che ti deciderai a piantarlo?

Il suo tono piccato e l’epiteto con cui aveva apostrofato Nobita la fecero un filo indisporre. Takeshi, caratterialmente, non era cambiato poi molto dai tempi delle elementari. Iperattivo, irascibile e carismatico, la sua fama di piantagrane continuava a precederlo, anche se con l’età aveva maturato una certa lungimiranza. Aveva imparato che non era indispensabile ricorrere sempre alla violenza per farsi rispettare, benché restasse il suo mezzo di coercizione preferito e non esitasse a farne uso, se necessario. Fisicamente, invece, da quando si era iscritto al club di pugilato e a quello di kendo - che alternava ai soliti allenamenti di baseball - aveva messo su molti più muscoli, tanto che aveva smaltito parecchia massa grassa, riuscendo in parte a sconfiggere la sua palese tendenza al sovrappeso. Massiccio e corpulento lo era sempre stato – ormai doveva essere alto quasi un metro e novanta - ma ora aveva acquisito un aspetto ancor più minaccioso, coadiuvato da un irsutismo galoppante: era inusuale per un diciottenne avere tanta peluria, una volta le aveva detto di doversi radere ogni mattina altrimenti nel giro di poco non l’avrebbero riconosciuto. “In realtà dovrei farlo due volte al giorno, ma chi ha tempo e voglia”, aveva aggiunto, mentre si carezzava accigliato il perenne filo di barba ispida che ormai aveva rinunciato ad eliminare.

- Sì, uhm, lasciamo stare. Tu com’è che non sei a dare ordini ai tuoi?

Takeshi si spolverò un istante la divisa sportiva inzaccherata di terriccio e polvere, prima di sedersi accanto a lei e risponderle che era venuto a prendersi una bevanda al distributore in un momento di pausa. Rimasero per qualche minuto in silenzio, lei a sorseggiare il caffè finalmente raffreddatosi e lui a grattarsi via le crosticine da una nocca escoriata.

- Dovresti mollarlo sul serio, Shizuka-chan.

La visiera del cappello da baseball gli adombrava gli occhi e lei non riuscì a cogliere la sua espressione mentre pronunciava quelle parole, che gli aveva già sentito dire molte altre volte. Recentemente quei consigli non richiesti si erano fatti più pressanti e cominciavano a metterla a disagio. Non bastavano le sue amiche, che ogni due per tre ci tenevano a rimarcarle quanto fossero discutibili le sue scelte in campo sentimentale, spesso e volentieri ci si metteva pure lui a redarguirla.

- Non hai ancora preso da bere, Takeshi-kun – Replicò lei, sforzandosi per mantenersi distaccata. Sperava che abboccasse al suo tentativo di cambiare argomento o che, perlomeno, intuisse che non era il caso di insistere a battere sullo stesso tasto.

Lui sbuffò e, dopo essersi tolto il cappello con fare insofferente, si ravviò vigorosamente i capelli arruffati, voltandosi a guardarla.

- Dannazione, proprio non vuoi capire che non può funzionare, eh?

Avrebbe voluto evitare di suonare così rabbioso, ma raramente ciò che usciva dalla sua bocca era filtrato o edulcorato e si raggelò notando le spalle dell’amica che iniziavano a tremare, mentre gli occhi le si riempivano di lacrime. Rimase pietrificato, sentendosi un autentico verme.

- Scusami, Shizuka-chan…non piangere, scusami, ti prego - Annaspò, maledicendosi in tutte le lingue conosciute. Possibile che non riuscisse mai a collegare il cervello prima di parlare? Eppure lo sapeva che la questione era delicata. Lo era da oltre due anni, e lui era arcistufo di vederla soffrire per colpa di quell’imbecille.

Era stufo a tal punto che aveva dovuto sopprimere l’istinto di gonfiarlo di botte in tante di quelle occasioni che aveva perso il conto, ormai, e costringerlo a interminabili sessioni di allenamento o fargli fare da raccattapalle altro non erano che modi alternativi che usava per sfogarsi nei momenti in cui gli prudevano le mani. Nobita, dal canto suo, sembrava essere davvero perseguitato dalla sfortuna e da incidenti sistematici se Takeshi gli orbitava nei dintorni, tipo quando lo aveva centrato con la mazza da baseball che casualmente gli era sfuggita, oppure quando aveva allungato troppo le gambe sotto al proprio banco e lui vi era accidentalmente inciampato. Cose che capitano, si giustificava Takeshi facendo spallucce.

- Non preoccuparti, non è colpa tua - Singhiozzò Shizuka, recuperando un fazzoletto dalla tasca col quale tamponarsi le lacrime. Si era imposta di non piangere, non più, ma non aveva potuto farci nulla. – Lo so che abbiamo dei problemi. È che… - Avrebbe voluto aggiungere altro, ma il groppo che avvertiva in gola glielo impedì.

In quel frangente realizzò la triste verità, e fu come una stilettata al cuore.

Si rese conto di essere più legata al ricordo nostalgico che aveva di Nobita, piuttosto che al Nobita attuale. Non avrebbe mai dimenticato i momenti, ora dolceamari, di quei pomeriggi d’infanzia fatti di ginocchia sbucciate, grandi sorrisi sdentati e risate cristalline, in cui erano inseparabili.

 

Il loro era stato un amore cucciolo e innocente, germogliato fra i banchi delle elementari, senza nemmeno essere consapevoli del significato di quei sentimenti. Non avevano neppure compiuto tredici anni quando si erano messi insieme la prima volta, più per gioco che per altro, non avendo un’idea precisa di cosa volesse dire esattamente essere “fidanzati”. La loro innata complicità li aveva legati durante il periodo delle medie senza nessun intoppo, ma poi erano iniziate le superiori, e Nobita era cambiato.

L’essere letargico e svogliato erano aspetti peculiari del suo carattere, e Shizuka credeva di essere ormai abituata a quei lati della sua personalità; però, da quando Doraemon se ne era andato, la sua indolenza aveva raggiunto picchi difficilmente sopportabili. A poco a poco aveva incominciato a non chiamarla più così spesso, ad arrivare in ritardo agli appuntamenti, a non proporre quasi mai qualcosa di interessante da fare. Alla soglia dei sedici anni, passavano le loro serate come una coppia stanca e annoiata sposata da svariate decadi, ossia in camera a guardare la tv o peggio, a guardare lui in panciolle sul tatami che giocava con qualche nuovo videogioco. Shizuka sapeva che non aveva mai superato l’abbandono di Doraemon e che soffriva moltissimo per la sua perdita, difatti il solo toccare l’argomento lo incupiva e lei aveva imparato ad evitarlo accuratamente. Nobita non riusciva proprio ad accettare che il suo migliore amico fosse dovuto tornare nel futuro.

“Non puoi contare sempre sul mio aiuto. Non mi avrai al tuo fianco per tutta la vita, dovrai imparare a cavartela.”

Shizuka rimembrava distintamente il monito che soleva pronunciare quel compagno di giochi eccezionale che era stato Doraemon. Per merito suo avevano potuto passare un’infanzia straordinaria e gliene sarebbero stati eternamente riconoscenti, ma, come tutte le cose belle, anche questa era giunta a una conclusione.

Aveva compiuto quindici anni da poco quando, una mattina, Nobita si era svegliato e non lo aveva più trovato.

“Mi mancherai. Ho voluto davvero bene a tutti voi, ma devo tornare nel mio tempo. Ormai sei abbastanza grande per affrontare le difficoltà da solo. So che puoi farcela, io credo in te.”

Questo era l’unico messaggio che Doraemon gli aveva lasciato. Nobita, incredulo e col cuore a pezzi, aveva passato infinite volte i polpastrelli sui punti in cui l’inchiostro appariva sbiadito, pensando alle lacrime che il suo amico, il suo insostituibile amico, doveva aver versato mentre scriveva quelle righe strazianti.

Da quel giorno si era chiuso in sé stesso, e ci erano voluti mesi prima che tornasse a sembrare il solito Nobita; però Shizuka, che lo conosceva bene, aveva percepito che qualcosa dentro di lui si era irrimediabilmente spezzato. Lei aveva provato a scuoterlo dalla sua apatia in tutti i modi, a sorreggerlo e incoraggiarlo, ma la sua pazienza non era sconfinata e aveva compreso che la situazione era compromessa quando aveva iniziato a chiedersi perché avrebbe dovuto continuare a passare la sua irripetibile e preziosa adolescenza, o peggio, tutta la vita con lui, che da tempo non la faceva più sentire speciale e, cosa assai più grave, ormai la dava per scontata: Shizuka era sempre stata al suo fianco, nelle gioie e nelle asperità, comportandosi in modo leale nei suoi confronti, e forse proprio questo lo aveva fatto “adagiare sugli allori”, portandolo a trascurare la fedele compagna oltre i limiti del tollerabile.

Così, per dare una scossa a una relazione agli sgoccioli, Shizuka aveva preso la dolorosa decisione di lasciarlo, sperando che si rendesse conto del reale stato delle cose. In un primo momento aveva funzionato: Nobita le aveva chiesto disperatamente perdono riconoscendo i suoi errori, l’aveva ricoperta di attenzioni, regalini e smancerie varie, finché lei aveva ceduto ed erano tornati insieme.

L’idillio era durato un paio di mesi, nel corso dei quali avevano consumato la loro prima volta, che Shizuka ricordava con tenerezza: le lenti appannate, le guance imporporate, i gesti impacciati, la goffaggine, era tutto così…così da Nobita. Avevano lasciato che i loro cuori battessero all’unisono e che li guidassero alla scoperta l’uno del corpo dell’altra.

Ciò aveva alimentato in Shizuka la suggestione che avessero ripristinato il rapporto, recuperando l’affiatamento e la sintonia degli esordi, e che potessero seguitare ad affrontare le avversità della vita più uniti di prima.

Ma si trattava appunto soltanto di un’illusione, e l’impietosa realtà le si era presto rivelata nuovamente.

Nel giro di qualche mese erano ripiombati nella consueta routine: lei proponeva qualcosa da fare ma lui era sempre troppo stanco, troppo scazzato o troppo occupato per darle retta, il suo cellulare restava muto la maggior parte del tempo e le pigre serate davanti alla Playstation non facevano che sommarsi inesorabilmente. Anche il fare l’amore, quando succedeva, si era ridotto quasi a un atto “meccanico”, compiuto principalmente per rispondere alle esigenze del corpo ma non del cuore, e ciò l’aveva intristita più di tutto il resto. Che fossero una coppia male assortita risultava ovvio a chiunque, e nemmeno tre mesi dopo si erano lasciati di nuovo, salvo rimettersi insieme di lì a poco con ritrite promesse destinate ad essere infrante. Questo copione si ripeteva identico da due anni: ogni volta le giurava che sarebbe stato diverso, e invece non cambiava mai nulla. Shizuka, che fra gli amici si era guadagnata l’appellativo di “santa”, ormai era davvero esausta.

Eppure non si era certo risparmiata, gli aveva dato tante possibilità. Forse era il caso di rassegnarsi all’evidenza, anche se faceva male e al solo pensiero lo stomaco le si attorcigliava: loro due non erano più compatibili. Era dura da mandar giù, ma doveva prendere atto che le persone cambiano, a volte in meglio, altre in peggio. Se si è fortunati si riesce a proseguire pacificamente il cammino insieme nonostante le diversità, ma più spesso ciò non è possibile poiché tali divergenze diventano insormontabili.

Si odiava perché non era in grado di mettere una pietra sopra a quella relazione insostenibile che la stava consumando e in cui era impantanata da troppo.

Si odiava perché lo conosceva e gli voleva bene da quando aveva memoria e quei sentimenti, coltivati da sempre, non potevano essere cancellati con un colpo di spugna.

Si odiava perché non riusciva a togliersi Nobita dalla testa, a fare a meno di lui.

 

Aveva chiuso gli occhi per permettere che le ultime lacrime le rotolassero giù per le guance, con tutto l’intento di darsi una calmata, quando si sentì avvolgere in un abbraccio.

Takeshi detestava vederla piangere, a maggior ragione se quella reazione era stata innescata dalle sue parole involontariamente brusche. Nell’attimo stesso in cui aveva provato l’impulso irrefrenabile di stringerla a sé non aveva avuto neanche il tempo di registrare il pensiero che già l’aveva messo in pratica. Shizuka, dapprima stupita per quel contatto inaspettato, si lasciò andare e singhiozzò per un altro po’ sulla sua spalla, gettando alle ortiche i suoi fieri propositi di recuperare la compostezza.

Lei, Nobita e Takeshi, dopo le medie, avevano scelto di frequentare lo stesso istituto superiore pubblico e si vedevano ogni giorno. Non di rado Nobita la passava a prendere intorno alle sette e trenta e la riaccompagnava a casa a fine giornata, e talvolta a loro si univa pure Takeshi, se non era impegnato con i tre club di cui faceva parte. La mattina capitava che, lungo la via che conduceva alla fermata del bus, incrociassero Suneo o Dekisugi e che percorressero insieme quel pezzetto di strada, prima di salire sul mezzo che li avrebbe condotti alle rispettive scuole.

Suneo e Dekisugi erano infatti migrati verso altri lidi, più idonei alle tasche del primo e alle capacità del secondo. Suneo, finite le elementari, aveva scelto di proseguire gli studi iscrivendosi in un prestigioso istituto privato rinomato per la retta salatissima e frequentato esclusivamente da figli di gente facoltosa. Dekisugi era uno studente eccellente e giocava nel club di calcio del liceo che frequentava, il quale aveva la nomea di essere molto impegnativo ed era destinato ad accogliere i ragazzi dalle menti più brillanti della regione. La sua abilità con il pallone e l’umiltà che non mancava mai di dimostrare - nonostante gli ottimi voti, le notevoli doti atletiche e il bell’aspetto - lo avevano reso molto popolare, dando origine a una folta tifoseria capitanata da un nutrito fanclub di ragazze che, imperterrite, andavano a sostenerlo a tutte le partite. Shizuka si divertiva a prenderlo bonariamente in giro per via del suo stuolo di ammiratrici, e Dekisugi minimizzava sempre, imbarazzandosi.

I giorni spensierati della fanciullezza erano lontani ma, complici gli incontri mattutini sulla via per la scuola, i cinque non avevano mai interrotto i rapporti, alimentando anzi l’amicizia grazie anche a serate trascorse insieme e ad improvvisate gite fuoriporta. Suneo, in particolare, si sentiva con regolarità con Shizuka e Takeshi: la sua reputazione di epico pettegolo non era affatto immotivata e, per lui, sapere i dettagli della vita privata di quelli che considerava due dei suoi migliori amici era una questione di primaria importanza. Shizuka adorava la loro compagnia e non aveva mai avuto dubbi sul fatto che dei legami così saldi avrebbero retto al tormento del tempo senza colpo ferire, malgrado l’evolversi della storia con Nobita stesse facendo vacillare tutte le sue certezze.

- Scusa per lo spettacolo penoso - Sospirò lei, sentendosi meglio. - Grazie per il supporto.

Fece per ritrarsi ma lui la cinse più stretta, impedendole di muoversi.

- Takeshi-kun…? Adesso sto bene, puoi lasciarmi.

- No che non ti lascio – Sussurrò lui, il volto affondato nei suoi capelli che profumavano di fragola.

Per una frazione di secondo la mente di Shizuka venne attraversata dal pensiero che si sentiva davvero protetta fra le sue braccia possenti. Ebbe la sensazione di essere al sicuro, al riparo dalle intemperie del crudele mondo esterno, mentre il calore che il corpo di Takeshi le trasmetteva gradualmente scioglieva il ghiaccio che le attanagliava il cuore, alleggerendola. Come quando in inverno si avvicinano le mani gelate a una stufa accesa o si infilano le gambe sotto un kotatsu riscaldato per rifuggire il freddo. Era corroborante, persino confortante, perciò non cercò di divincolarsi ma anzi chiuse gli occhi e assaporò il momento, inebriandosi di quel tepore.

Non avrebbe saputo dire quanto avevano trascorso così; tuttavia, non fu niente di imbarazzante o spiacevole. Al contrario, era stato terapeutico, constatò poco dopo una Shizuka confusa, quando Takeshi la liberò dall’abbraccio.

Si era sentita talmente bene che avrebbe voluto chiedergli di stringerla ancora.

- S…scusami, Shizuka-chan, io… - Balbettò lui visibilmente turbato, calcandosi il berretto sugli occhi. – Non so cosa mi sia preso.

Era raro vedere Takeshi a disagio, e Shizuka si stupì sia di quello sia della serafica tranquillità che provava dentro di sé. Temeva che, ora che quel contatto lenitivo si era interrotto, l’ansia e l’inquietudine tornassero a tormentarla. Forse era sbagliato, forse non avrebbe dovuto, ma le parole le uscirono automaticamente, prima che avesse modo di impedirlo.

- Fallo di nuovo, per favore.

Takeshi non capì subito, o meglio, ci mise qualche attimo ad afferrare il senso di ciò che aveva udito, ma non se lo fece ripetere due volte. In un istante la avviluppò in un secondo caloroso abbraccio e, quando la sentì sospirare in quello che sembrava tanto un fremito di piacere, il cuore prese a battergli all’impazzata, quasi dovesse schizzargli fuori dal petto.

 

La verità, nemmeno molto malcelata, era che Shizuka gli piaceva da tempo. Era un sentimento insinuatosi dapprima a livello inconscio, che si era sviluppato adagio covando sotto la cenere a lungo, e che infine aveva preso il sopravvento.

Ne aveva preso piena coscienza una sera in cui erano andati, in compagnia di un gruppo di stoici amici, a cantare al karaoke. Quel giorno aveva litigato pesantemente con sua sorella Jaiko per una sciocchezza, ed era di cattivo umore. Shizuka, essendo dotata di un’empatia fuori dal comune, aveva notato subito che qualcosa lo impensieriva e per distrarlo aveva proposto un appuntamento - denominato poi uscita kamikaze dai sopravvissuti - insieme a un manipolo di temerari compagni della squadra di baseball e del club di kendo, eroicamente disposti a sorbirsi le sue atroci performance canore. Ciò che Shizuka non immaginava era che quei poveretti avevano accettato solo perché era stata lei a chiederlo loro: l’aura benefica che emanava, di cui era totalmente inconsapevole, rendeva assai arduo agli altri il compito di negarle qualcosa. Pareva che solo Nobita avesse la capacità di declinare le sue richieste senza troppe difficoltà.

Quella tragica serata era stata allucinante, al punto che molti avevano creduto di perdere l’udito o avevano desiderato di diventare sordi pur di potersi sottrarre a quel supplizio. Takeshi, che purtroppo non aveva mai perso la passione per il canto, trovandosi in uno degli ambienti a lui più congeniali si era ringalluzzito all’istante e aveva monopolizzato il microfono sin dall’inizio, stordendo i presenti con un repertorio di canzoni enka condite di stecche leggendarie e grida inumane. Alla fine del festino molti giacevano semi-svenuti, mentre Shizuka era l’unica che ancora aveva la forza e il coraggio di battergli le mani. Incrociando il suo sguardo e vedendo quel sorriso, aveva provato un tuffo al cuore, poi una sensazione di calore gli si era irradiata nel petto e aveva sentito le farfalle nello stomaco.

Uh-oh, brutto segno”, si era detto, allocchito. All’epoca lei e il sempiterno fidanzato Nobita si erano appena riavvicinati dopo una fase tormentata e l’ultima cosa che voleva era infatuarsi di una ragazza così irraggiungibile; tuttavia, l’amore ha la simpatica abitudine di sfuggire al controllo, e da allora aveva cominciato a vederla con occhi diversi, fino a perdere completamente la testa.

Gli anni passavano ineluttabili, da bambini si erano fatti adolescenti e ora da adolescenti si avviavano a diventare giovani adulti, eppure Shizuka continuava a raccogliersi i capelli in due sobri codini, che le ricadevano morbidamente ai lati di un collo sottile e delicato; le labbra, che soleva mordicchiarsi quando qualcosa la preoccupava, avevano perennemente un filo di gloss lucido che le rendeva, se possibile, ancor più desiderabili; gli occhi, di un bel color nocciola, erano incorniciati da ciglia lunghe e folte. Era sempre stata carina e probabilmente da piccoli avevano tutti un po’ un debole per lei, ma crescendo era sbocciata di una bellezza tale, sia interiore sia esteriore, che per lui equivaleva a un tesoro da salvaguardare.

Era comprensibile e naturale che, dati gli sviluppi della sua storia con Nobita, l’astio che provava nei confronti di quest’ultimo non avesse fatto che accentuarsi. Quel maledetto aveva il privilegio di poterla avere accanto a sé e non se ne curava! ...Se non gli aveva ancora cambiato i connotati era unicamente per non dare un dispiacere a Shizuka, la quale provava un affetto sincero e incondizionato verso un ragazzo che, ne era più che convinto, non la meritava affatto.

 

Non gli sembrava vero di poterla stringere così. La prima volta aveva agito trasportato dalle circostanze, per cercare di placare le sue lacrime, e temeva che avrebbe potuto non prendere bene quell’azzeramento improvviso delle distanze di sicurezza. Figuriamoci chiedergli il bis…!

Se era un sogno non voleva svegliarsi.

 

Rimasero abbracciati finché Shizuka, in preda a qualche scrupolo di coscienza, ritenne che sarebbe stato opportuno recuperare i rispettivi spazi vitali. Non tanto perché non si sentisse a proprio agio, quanto perché non voleva approfittare della gentilezza dell’amico, e poi non amava farsi compatire.

Takeshi, manco a dirlo, era restio a lasciarla andare e, dopo quello scorcio di paradiso, aveva dovuto fare appello a tutta la sua forza di volontà per ritornare sulla Terra. A nulla erano valse le preghiere silenziose, espresse a non meglio precisate divinità, affinché prolungassero il più a lungo possibile quei momenti. Era inevitabile che presto o tardi sarebbe stato riportato alla realtà.

- Ti ringrazio, Takeshi-kun.

Sembrava un sorriso dolce e sereno quello che gli aveva rivolto Shizuka, mentre si risistemava una ciocca di capelli dietro l’orecchio, ma, oltre la superficie, si intravedeva un’incrinatura. Lui, che la conosceva da quando era nato, se ne accorse subito, e se ne rammaricò. Gli salì un moto di stizza e si ripromise di massacrare Nobita di allenamenti, non appena fosse tornato dalla squadra.

- Di nulla. Per qualsiasi cosa io ci sono, lo sai.

Shizuka annuì e lo salutò con la mano, mentre lo guardava allontanarsi.

Ancora non poteva immaginarlo, ma l’avrebbe rivisto di lì a poco siccome Nobita, alla fine, non si fece vivo e fu lui ad offrirsi di riaccompagnarla a casa. A detta di Takeshi, doveva essersi dato alla macchia approfittando della sua temporanea assenza, dato che rientrando in campo non l’aveva trovato. Aveva creduto che avesse raggiunto la fidanzata e si era sentito al contempo sollevato, perché almeno Shizuka aveva finito di aspettare al freddo, e furioso, perché aveva osato disertare. Poco male, si era detto, tanto gliel’avrebbe fatta pagare il giorno dopo trucidandolo a suon di sessioni extra.

Mezz’ora dopo, avviandosi verso l’uscita ad allenamenti ultimati, aveva scorto la sagoma della ragazza, immobile nello stesso punto in cui l’aveva lasciata, e gli era quasi caduta la mandibola dalla sorpresa. Non erano servite nemmeno le numerose chiamate effettuate da Shizuka verso il cellulare di Nobita, lui non aveva mai risposto.

In un certo senso, quella era stata la goccia che aveva fatto traboccare il vaso.

Era troppo. Decise che era ora di abbandonare ogni remora per cercare di portargliela via.

 

***

 

Shizuka sospirò, guardando fuori dalla finestra della propria camera. Il cielo notturno era privo di stelle e le dense nubi cineree avevano tutta l’aria di essere cariche di neve; le probabilità che la mattina successiva avrebbe trovato il paesaggio spolverato di bianco erano alte.

Sorrise fra sé e sé, ricordando che da piccola adorava giocare nella neve con Nobita e i suoi amici, ma non erano più bambini. Doveva scrollarsi di dosso la malinconia e convincersi che continuare ad avere delle aspettative le avrebbe nuociuto e basta.

Sarebbe stata un’altra notte insonne, come tante ce n’erano state in quegli ultimi due anni.

Per la prima volta, però, ad occupare i suoi pensieri e il suo cuore in subbuglio non ci sarebbe stato solo Nobita, ma anche Takeshi e l’impressione che il suo abbraccio avvolgente le avesse fatto da cerotto per l’anima.

 

 

 

 

…E niente, spero che la mia crack ship preferita non abbia traumatizzato nessuno XD

Scusate per la pesantezza di questo primo capitolo, ma era necessario per spiegare gli antefatti. Spero che i prossimi siano più “snelli” ^^;

Il rating per ora è arancione perché in futuro potrebbero esserci parti un po’…uhm, hot?, che lo richiederanno, ma è una fanfiction in corso d’opera e non so ancora con esattezza come si evolverà. Prendete quello che viene senza farvi troppe domande e grazie per aver letto fin qui J

 

 

 

 

  
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