Un’ultima notte
“Benvenuto,
Nobile Toshikazu.” L’elegante donna si inchinò profondamente,
rendendo onore al rango del suo ospite, evidenziato dalle due spade al fianco.
“Grazie
di accogliermi nella vostra casa, Oba.” Rispose
allora lui, rispettando il cerimoniale. La tenutaria della casa del piacere di
Nagoya sorrise amabilmente e, sempre inchinata, gli fece cenno di entrare nel
primo cortile. Nobu Toshikazu
oltrepassò l’arco d’ingresso guardandosi attorno. Non era mai stato in quella
casa, malgrado ne avesse visitate molte da quando Sayuri
gli era stata portata via. Il luogo era semplice, ma aggraziato. Un alberello
di sakura in fiore spandeva nell’aria un dolce profumo, mentre il rumore
dell’acqua, di una piccola fontana posta nell’angolo destro del cortile,
rilassava la mente.
“Permettetemi
di alleggerire il vostro fianco.” A quelle parole, Nobu
posò la mano sulle spade, per un istante le trattenne poi rilasciò la stretta e
consegnò le sue armi alla donna, sapeva che era la regola: non si entrava
armati nelle case di piacere. La tenutaria prese le armi e i suoi occhi
brillarono, era chiaro che aveva riconosciuto il valore di quelle spade del
grande maestro Masumune.
Riposti
la katana e lo wakizashi, Oba
lo accompagnò all’interno della delicata struttura in legno e carta. Da una
delle stanze proveniva soave della musica, ma Oba lo
accompagnò verso un secondo cortile dove una donna stava dipingendo. Vestita di
un kimono verde e da un obi arancione risplendeva ad
arte in quel piccolo cortile di pietra e sabbia.
“Zucca,
vieni, ti presento il Nobile Toshikazu.” La ragazza
si voltò, sul volto apparve un sorriso, mentre si alzava per raggiungerli e poi
si inchinava a lui.
“Questo
è un bel giorno se il Nobile Nobu Toshikazu
è ospite nella nostra casa.” Nobu sorrise a sua volta
chinando un poco il capo, soddisfatto di essere riconosciuto, lui che era un
samurai del Nobile Tokugawa e aveva combattuto con
valore a Sekigahara.
“Di
certo è un bel giorno, ora che vi conosco.” Rispose lui, gentilmente. Oba comprese che la ragazza era stata accettata e si
allontanò con un inchino e un sorriso.
“Posso
prendere il vostro haori?” Nel dirlo la donna si
portò alle sue spalle.
“Hai.[1]”
Rispose lui e allora lei, con delicatezza, gli sfilò la leggera giacca di seta
grigia che portava sul kimono color panna.
La
donna gli indicò di sedersi mentre una servitrice che doveva avere all’incirca
dieci anni portò, in assoluto silenzio, del thè, del riso e dei gamberi cotti
sulla brace. Nobu ne aveva visti di più grandi al
mercato quella mattina, ma nell’assaggiarne uno fu contento di scoprire che
erano molto buoni.
“Vorreste
del sakè?” Chiese Zucca, compostamente seduta accanto a lui, mentre lo
osservava mangiare, sorseggiando appena il suo thè.
“Più
tardi, magari. Cosa stavate dipingendo?” Acconsentendo al suo interesse Zucca
si alzò e, preso il dipinto, lo voltò verso l’ospite. Nobu
osservò per un lungo momento le linee frastagliate e nette: dolore, mancanza,
solitudine. Quello era ciò che leggeva nei colori e nel disegno. Che la giovane
donna provasse i suoi stessi sentimenti? Oppure era lui che li vedeva riflessi
ovunque?
“Dipingete
molto bene.” Commentò e la ragazza abbassò il capo in un gesto di umiltà.
“Suonate anche?”
“Cosa
vi piacerebbe ascoltare?” Chiese, in risposta, la cortigiana.
“Vi
prego, scegliete voi.” La donna annuì e la serva gli portò un koto, strumento
che fino a pochi anni prima si poteva ascoltare solo presso la corte imperiale,
ma che si stava diffondendo nel paese. Zucca sistemò con attenzione lo
strumento davanti a sé, poi con delicatezza iniziò ad accarezzarne le corde con
tre plettri fissati alle dita. Nobu la guardava,
osservando il volto delicato e lasciando che la musica scendesse a sfiorargli
l’animo. Dopo un poco chiuse gli occhi e rimase così per lungo tempo, la luce
del tramonto scemò e furono accese delle lanterne, ma lui se ne rese conto solo
quando Zucca smise di suonare.
“Domo
arigatou gozaimasu.[2]”
Disse, evidenziando con un cenno della testa il ringraziamento formale. Zucca abbassò
gli occhi.
“Grazie
di aver ascoltato, Nobusan.” La donna spostò di lato
lo strumento a corde e prese la bottiglia di sakè chiedendogli con lo sguardo
se ne desiderava.
“Prego,
prima voi.” Zucca arrossì a quel complimento.
“Nobusan, voi siete l’ospite.” Rispose allora lei, seguendo
il cerimoniale.
“Insisto,
prego.” Con un gesto indicò la tazzina posta davanti alla donna e allora lei,
sorridendo, se ne versò un poco per poi riempiere quella di Nobu.
Bevvero il sakè caldo e Zucca riempì di nuovo le tazze.
“Perché
siete triste?” Chiese l’uomo.
“Non
sono triste, perché lo credete? Non vedete il sorriso nei miei occhi?”
“Vedo
il vostro sorriso, ma il vostro cuore è triste, lo leggo nel dipinto, l’ho
ascoltato nella vostra musica.”
“Mi
dispiace avervi recato…” Nobu alzò la mano
fermandola.
“La
vostra tristezza si è specchiata nella mia, sentirla condivisa ha lenito la mia
sofferenza.” Zucca rimase in silenzio a lungo, mentre lui sorseggiava il sakè
pensoso.
“Ho
perso colui che il mio cuore prediligeva.” Ammise allora la ragazza in un
mormorio. Nobu osservò il volto della donna, sulle
sue labbra non si spegneva il sorriso, eppure nei suoi occhi poteva vedere un'eco del suo stesso dolore. “Era un samurai, ma si è coperto di vergogna.” Nobu abbassò la tazzina irrigidendosi. “Il suo onore è
stato recuperato, ha compiuto seppuku e il suo
secondo ne ha testimoniato la degna morte.” L’uomo si rilassò, annuendo. Un
samurai che si disonorava aveva un solo modo per salvarsi dalla vergogna ed era
attraverso una morte onorevole autoinflittasi con la propria lama.
“Non
dovresti piangere la sua morte. Così lo disonori.” Non c’era accusa nella sua
voce solo la volontà di ricordarle il bushido: la via
del samurai.
“Non
piango la sua morte, piango la sua mancanza.” Nobu
sospirò, poi annuì.
“Anche
il mio cuore aveva scelto.” Questa volta fu il turno di Zucca di rimanere in
rispettoso ascolto. “Si chiama Sayuri.” Nobu aveva uno sguardo fiero e fermo, da vero samurai, ma
Zucca conosceva la sofferenza che tentava di nascondere e la percepì nella
tensione del suo corpo. “Il mio daimyō ha deciso
di darla in sposa al direkutā del suo castello a
Edo.” Zucca non chiese perché non avesse chiesto al suo signore di concedere a
lui la mano della donna, un samurai accettava sempre il volere del daimyō, ne andava del suo onore.
Il
silenzio cadde tra loro due, Zucca versò altro sakè a Nobu,
evitando di riempire la propria tazza, sapeva che era il cliente a dover
inebriare i sensi e non la cortigiana che, invece, doveva mantenere il
controllo, sempre.
“Vorrei
poterlo avere ancora per una notte, un’ultima notte.” Confessò Zucca.
“Una
prima e ultima notte per poterle dire addio.” Concordò Nobu.
L’aria
era tiepida e la luce delle lanterne baluginava sui muri creando ombre
semoventi che rendevano il piccolo cortile un luogo incantato e misterioso.
“Come
si chiamava?” Chiese il samurai.
“Kazuki.” Non aggiunse il nome della famiglia e Nobu non chiese, non ce n’era bisogno.
Zucca
osservò i suoi occhi verdi fissi su di lei e si alzò tendendogli la mano. La
sua pelle era morbida e setosa, come immaginava fosse quella di Sayuri. Lo accompagnò all’interno di una stanza, il letto
era circondato da numerose piccole lanterne, la cui fiamma era controllata
affinché non rischiasse di appiccare un pericoloso incendio.
“Spegnile,
prego.” Chiese Nobu e Zucca obbedì, senza esitare. In
pochi istanti furono ombre nel buio.
Le
loro mani si trovarono intrecciandosi, Nobu abbassò
il volto verso quello della donna, le loro labbra erano vicine, ma si trattenne
dal baciarla.
“Lasciami
essere il tuo Kazuki. Lascia che stasera le nostre
sofferenze si spengano, lascia che sia, per i nostri cuori, l’ultima notte,
così che poi possiamo ricominciare a vivere in pace.”
“Hai.”
Mormorò la donna, il suo respiro sfiorò le labbra di Nobu,
la cui mente percepì la voce di Zucca, ma il cui cuore sentì quella di Sayuri.
Nel
buio della notte i loro corpi si trovarono, si accarezzarono e si amarono, con
passione e con tenerezza, con foga e con pazienza, ma senza sofferenza o dolore.
Per la prima volta Nobu non tentò di dimenticare la
donna che amava tra le braccia di un’altra, ma strinse la sua Sayuri e l’amò come non aveva mai potuto fare. Per la prima
volta raggiunse il piacere senza senso di colpa, ma con gioia.
Il
mattino dopo si rimise in viaggio, sulla porta della casa del piacere aveva
salutato Zucca, nel cui occhi aveva letto la gratitudine per quel dono che si
erano fatti l’un l’altro, e ora cavalcava, la schiena dritta, le spade al
fianco, simbolo del suo rango e del suo onore. Aveva avuto la sua prima e
ultima notte, il suo cuore soffriva ancora, ma per la prima volta Nobu seppe che sarebbe guarito. Non avrebbe più dimenticato
quella giovane cortigiana di Nagoya.
Note: La storia è un omaggio
al Giappone del 1600 e a James Clavell che con il suo
Shōgun me l’ha fatto scoprire. Ho tentato di
essere il più accurata possibile, ma non essendone una studiosa potrei aver
fatto degli errori, vi chiedo di perdonarli e di accogliere lo spirito della
storia. Grazie.