≈FADED≈
Capitolo
1
L’intenso
calore sprigionato dalla lattina di caffè caldo al
caramello, appena elargita dal distributore automatico, le avvolse le
mani
guantate di lana, strappandole un sospiro estasiato. Detestava il
freddo
pungente di quei giorni almeno quanto odiava attendere quel
ritardatario
cronico di Nobita. Shizuka diede una rapida occhiata
all’orologio da polso,
domandandosi perché negli ultimi tempi quel benedetto
ragazzo, a lezioni
terminate, finisse sempre per farsi incastrare oltre l’orario
dovuto con gli
allenamenti del club di baseball.
“Lo
sai che non c’è
modo di sottrarsi alla dittatura di quel prepotente di Gian”,
piagnucolava Nobita ogni volta. Lui e Suneo non avevano mai
smesso di chiamarlo col nomignolo che gli avevano affibbiato fin
dall’infanzia.
“Scusa
tanto
se preferisco farti aspettare un po’ piuttosto che rischiare
la vita, sai
com’è.”
Sì,
Shizuka lo sapeva bene com’era. Era sempre stato
così.
Per
non parlare di quando respingeva i suoi inviti ad uscire
accampando le solite pigre motivazioni, ossia che preferiva starsene in
casa a
giocare ai videogames, a leggere manga o semplicemente a cazzeggiare in
libertà.
Non si impegnava neppure nell’inventare scuse che la
ferissero meno della
seccante verità.
Purtroppo,
malgrado tutti i suoi sforzi, la situazione
rimaneva pressoché invariata rispetto ai due anni precedenti.
Si
portò la lattina alle labbra ma il caffè doveva
essere
della stessa temperatura del nucleo terrestre, arguì
Shizuka, rimpiangendo di
non poterlo bere subito per riscaldarsi. Rabbrividendo, si
tirò la sciarpa fin
sul naso e si accomodò meglio sui gradini davanti
all’ingresso della scuola, su
cui era seduta da venti minuti buoni. Li percepiva fastidiosamente
gelidi,
nonostante lo spesso strato di collant invernali e il tessuto pesante
della
gonna della divisa che indossava. Era già buio da un pezzo
ed erano quasi le
sei, ormai a quell’ora non era rimasto praticamente
più nessuno a parte la
squadra di baseball; difatti, le giungevano alle orecchie grida e
rumori
ovattati provenienti dal campo dietro l’istituto.
-
Shizuka-chan? Cosa fai qui al freddo?
La
voce di Takeshi la fece sobbalzare, non l’aveva sentito
arrivare. Alzò lo sguardo verso l’imponente figura
che le si era stagliata
davanti e accennò un saluto con la mano guantata con cui
reggeva la lattina. – Ehilà,
capitano. Aspetto qualcuno che tu stai trattenendo, se proprio vuoi
saperlo.
Udendo
la sua risposta Takeshi aggrottò un sopracciglio.
–
Ah, intendi quel perdente? Ma quand’è che ti
deciderai a piantarlo?
Il
suo tono piccato e l’epiteto con cui aveva apostrofato
Nobita la fecero un filo indisporre. Takeshi, caratterialmente, non era
cambiato poi molto dai tempi delle elementari. Iperattivo, irascibile e
carismatico, la sua fama di piantagrane continuava a precederlo, anche
se con
l’età aveva maturato una certa lungimiranza. Aveva
imparato che non era
indispensabile ricorrere sempre alla violenza per farsi rispettare,
benché restasse
il suo mezzo di coercizione preferito e non esitasse a farne uso, se
necessario. Fisicamente, invece, da
quando si era iscritto al
club di pugilato e a quello di kendo
- che alternava ai soliti allenamenti di baseball - aveva messo su
molti più muscoli,
tanto che aveva smaltito parecchia massa grassa, riuscendo in parte a
sconfiggere la sua palese tendenza al sovrappeso. Massiccio e
corpulento lo era
sempre stato – ormai doveva essere alto quasi un metro e
novanta - ma ora aveva
acquisito un aspetto ancor più minaccioso, coadiuvato da un
irsutismo
galoppante: era inusuale per un diciottenne avere tanta peluria, una
volta le
aveva detto di doversi radere ogni mattina altrimenti nel giro di poco
non
l’avrebbero riconosciuto. “In
realtà
dovrei farlo due volte al giorno, ma chi ha tempo e voglia”,
aveva
aggiunto, mentre si carezzava accigliato il perenne filo di barba
ispida che
ormai aveva rinunciato ad eliminare.
-
Sì,
uhm, lasciamo stare. Tu com’è che non sei a dare
ordini ai tuoi?
Takeshi
si
spolverò un istante la divisa sportiva
inzaccherata di terriccio e polvere, prima di sedersi accanto a lei e
risponderle che era venuto a prendersi una bevanda al distributore in
un
momento di pausa. Rimasero per qualche minuto in silenzio, lei a
sorseggiare il
caffè finalmente raffreddatosi e lui a grattarsi via le
crosticine da una nocca
escoriata.
-
Dovresti mollarlo sul serio, Shizuka-chan.
La
visiera del cappello da baseball gli adombrava gli occhi e
lei non riuscì a cogliere la sua espressione mentre
pronunciava quelle parole,
che gli aveva già sentito dire molte altre volte.
Recentemente quei consigli
non richiesti si erano fatti più pressanti e cominciavano a
metterla a disagio.
Non bastavano le sue amiche, che ogni due per tre ci tenevano a
rimarcarle
quanto fossero discutibili le sue scelte in campo sentimentale, spesso
e
volentieri ci si metteva pure lui a redarguirla.
-
Non hai ancora preso da bere, Takeshi-kun –
Replicò lei, sforzandosi
per mantenersi distaccata. Sperava che abboccasse al suo tentativo di
cambiare
argomento o che, perlomeno, intuisse che non era il caso di insistere a
battere
sullo stesso tasto.
Lui
sbuffò e, dopo essersi tolto il cappello con fare
insofferente, si ravviò vigorosamente i capelli arruffati,
voltandosi a
guardarla.
-
Dannazione, proprio non vuoi capire che non può funzionare,
eh?
Avrebbe
voluto evitare di suonare così rabbioso, ma raramente
ciò che usciva dalla sua bocca era filtrato o edulcorato e
si raggelò notando
le spalle dell’amica che iniziavano a tremare, mentre gli
occhi le si
riempivano di lacrime. Rimase pietrificato, sentendosi un autentico
verme.
-
Scusami, Shizuka-chan…non piangere, scusami, ti prego -
Annaspò, maledicendosi in tutte le lingue conosciute.
Possibile che non riuscisse
mai a collegare il cervello prima di parlare? Eppure lo sapeva che la
questione
era delicata. Lo era da oltre due anni, e lui era arcistufo di vederla
soffrire
per colpa di quell’imbecille.
Era
stufo a tal punto che aveva dovuto sopprimere l’istinto
di gonfiarlo di botte in tante di quelle occasioni che aveva perso il
conto,
ormai, e costringerlo a interminabili sessioni di allenamento o fargli
fare da
raccattapalle altro non erano che modi alternativi che usava per
sfogarsi nei momenti in cui gli prudevano le mani. Nobita, dal canto
suo,
sembrava essere davvero perseguitato dalla sfortuna e da incidenti
sistematici
se Takeshi gli orbitava nei dintorni, tipo quando lo aveva centrato con
la
mazza da baseball che casualmente
gli
era sfuggita, oppure quando aveva allungato troppo le gambe sotto al
proprio
banco e lui vi era accidentalmente
inciampato. Cose che capitano, si giustificava Takeshi facendo
spallucce.
-
Non preoccuparti, non è colpa tua - Singhiozzò
Shizuka, recuperando
un fazzoletto dalla tasca col quale tamponarsi le lacrime. Si era
imposta di
non piangere, non più, ma non aveva potuto farci nulla.
– Lo so che abbiamo dei
problemi. È che… - Avrebbe voluto aggiungere
altro, ma il groppo che avvertiva
in gola glielo impedì.
In
quel frangente realizzò la triste verità, e fu
come una
stilettata al cuore.
Si
rese conto di essere più legata al ricordo nostalgico che
aveva di Nobita, piuttosto che al Nobita attuale. Non avrebbe mai
dimenticato i
momenti, ora dolceamari, di quei pomeriggi d’infanzia fatti
di ginocchia
sbucciate, grandi sorrisi sdentati e risate cristalline, in cui erano
inseparabili.
Il
loro era stato un amore cucciolo e innocente, germogliato
fra i banchi delle elementari, senza nemmeno essere consapevoli del
significato
di quei sentimenti. Non
avevano neppure compiuto tredici anni
quando si erano messi insieme la prima volta, più per gioco
che per altro, non
avendo un’idea precisa di cosa volesse dire esattamente
essere “fidanzati”. La
loro innata complicità li aveva legati durante
il periodo delle
medie senza nessun intoppo, ma poi erano iniziate le superiori, e
Nobita era
cambiato.
L’essere
letargico e svogliato erano aspetti peculiari del suo carattere, e
Shizuka
credeva di essere ormai abituata a quei lati della sua
personalità; però, da quando
Doraemon se ne era andato, la sua indolenza aveva raggiunto picchi
difficilmente sopportabili. A poco a poco aveva incominciato a non
chiamarla
più così spesso, ad arrivare in ritardo agli
appuntamenti, a non proporre quasi
mai qualcosa di interessante da fare. Alla soglia dei sedici anni,
passavano le
loro serate come una coppia stanca e annoiata sposata da svariate
decadi, ossia
in camera a guardare la tv o peggio, a guardare lui in panciolle sul tatami che giocava con qualche nuovo
videogioco. Shizuka sapeva che non aveva mai superato
l’abbandono di Doraemon e
che soffriva moltissimo per la sua perdita, difatti il solo toccare
l’argomento
lo incupiva e lei aveva imparato ad evitarlo accuratamente. Nobita non
riusciva
proprio ad accettare che il suo migliore amico fosse dovuto tornare nel
futuro.
“Non
puoi contare sempre sul mio aiuto.
Non mi avrai al tuo fianco per tutta la vita, dovrai imparare a
cavartela.”
Shizuka
rimembrava distintamente il monito che soleva pronunciare quel compagno
di
giochi eccezionale che era stato Doraemon. Per merito suo avevano
potuto passare
un’infanzia straordinaria e gliene sarebbero stati
eternamente riconoscenti, ma,
come tutte le cose belle, anche questa era giunta a una conclusione.
Aveva
compiuto quindici anni da poco quando, una mattina, Nobita si era
svegliato e
non lo aveva più trovato.
“Mi
mancherai. Ho voluto davvero bene a
tutti voi, ma devo tornare nel mio tempo. Ormai sei abbastanza grande
per
affrontare le difficoltà da solo. So che puoi farcela, io
credo in te.”
Questo
era l’unico messaggio che Doraemon gli aveva lasciato.
Nobita, incredulo e col
cuore a pezzi, aveva passato infinite volte i polpastrelli sui punti in
cui
l’inchiostro appariva sbiadito, pensando alle lacrime che il
suo amico, il suo
insostituibile amico, doveva aver versato mentre scriveva quelle righe
strazianti.
Da
quel giorno si era chiuso in sé stesso, e ci erano voluti
mesi prima che
tornasse a sembrare il solito Nobita; però Shizuka, che lo
conosceva bene,
aveva percepito che qualcosa dentro di lui si era irrimediabilmente
spezzato.
Lei aveva provato a scuoterlo dalla sua apatia in tutti i modi, a
sorreggerlo e
incoraggiarlo, ma la sua pazienza non era sconfinata e aveva compreso
che la
situazione era compromessa quando aveva iniziato a chiedersi
perché avrebbe
dovuto continuare a passare la sua irripetibile e preziosa adolescenza,
o
peggio, tutta la vita con lui, che da tempo non la faceva
più sentire speciale
e, cosa assai più grave, ormai la dava per scontata: Shizuka
era sempre stata
al suo fianco, nelle gioie e nelle asperità, comportandosi
in modo leale nei
suoi confronti, e forse proprio questo lo aveva fatto
“adagiare sugli allori”,
portandolo a trascurare la fedele compagna oltre i limiti del
tollerabile.
Così,
per dare una scossa a una relazione agli sgoccioli, Shizuka aveva preso
la
dolorosa decisione di lasciarlo, sperando che si rendesse conto del
reale stato
delle cose. In un primo momento aveva funzionato: Nobita le aveva
chiesto
disperatamente perdono riconoscendo i suoi errori, l’aveva
ricoperta di
attenzioni, regalini e smancerie varie, finché lei aveva
ceduto ed erano
tornati insieme.
L’idillio
era durato un paio di mesi, nel corso dei quali avevano consumato la
loro prima
volta, che Shizuka ricordava con tenerezza: le lenti appannate, le
guance
imporporate, i gesti impacciati, la goffaggine, era tutto
così…così da Nobita.
Avevano lasciato che i loro cuori battessero all’unisono e
che li guidassero
alla scoperta l’uno del corpo dell’altra.
Ciò
aveva alimentato in Shizuka la suggestione che avessero ripristinato il
rapporto, recuperando l’affiatamento e la sintonia degli esordi, e che
potessero seguitare ad
affrontare le avversità della vita più uniti di
prima.
Ma
si
trattava appunto soltanto di un’illusione, e
l’impietosa realtà le si era
presto rivelata nuovamente.
Nel
giro di qualche mese erano ripiombati nella consueta routine: lei
proponeva
qualcosa da fare ma lui era sempre troppo stanco, troppo scazzato o
troppo
occupato per darle retta, il suo cellulare restava muto la maggior
parte del
tempo e le pigre serate davanti alla Playstation non facevano che
sommarsi
inesorabilmente. Anche il fare l’amore, quando succedeva, si
era ridotto quasi
a un atto “meccanico”, compiuto principalmente per
rispondere alle esigenze del
corpo ma non del cuore, e ciò l’aveva intristita
più di tutto il resto. Che
fossero una coppia male assortita risultava ovvio a chiunque, e nemmeno
tre
mesi dopo si erano lasciati di nuovo, salvo rimettersi insieme di
lì a poco con
ritrite promesse destinate ad essere infrante. Questo copione si
ripeteva
identico da due anni: ogni volta le giurava che sarebbe stato diverso,
e invece
non cambiava mai nulla. Shizuka, che fra gli amici si era guadagnata
l’appellativo di “santa”, ormai era
davvero esausta.
Eppure
non si era certo risparmiata, gli aveva dato tante
possibilità. Forse era il
caso di rassegnarsi all’evidenza, anche se faceva male e al
solo pensiero lo
stomaco le si attorcigliava: loro due non erano più
compatibili. Era dura da
mandar giù, ma doveva prendere atto che le persone cambiano,
a volte in meglio,
altre in peggio. Se si è fortunati si riesce a proseguire
pacificamente il
cammino insieme nonostante le diversità, ma più
spesso ciò non è possibile
poiché tali divergenze diventano insormontabili.
Si
odiava perché non era in grado di mettere una pietra sopra a
quella relazione
insostenibile che la stava consumando e in cui era impantanata da
troppo.
Si
odiava perché lo conosceva e gli voleva bene da quando aveva
memoria e quei
sentimenti, coltivati da sempre, non potevano essere cancellati con un
colpo di
spugna.
Si
odiava
perché non riusciva a togliersi Nobita dalla testa, a fare a
meno di lui.
Aveva
chiuso gli occhi per permettere che le ultime lacrime le rotolassero
giù per le
guance, con tutto l’intento di darsi una calmata, quando si
sentì avvolgere in
un abbraccio.
Takeshi
detestava vederla piangere, a maggior ragione se quella reazione era
stata
innescata dalle sue parole involontariamente brusche.
Nell’attimo stesso in cui
aveva provato l’impulso irrefrenabile di stringerla a
sé non aveva avuto
neanche il tempo di registrare il pensiero che già
l’aveva messo in pratica.
Shizuka, dapprima stupita per quel contatto inaspettato, si
lasciò andare e
singhiozzò per un altro po’ sulla sua spalla,
gettando alle ortiche i suoi
fieri propositi di recuperare la compostezza.
Lei, Nobita e Takeshi, dopo le medie, avevano scelto di frequentare lo
stesso
istituto superiore pubblico e si vedevano ogni giorno. Non di rado
Nobita la
passava a prendere intorno alle sette e trenta e la riaccompagnava a
casa a
fine giornata, e talvolta a loro si univa pure Takeshi, se non era
impegnato
con i tre club di cui faceva parte. La mattina capitava che, lungo la
via che
conduceva alla fermata del bus, incrociassero Suneo o Dekisugi e che
percorressero
insieme quel pezzetto di strada, prima di salire sul mezzo che li
avrebbe
condotti alle rispettive scuole.
Suneo
e Dekisugi erano infatti migrati verso altri lidi, più
idonei alle tasche del
primo e alle capacità del secondo. Suneo, finite le
elementari, aveva scelto di
proseguire gli studi iscrivendosi in un prestigioso istituto privato
rinomato
per la retta salatissima e frequentato esclusivamente da figli di gente
facoltosa. Dekisugi era uno studente eccellente e giocava nel club di
calcio
del liceo che frequentava, il quale aveva la nomea di essere molto
impegnativo
ed era destinato ad accogliere i ragazzi dalle menti più
brillanti della
regione. La sua abilità con il pallone e
l’umiltà che non mancava mai di
dimostrare - nonostante gli ottimi voti, le notevoli doti atletiche e
il bell’aspetto
- lo avevano reso molto popolare, dando origine a una folta tifoseria
capitanata da un nutrito fanclub di
ragazze che, imperterrite, andavano a sostenerlo a tutte le partite.
Shizuka si
divertiva a prenderlo bonariamente in giro per via del suo stuolo di
ammiratrici, e Dekisugi minimizzava sempre, imbarazzandosi.
I
giorni spensierati della fanciullezza erano lontani ma, complici gli
incontri
mattutini sulla via per la scuola, i cinque non avevano mai interrotto
i
rapporti, alimentando anzi l’amicizia grazie anche a serate
trascorse insieme e
ad improvvisate gite fuoriporta. Suneo,
in particolare, si sentiva con
regolarità con
Shizuka e Takeshi: la
sua reputazione di epico pettegolo
non era affatto immotivata e,
per
lui, sapere i dettagli della vita privata di quelli che considerava due
dei
suoi migliori amici era una questione di primaria importanza.
Shizuka
adorava la loro compagnia e non aveva mai avuto dubbi sul fatto che dei
legami
così saldi avrebbero retto al tormento del tempo senza colpo
ferire, malgrado
l’evolversi della storia con Nobita stesse facendo vacillare
tutte le sue
certezze.
-
Scusa
per lo spettacolo penoso - Sospirò lei, sentendosi meglio. -
Grazie per il
supporto.
Fece
per ritrarsi ma lui la cinse più stretta, impedendole di
muoversi.
-
Takeshi-kun…?
Adesso sto bene, puoi lasciarmi.
-
No
che non ti lascio – Sussurrò lui, il volto
affondato nei suoi capelli che
profumavano di fragola.
Per
una frazione di secondo la mente di Shizuka venne attraversata dal
pensiero che
si sentiva davvero protetta fra le sue braccia possenti. Ebbe la
sensazione di
essere al sicuro, al riparo dalle intemperie del crudele mondo esterno,
mentre il
calore che il corpo di Takeshi le trasmetteva gradualmente scioglieva
il
ghiaccio che le attanagliava il cuore, alleggerendola.
Come
quando in inverno si avvicinano le mani gelate a una stufa accesa o si
infilano
le gambe sotto un kotatsu
riscaldato
per rifuggire il freddo. Era corroborante, persino confortante,
perciò non cercò di divincolarsi ma anzi chiuse
gli
occhi e assaporò il momento, inebriandosi di quel tepore.
Non
avrebbe saputo dire quanto avevano trascorso così; tuttavia,
non fu niente di
imbarazzante o spiacevole. Al contrario, era stato terapeutico,
constatò poco
dopo una Shizuka confusa, quando Takeshi la liberò
dall’abbraccio.
Si
era sentita talmente bene che avrebbe voluto chiedergli di stringerla
ancora.
-
S…scusami,
Shizuka-chan, io… - Balbettò lui visibilmente
turbato, calcandosi il berretto
sugli occhi. – Non so cosa mi sia preso.
Era
raro vedere Takeshi a disagio, e Shizuka si stupì sia di
quello sia della
serafica tranquillità che provava dentro di sé.
Temeva che, ora che quel
contatto lenitivo si era interrotto, l’ansia e
l’inquietudine tornassero a
tormentarla. Forse era sbagliato, forse non avrebbe dovuto, ma le
parole le
uscirono automaticamente, prima che avesse modo di impedirlo.
-
Fallo
di nuovo, per favore.
Takeshi
non capì subito, o meglio, ci mise qualche attimo ad
afferrare il senso di ciò
che aveva udito, ma non se lo fece ripetere due volte. In un istante la
avviluppò in un secondo caloroso abbraccio e, quando la
sentì sospirare in quello
che sembrava tanto un fremito di piacere, il cuore prese a battergli
all’impazzata, quasi dovesse schizzargli fuori dal petto.
La
verità, nemmeno molto malcelata, era che Shizuka gli piaceva
da tempo. Era un
sentimento insinuatosi dapprima a livello inconscio, che si era
sviluppato adagio
covando sotto la cenere a lungo, e che infine aveva preso il
sopravvento.
Ne
aveva
preso piena coscienza una sera in cui erano andati, in compagnia di un
gruppo
di stoici amici, a cantare al karaoke.
Quel giorno aveva litigato pesantemente con sua sorella Jaiko per una
sciocchezza, ed era di cattivo umore. Shizuka, essendo dotata di
un’empatia
fuori dal comune, aveva notato subito che qualcosa lo impensieriva e
per
distrarlo aveva proposto un appuntamento - denominato poi uscita kamikaze
dai
sopravvissuti - insieme a un manipolo di temerari compagni della
squadra di
baseball e del club di kendo, eroicamente disposti a sorbirsi le sue
atroci
performance canore. Ciò che Shizuka non immaginava era che
quei poveretti
avevano accettato solo perché era stata lei a chiederlo
loro: l’aura benefica
che emanava, di cui era totalmente inconsapevole, rendeva assai arduo
agli
altri il compito di negarle qualcosa. Pareva che solo Nobita avesse la
capacità
di declinare le sue richieste senza troppe difficoltà.
Quella
tragica serata era stata allucinante, al punto che molti avevano
creduto di
perdere l’udito o avevano desiderato di diventare sordi pur
di potersi
sottrarre a quel supplizio. Takeshi, che purtroppo non aveva mai perso
la
passione per il canto, trovandosi in uno degli ambienti a lui
più congeniali si
era ringalluzzito all’istante e aveva monopolizzato il
microfono sin
dall’inizio, stordendo i presenti con un repertorio di
canzoni enka condite di stecche
leggendarie e grida
inumane. Alla fine del festino molti giacevano semi-svenuti, mentre Shizuka era l’unica che
ancora aveva la forza e il coraggio di battergli le mani.
Incrociando il suo sguardo e vedendo quel sorriso, aveva provato un
tuffo al
cuore, poi una sensazione di calore gli si era irradiata nel petto e
aveva
sentito le farfalle nello stomaco.
“Uh-oh, brutto segno”, si era
detto,
allocchito. All’epoca lei e il sempiterno fidanzato Nobita si
erano appena
riavvicinati dopo una fase tormentata e l’ultima cosa che
voleva era infatuarsi
di una ragazza così irraggiungibile; tuttavia,
l’amore ha la simpatica
abitudine di sfuggire al controllo, e da allora aveva cominciato a
vederla con
occhi diversi, fino a perdere completamente la testa.
Gli
anni passavano ineluttabili, da bambini si erano fatti adolescenti e
ora da
adolescenti si avviavano a diventare giovani adulti, eppure Shizuka
continuava
a raccogliersi i capelli in due sobri codini, che le ricadevano
morbidamente ai
lati di un collo sottile e delicato; le labbra, che soleva
mordicchiarsi quando
qualcosa la preoccupava, avevano perennemente un filo di gloss lucido
che le
rendeva, se possibile, ancor più desiderabili; gli occhi, di
un bel color
nocciola, erano incorniciati da ciglia lunghe e folte. Era sempre stata
carina
e probabilmente da piccoli avevano tutti un po’ un debole per
lei, ma crescendo
era sbocciata di una bellezza tale, sia interiore sia esteriore, che
per lui
equivaleva a un tesoro da salvaguardare.
Era
comprensibile e naturale che, dati gli sviluppi della sua storia con
Nobita,
l’astio che provava nei confronti di quest’ultimo
non avesse fatto che
accentuarsi. Quel maledetto aveva il privilegio di poterla avere
accanto a sé e
non se ne curava! ...Se non gli aveva ancora cambiato i connotati era
unicamente per non dare un dispiacere a Shizuka, la quale provava un
affetto
sincero e incondizionato verso un ragazzo che, ne era più
che convinto, non la
meritava affatto.
Non
gli sembrava vero di poterla stringere così. La prima volta
aveva agito
trasportato dalle circostanze, per cercare di placare le sue lacrime, e
temeva
che avrebbe potuto non prendere bene quell’azzeramento
improvviso delle
distanze di sicurezza. Figuriamoci chiedergli il bis…!
Se
era un sogno non voleva svegliarsi.
Rimasero
abbracciati finché Shizuka, in preda a qualche scrupolo di
coscienza, ritenne
che sarebbe stato opportuno recuperare i rispettivi spazi vitali. Non
tanto
perché non si sentisse a proprio agio, quanto
perché non voleva approfittare
della gentilezza dell’amico, e poi non amava farsi compatire.
Takeshi,
manco a dirlo, era restio a lasciarla andare e, dopo quello scorcio di
paradiso, aveva dovuto fare appello a tutta la sua forza di
volontà per
ritornare sulla Terra. A nulla erano valse le preghiere silenziose,
espresse a
non meglio precisate divinità, affinché
prolungassero il più a lungo possibile
quei momenti. Era inevitabile che presto o tardi sarebbe stato
riportato alla
realtà.
-
Ti
ringrazio, Takeshi-kun.
Sembrava
un sorriso dolce e sereno quello che gli aveva rivolto Shizuka, mentre
si
risistemava una ciocca di capelli dietro l’orecchio, ma,
oltre la superficie,
si intravedeva un’incrinatura. Lui, che la conosceva da
quando era nato, se ne
accorse subito, e se ne rammaricò. Gli salì un
moto di stizza e si ripromise di
massacrare Nobita di allenamenti, non appena fosse tornato dalla
squadra.
-
Di
nulla. Per qualsiasi cosa io ci sono, lo sai.
Shizuka
annuì e lo salutò con la mano, mentre lo guardava
allontanarsi.
Ancora
non poteva immaginarlo, ma l’avrebbe rivisto di lì
a poco siccome Nobita, alla
fine, non si fece vivo e fu lui ad offrirsi di riaccompagnarla a casa.
A detta
di Takeshi, doveva essersi dato alla macchia approfittando della sua
temporanea
assenza, dato che rientrando in campo non l’aveva trovato.
Aveva creduto che
avesse raggiunto la fidanzata e si era sentito al contempo sollevato,
perché
almeno Shizuka aveva finito di aspettare al freddo, e furioso,
perché aveva
osato disertare. Poco male, si era detto, tanto gliel’avrebbe
fatta pagare il
giorno dopo trucidandolo a suon di sessioni extra.
Mezz’ora
dopo, avviandosi verso l’uscita ad allenamenti ultimati,
aveva scorto la sagoma
della ragazza, immobile nello stesso punto in cui l’aveva
lasciata, e gli era
quasi caduta la mandibola dalla sorpresa. Non erano servite nemmeno le
numerose
chiamate effettuate da Shizuka verso il cellulare di Nobita, lui non
aveva mai
risposto.
In
un
certo senso, quella era stata la goccia che aveva fatto traboccare il
vaso.
Era
troppo. Decise che era ora di abbandonare ogni remora per cercare di
portargliela
via.
***
Shizuka
sospirò, guardando fuori dalla finestra della propria
camera. Il cielo notturno
era privo di stelle e le dense nubi cineree avevano tutta
l’aria di essere
cariche di neve; le probabilità che la mattina successiva
avrebbe trovato il
paesaggio spolverato di bianco erano alte.
Sorrise
fra sé e sé, ricordando che da piccola adorava
giocare nella neve con Nobita e
i suoi amici, ma non erano più bambini. Doveva scrollarsi di
dosso la
malinconia e convincersi che continuare ad avere delle aspettative le
avrebbe
nuociuto e basta.
Sarebbe
stata un’altra notte insonne, come tante ce n’erano
state in quegli ultimi due
anni.
Per
la prima volta, però, ad occupare i suoi pensieri e il suo
cuore in subbuglio non
ci sarebbe stato solo Nobita, ma anche Takeshi e
l’impressione che il suo
abbraccio avvolgente le avesse fatto da cerotto per l’anima.
…E
niente, spero che la mia crack ship preferita non abbia traumatizzato
nessuno
XD
Scusate
per la pesantezza di questo primo capitolo, ma era necessario per
spiegare gli
antefatti. Spero che i prossimi siano più
“snelli” ^^;
Il
rating per ora è arancione perché in futuro
potrebbero esserci parti un po’…uhm,
hot?, che lo richiederanno, ma è una
fanfiction in corso d’opera e non so ancora con esattezza
come si evolverà.
Prendete quello che viene senza farvi troppe domande e grazie per aver
letto
fin qui J