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Autore: meiousetsuna    15/11/2016    4 recensioni
Storia vincitrice del fantastico contest di Chappy: Welcome to the Johnlock Hell!
Ho scelto l’AU, nello specifico di The Vampire Diaries: comprendo che questo sia un po’ spiazzante essendo “mondi che si ignorano”, mentre potrebbe essere interessante per chi conosce entrambe le serie.
Sherlock e John investigano su delle misteriose morti avvenute a Mystic Falls, Virginia. Cosa si nasconde dietro i presunti attacchi di animali, e la ritrosia della polizia del posto?
Dal testo:
“Buonanotte”.
John gli girò le spalle senza rispondere, facendo i gradini due a due per scomparire al più presto e barricarsi dietro la porta senza chiave che separava il primo ambiente dal secondo. Per un attimo valutò di spostare un mobile per bloccarla per ritrovarsi a ridere nervosamente. Cosa si era immaginato, che il grande Sherlock Holmes lo avrebbe implorato di fare pace? Da quando erano in quel posto troppe emozioni si stavano accentuando, le cose sembravano assumere un carattere più drammatico, intenso. ‘Buonanotte’. Questa era l’ultima parola che avrebbe ascoltato quella giornata.

Un bacio,
Setsuna
Genere: Angst, Horror, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: John Watson, Nuovo personaggio, Sherlock Holmes
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Storia vincitrice del contest: Welcome to the Johnlock Hell; premio miglior AU - Sherlock (BBC) Contest di Chappy_

Categoria: AU (TVD!AU)
Prompt: Sangue, lapide
NdA: Ambientazione: un’avventura “extra” senza tenere conto dell’esistenza del personaggio di Mary.
Le note sono necessariamente in fondo alla pagina, ed è decisamente meglio leggerle tutte alla fine, come anti-spoiler… Alcune sono puramente a beneficio dei non conoscitori di The Vampire Diaries.

I'll worship like a dog at the shrine of your lies
(I'll tell you my sins and you can sharpen your knife)

«3 maggio, Bistrita. Lasciata Monaco alle 20,35 del primo maggio, giunto a Vienna il mattino presto; saremmo dovuti arrivare alle 6,46, ma il treno aveva un'ora di ritardo. Stando al poco che ho potuto vederne dal treno e percorrendone brevemente le strade, Budapest mi sembra una bellissima città. Ne ho ricavato l'impressione che, abbandonato l'Occidente, stessimo entrando nell'Oriente…»

John Hamish Watson sbuffò leggermente, serrando per un momento le labbra prima di lasciarsi sfuggire degli improperi sproporzionati alla gravità del caso.
Essere il blogger di Sherlock Holmes comportava una buona dose di pazienza e adattabilità, nonché l'utilizzo di ogni granello del suo humor britannico.
“Sherlock, stiamo andando in un paesino della Virginia per smascherare un assassino emofilo, non nell'est Europa a stanare il conte Dracula dal suo castello fatiscente, spiegami perché devo aprire la pagina di oggi con una citazione tanto assurda”.
“Se vuoi cambiare romanzo va bene, la letteratura non ha importanza; ho pensato a qualcosa che i tuoi lettori potessero capire”. La voce baritonale dell'investigatore era modulata su un tono piatto, appena sfumato da una nota di fastidio.
“Comunque siamo in un mondo barbaro, non puoi negare l'evidenza con me”.
Una tazza di caffè, dall'aspetto in verità discutibile, riposava intonsa sul tavolino estraibile del treno veloce della Blue Ridge Scenic Railway.
Il liquido bruno, eccessivamente trasparente e dal profumo poco invitante, giaceva nel suo bicchiere di polistirolo lilla con dei fiori stilizzati. Un caffè da cinque dollari che faceva sentire importante chi cominciava la giornata bevendone uno.
Sherlock si propose al suo ritorno di ringraziare cortesemente la signora Hudson per il primo Earl Grey con due cucchiaini di zucchero né rasi né colmi che gli avrebbe offerto in una tazza di porcellana sottile, versandolo da una teiera propriamente riscaldata.
Gli altri passeggeri erano presi dai loro telefoni e portatili, tranne una coppia seduta in senso contrario ai due investigatori, a due file di distanza.
“John, hai portato il materiale che ci ha lasciato Gerard, vero?”
“Se con Gerard intendi Greg sì, allora l'ho portato, è chiaro. Mi stupisce che ci sia qualcosa che non ricordi”.
Sherlock sollevò con fare svogliato il quotidiano locale che avevano recapitato per lui ad Atlanta, facendolo trovare piegato sul sedile del posto assegnato sul treno.
‘Mystic Falls Gazette’. Il titolo non avrebbe potuto essere meno promettente. Il trafiletto a destra della prima pagina continuava all’interno, come notizia di spicco nella cronaca nera.
“A mezzanotte tra il 23 e il 24 agosto la squadra di pattuglia, capitanata dallo sceriffo Davidson, ha notato una macchina abbandonata vicino al limite ovest dell’Old Wood. Al suo interno è stato ritrovato il corpo della diciottenne Clara Mitchell, con la gola squarciata dai morsi di un animale selvatico di grossa taglia. Poco distante gli agenti hanno rinvenuto il cadavere di un ragazzo all’incirca della stessa età, che doveva essere intervenuto in suo aiuto. Infatti le ferite del giovane, che resta ancora da identificare, indicano una colluttazione durata più a lungo. Tutti i cittadini sono esortati a rispettare il coprifuoco e sono invitati a fornire ogni notizia utile, anche la più piccola, alle autorità”.
“Ecco, è strano che l’articolo sia così breve, di solito in una piccola città una tragedia del genere…” John sembrava sinceramente stupito, guadagnando un’occhiata in tralice da parte del suo collega.
“Noioso”.
“Come?”
“L’articolo per esteso, ovviamente. Pieno di frasi commuoventi e nessun dettaglio macabro per non ‘turbare i nostri lettori più impressionabili’. Inutile, ho fatto un riassunto per te”.
“Bè… dovrei risponderti ‘grazie’? Sono abbastanza intelligente da decidere da me, non trovi? Anche io so trarre qualche deduzione, e non c’è bisogno che ti sforzi di non fare uno di quei sorrisi stirati! Non ti lamentare se ti chiamano psicopatico, poi!”
“Facciamo una prova. Cosa hai capito osservando la coppia che ci guarda di sottecchi? Non deludermi, John”.
Quella frase detta con noncuranza saettò dalla bocca di Sherlock al cervello di Watson lasciando delle invisibili piccole ferite che avevano la forma delle parole di cui era composta.
Deludente. Era proprio quello che temeva di essere. Non nella vita in generale, quella sociale, per quanto questa fosse piuttosto limitata da quando si era dato a quell’insolita carriera di aiuto investigatore. Un dottore, per giunta ex ufficiale medico dell’esercito, era un personaggio più che rispettato e lodato in tutti gli ambienti. Era come uomo che non era più sicuro di valere abbastanza.
Un QI un po’ sopra la media — non abbassava quello di tutta Baker Street, ma neppure lo elevava, probabilmente — un’attitudine pacifica che doveva farlo apparire banale, intervallata da momenti di rabbia se credeva ce ne fosse motivo che potevano mostrarlo come un nevrotico, e un aspetto fisico non di spicco, anzi; che serviva a qualcun altro per sembrare ancora più alto.
Chissà cosa aveva sognato che potesse succedere se Sherlock Holmes avesse accettato quel caso negli Stati Uniti proposto da lui, molto particolare di sicuro, ma che dopo l’esperienza a Baskerville poteva apparirgli troppo semplice già in teoria.
Acquisire importanza ai suoi occhi? Trovarsi in un’intimità maggiore di quella dell’appartamento in cui convivevano, a causa della signora Hudson e della discutibile abitudine di Mycroft di mandarli a prelevare nei momenti più inopportuni?
Poteva sperare di rivelargli il segreto che lo tormentava ogni notte quando si salutavano educatamente sulle scale che li avrebbero separati fino al sorgere della brumosa aurora londinese? Era un pazzo, non c’era altra spiegazione.
“Mi sembra evidente, ecco. Sono una coppia aperta e stanno valutando se potremmo essere dei possibili partner per loro. Hanno sollevato il bracciolo tra i sedili per stare più vicini, sono seduti in senso opposto a quello di marcia malgrado i posti disponibili per osservare bene gli altri passeggeri. Hanno una sola valigia grande sulla rastrelliera, sono molto in intimità. Quello che non ho capito è chi… insomma…”
Insomma, cosa?” Sherlock stava sogghignando come il gatto del Cheshire, le mani giunte posate appena sulle labbra, gli occhi ancora più assottigliati accesi dal divertimento intellettuale che si stava prendendo ai danni di un tormentato John.
Il dottore aspirò alcuni metri cubi d’aria con l’espressione che assumeva quando era incerto se mentire o dire una cosa poco appropriata. “Chi sarebbe quello che interessa alla ragazza, e quale al ragazzo”.
“È questa la parte che ti ha colpito di più, deduco. Interessante. Visto che ci tieni a ribadire che non sei gay, presumo che tu abbia notato la scollatura della dama in questione e questo ha decretato le parti. Lui mi fissa i capelli, forse sta immaginando…”
“Sherlock, santo cielo! Risparmiami i particolari!” John si accorse si aver alzato la voce, appena un po’, un grido soffocato come tanti altri che si potevano aggiungere al conto.
Se lo scatto di possessività era apparso chiaramente quello che era, Sherlock non mostrò di averlo notato.
“Come al solito hai guardato, ma non hai visto tutto. Quello che hai detto è giusto, ma manca il particolare piccante. Osserva le loro mani. La seconda falange è particolarmente lunga: sindrome di Marfan, in forma leggera, dottore”.
“Una variante allelica dei geni di una patologia rara ha pochissime possibilità di comparire in forma talmente identica, tranne se il coefficiente dei geni comuni arriva al cinquanta per cento; sono fratello e sorella. Oddio”.
“Corretto. Non sei andato male, comunque. Ci stiamo addentrando in una terra selvaggia, come avevo previsto, speriamo di non finire in qualche piantagione dove non potrebbero neppure identificare di chi siano i figli. John? Adesso sto scherzando, l’hai capito, sì?”
Poteva anche aver colto la battuta, ma non importava. John si rendeva conto soltanto della parte di realtà che riguardava loro due. Che aveva fatto una pessima figura su tutta la linea, quella medica e quella investigativa, e che le uniche mani dalle quali non poteva distogliere lo sguardo erano quelle magnifiche del suo interlocutore. Immaginò la delizia di stringerle, baciarle e sentirle posarsi su di sé, prima in una carezza sul volto, poi sotto la maglietta a righe, e ancora più giù… un pensiero inutile e doloroso, questo non ci voleva un genio a capirlo.
Non sarebbe mai e poi mai successo, non era neppure un’opzione. La frustrazione si impadronì di lui, facendogli stringere il bracciolo fino a strappare un pezzo della tappezzeria, evidentemente piuttosto vecchia.
Quello che un tale senso di impotenza gli impediva di valutare era la variazione negli occhi di ghiaccio dell’oggetto del suo desiderio. Per un lungo istante erano diventati quasi trasparenti, attraversati da una luce calda nel vederlo arrabbiarsi all’idea che quell’insignificante ragazzino sporcasse anche solo i suoi preziosi capelli. Certo perché potesse accadere si sarebbe dovuta verificare una serie di circostanze che includevano vederlo in ginocchio, probabilmente come aveva detto della Anderson, a lucidare il pavimento.
L’idea era decisamente buffa, quando tutto quello su cui si focalizzavano i suoi pensieri era la prospettiva di stendersi sui due sedili con la testa sulle gambe di John a farsi accarezzare, sentendo il suo tocco senza dubbio delicato fare attenzione a non impigliarsi nei ricci fitti. Stava diventando sempre più bravo a soffocare i sentimenti prima che crescessero, era più pratico così, amare è la più grande debolezza. Per fortuna, stavano per vedere un po’ di campo di battaglia, John sarebbe stato eccitato. Mentre lui avrebbe fatto meglio a evitare doppi sensi anche tra sé e sé.

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Il corpo della giovane era la salma più assurdamente devastata che i due investigatori avessero visto.
La gola era squarciata dal lato sinistro tanto da rendere miracoloso che la testa fosse rimasta attaccata al corpo, e sostanziose parti di muscolo erano state strappate via. Anche le guance e le spalle erano segnate da morsi profondi, probabilmente le zanne di un felino come un puma, considerato estinto ma presente fino a pochi anni prima sui monti Appalachi, valutò Sherlock. Un lupo dilania sì le prede in profondità, ma l’ampiezza dell’impronta era troppo differente. Il coroner locale doveva essere sotto pressione o vigevano usanze approssimative in quell’obitorio, perché nessuno aveva provveduto a rimuovere il sacchetto di cellophane che conteneva gli abiti della vittima. Sherlock aveva inscenato una specie di danza della felicità alla vista dei brandelli di tessuto inzuppato di sangue e pezzetti di epidermide ancora attaccati, da dover far intervenire John a giustificarlo come entusiasmo all’idea di catturare subito il killer; l’anatomo-patologo li fissava, chiedendosi evidentemente se non fossero loro il vero pericolo, in città.
“Seriamente, signori? Un minimo di decenza sarebbe indicata!”
“Non è la decenza a contare, sono le vite che salveremo”. Sì, John ci credeva, aspettava di ascoltare quella frase, gli faceva bene, si fidava del suo strambo amico.
Gli sembrava di vedere le informazioni proiettarsi nello spazio tra sé e Sherlock, anche se erano troppo difficili da interpretare; o lui era troppo semplice.
“Il cadavere del ragazzo?” Sherlock non stava chiedendo, stava dando ordini con quel modo indisponente che pareva provocare gli altri a cacciarlo a calci.
“È complicato”. Il patologo strinse la cartellina dei referti cercando appoggio morale.
“Lo stabiliremo noi. Dottor John Hamish Watson, 5° Reggimento dei Fucilieri di Northumberland”.
Il medico stava quasi per inchinarsi, e altrettanto avrebbe fatto Sherlock nei momenti in cui il suo John diventava così sicuro di sé, il soldato che non aveva mai smesso di trovarsi in guerra, prendendo il controllo della situazione.
“Quello che intendo, dottore… è che abbiamo perso il corpo del defunto. È un disastro, capisce? Era qui, su quella barella, avrei dovuto procedere con l’apertura della cassa toracica, sono andato solo in corridoio a prendere un caffè e al mio ritorno non c’era, ma vede, non ci sono altre uscite. In pratica sarebbe dovuto scappare con le sue gambe”.
“Finalmente qualcosa che non avevo previsto. Perché su questa vittima avrebbe eseguito una regolare autopsia e su… Clara non ha ritenuto di fare lo stesso?”
John sentì un calore piccolo e timido nascergli nel cuore. Sherlock aveva ascoltato il suo consiglio di chiamare sempre i morti per nome, per sembrare, insomma, più umano. Non poteva nutrire il minimo interesse per l’opinione di un medico di provincia, doveva averlo fatto per lui. Questo apriva uno spiraglio di speranza, o rendeva tutto più complicato?
“I corpi presentano… presentavano una differenza notevole” la voce del patologo era evidentemente tremante, non stava mentendo “lei era totalmente dissanguata, ma a terra c’erano solo poche macchie, sembra che… la cosa l’abbia prosciugata del tutto. Lui era coperto da un bagno di sangue, ma a un’occhiata superficiale i paramedici non hanno identificato ferite importanti, certo ora è difficile giurarlo. E non è la prima volta, è per questo che ci siamo rivolti all’FBI, ma un agente ci ha messo in contatto con Scotland Yard, francamente non so cosa pensarne”.
John tossicchiò per attirare l’attenzione. “Il fascicolo dell’ispettore Lestrade non conteneva queste informazioni, solo gli strani attacchi di animali”.
“Non avrei mai firmato una deposizione con quello che sto per dirvi. Nel primo caso, la situazione è stata peggiore, il morto era già nella cella frigorifera. Non ho spiegazioni, il mio collega è stato accusato di furto di cadaveri, ma è una persona degnissima, sono sicuro che non possa essere stato lui”.

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“Mi dispiace, amico, non ci sono alberghi nel centro della città, ma se siete in macchina il Mystic Hotel è solo a una decina di miglia, oppure se per voi non è complicato potrei darvi due stanze comunicanti che abbiamo tenuto al piano di sopra come foresteria. Abbiamo pochi ospiti, e finora…”
“Mai due ragazzi”. Sherlock terminò la frase dell’imbarazzato barista, il quale per scusarsi dell’affermazione poco felice gli posò di fronte una birra accompagnata da un sorriso compiaciuto per il suo bel gesto, mentre ne spillava un’altra per il dottore.
“Offre la casa!”
“Non sono il suo fidanzato”. John aveva ripetuto quelle parole cento volte dal primo incontro con Sherlock, eppure quella sera c’era molta più durezza nella voce, come se in quella circostanza l’equivoco lo irritasse più del solito, o semplicemente si fosse stancato oltre misura.
“Seriamente, non ci sono problemi, ok? Vi lascio le due camere, fate come preferite”.
L’investigatore lo guardò senza alcuna espressione particolare, decidendo che la birra era qualcosa che gli avrebbe impedito di star sveglio a riflettere, mentre aveva bisogno di tutte le sue capacità bene allerta.
“Vorrei un tè, nero, per favore”.
“Un tè” il barman rimase alcuni secondi a bocca aperta come se gli avessero chiesto di recarsi personalmente a Ceylon per raccoglierlo “vedo se ne ho in dispensa, non va di moda da queste parti”.
“Che pensi del caso, Sherlock?” Appena rimasti da soli al bancone, John aveva cercato di cambiare argomento.
“Di norma direi che una volta eliminato l'impossibile, quello che resta, per improbabile che sia, deve essere la verità. Che esseri come i non morti non esistono, quindi abbiamo il caso di una mente deviata, e seriamente non mi sembra così difficile, in questa città”.
“Vorrei che ti ascoltassi! Hai notato che qui usano tutti le stesse parole? Adesso hai cominciato anche tu”.
“Se ‘complicato’ non va bene, dovrei dirti: elementare, Watson?”
“E questa? Piuttosto qualche volta potresti non far vergognare sempre me”.
“Capisco” la risposta era così gelida da tagliare l’aria che li separava “deve darti davvero fastidio che ci considerino una coppia”.
“Il punto è che non stiamo insieme!
Colpire il banco con un pugno non doveva essere inconsueto nel Grill, ma gridare quelle tre parole, sì. I clienti si girarono tutti, decidendo infine di impicciarsi nei fatti loro.
“Ovviamente. Vai pure, così smetteranno di sbirciarti, a me non importa nulla. Prendi la stanza in fondo, così non dovrò attraversarla”.
“Smetti di darmi ordini. Avrei preso quella comunque, cerca di non disturbarmi quando sali, vorrei dormire”.
“Buonanotte”.
John gli girò le spalle senza rispondere, facendo i gradini due a due per scomparire al più presto e barricarsi dietro la porta senza chiave che separava il primo ambiente dal secondo. Per un attimo valutò di spostare un mobile per bloccarla per ritrovarsi a ridere nervosamente. Cosa si era immaginato, che il grande Sherlock Holmes lo avrebbe implorato di fare pace? Da quando erano in quel posto troppe emozioni si stavano accentuando, le cose sembravano assumere un carattere più drammatico, intenso. ‘Buonanotte’. Questa era l’ultima parola che avrebbe ascoltato quella giornata.

My church offers no absolutes
She tells me 'worship in the bedroom'
The only heaven I'll be sent to
Is when I'm alone with you
I was born sick, but I love it
Command me to be well

Una buonanotte di sogni senza speranza, di raggi di luna come coltelli bianchi che anelavano di abbeverarsi di sangue fresco. Dietro una porta chiusa in modo sgarbato c’era un altro mondo, uno che John poteva solo immaginare, ma piano, senza rischiare di violarlo con una fantasia troppo accesa.
Sarebbe bastato avere il coraggio di varcare la soglia e pregare; si sarebbe inginocchiato volentieri per confessare il peccato gentile del suo amore, per chiedere di essere salvato nell’unico modo possibile.
Invece restava lì, i pugni stretti, cercando di farsi male per sentire ancora un contatto con la realtà. Era abituato a reggere una quantità incredibile di stress emotivo, era stato l’unico modo di sopravvivere durante i momenti più terribili della guerra, ma a quello che stava accadendo non era preparato.
Sherlock stava suonando il violino, qualcosa di cui non conosceva il nome — la musica classica non era il suo forte — ma non importava.
Era una provocazione sottile e sfacciata insieme, come se l’avesse costretto a guardarlo spogliarsi dietro una parete di vetro azzurrato. E in un certo senso era proprio così, perché la sua immaginazione non incontrò nessuna delle difficoltà che di solito definivano il suo essere piuttosto pragmatico. Lo vedeva, il viso sottile abbandonato contro il legno profumato, le dita che stringevano l’archetto con fermezza eppure con tutta la delicatezza immaginabile. E quell’oggetto diabolico che gli rispondeva, fremeva tra le sue mani, cantava al suo comando. A un certo punto ci fu una singola nota stonata; incredibile.
Sherlock non sbagliava mai, tranne nelle relazioni tra persone, per quelle, ecco, era il peggiore. O no. Doveva star male anche lui, non c’era altra spiegazione, forse provava a sua volta una scintilla del bisogno che lo stava divorando dall’interno? Una specie di fame, di voglia di renderlo parte di sé?
Oppure quel segno d’imperfezione era un segnale di richiamo per lui?
Significava ‘sono umano, di carne e ossa’? A John sarebbe piaciuto, ma c’era un’altra spiegazione che lo accese di un’insensata gelosia.
Era stato il violino, doveva essere così: aveva deciso di gemere come una donna eccitata, alla quale Sherlock stesse facendo l’amore con le dita e il respiro, il contatto della pelle, rendendola consenziente a ogni capriccio, fino a portarla a un orgasmo che avrebbe impregnato di sé tutto quello che era nella stanza, restandogli appiccicato addosso.
Il tempo di spalancare la porta divisoria fu appena sufficiente perché Sherlock posasse il violino sulla specchiera, ma non per alzarsi e fronteggiare il suo (amico-compagno-antitesi) John.

Take me to church
I'll worship like a dog at the shrine of your lies
I'll tell you my sins and you can sharpen your knife
Offer me that deathless death
Good God, let me give you my life

Un attimo dopo Sherlock sentì che l’equilibrio e l’asse sul quale normalmente ruotava la Terra (attualmente 23° 27, in diminuzione) si erano leggermente inclinati, e quanto non avrebbe dovuto avere un valido motivo, in compenso ne aveva uno ottimo.
John aveva afferrato la spalliera della sedia, e con una forza che non gli avrebbe attribuito la manteneva con una sola mano. L’altra era tra i suoi capelli, le dita attorcigliate ai ricci che sembravano emettere calore elettrizzante fino a farli crepitare.
Non li stava tirando, eppure sentiva distintamente dolore. Certo ― realizzò subito Sherlock ― perché era lui stesso che si stava facendo male tentando di liberarsi.
Era allontanarsi da quella giusta prigione, che gli provocava una lacerazione. Lo scoprì mentre le labbra di John si posavano sulle sue, così tremanti da fargli un carezzevole solletico, e sentì le proprie schiudersi in risposta, così, come se fosse naturale. Come se si aspettasse che dovesse succedere quel giorno, a quell’ora, in quell’istante.

No masters or kings when the ritual begins
There is no sweeter innocence than our gentle sin
In the madness and soil of that sad earthly scene
Only then I am human
Only then I am clean

Quando la lingua andò a strofinarsi sulla sua scoprì una marea di informazioni che lo lasciarono stupefatto. E questo non era possibile.
Che il suo dottore fumava, rarissime volte; sigarette senza filtro, quelle di un vero soldato.
(Che il sapore di tabacco nella bocca era amaro, con retrogusto di liquirizia, inebriante, provocante).
Che da quando erano partiti per quel viaggio stava bevendo molto, bourbon, e questo era inconsueto.
(Che sembrava che l’effetto dell’alcol avesse interessanti risvolti, in quella condizione; scendeva con la saliva nella gola scaldandolo e trasportando un lieve senso di illanguidimento che finiva con l’annidarsi nell’inguine).
Che il cuore accelerava il battito, che gli occhi si chiudevano da soli (non è solo una sciocchezza romantica, è per godersi di più tutte le sensazioni) che la nozione del tempo perde nitidezza, quella dello spazio, utilità.
Sherlock avrebbe voluto aprire quella stanza del palazzo mentale, quella con le pareti rosse che portava il nome di John da tanto tempo (un anno, dieci mesi, sei giorni, sette ore, dieci minuti). Doveva essere bella, ne era sicuro, arredata in modo classico e prezioso, caldo. Ma non ha mai osato guardare al suo interno. E se non fosse abbastanza?
In un ultimo sprazzo di lucidità prima che ogni terminazione nervosa, muscolo e forse anche ossa si arrendesse a quello che stava succedendo, Sherlock decise che John meritava di più di un semplice posto in una casa che aveva tante stanze.
Il palazzo crollò, e i singoli pensieri si trovarono liberi di fluttuare nello spazio ― poco ― che lo divideva da lui; gli sembrava di poter continuare a baciarlo così, finché di loro non fosse rimasta che polvere.

Quanto dolore potrebbe provare se affidasse a John il suo corpo vergine?
Sicuramente tollerabile

Quanto piacere proverebbe nel sentire di appartenere alla persona che più ama al mondo?
Terribilmente
(in)tollerabile

Quanta paura aveva di quello che John avrebbe potuto chiedergli?
Nessuna

Quanta paura aveva di scoprire tutto quello che lui stesso avrebbe potuto desiderare?
Tantissima

Quanto sarebbe stato il rimorso, per John, se pensasse di aver approfittato di quel momento in cui ogni barriera minacciava di cadere?
Incommensurabile

Quanto sarebbe stato il rimpianto se si fosse aggrappato alle macerie di quel muro di pietra, pur di mantenere il controllo?
Incommensurabile

Incommensurabile


‘Va bene, va tutto così bene ― si ripeteva Sherlock ― è talmente bello’. Sollevò una mano fino a posarla sul viso di John, il pollice che sfiorava l’angolo delle labbra, le dita fini che si smarrivano nel seguire la linea del volto. Sherlock sentì che non avrebbe potuto continuare così ancora per molto e rovesciò la testa più indietro per offrire la sua resa, perso in qualcosa di più grande

(incommensurabilmente)

di tutte le sue mancanze.
Il respiro liquido di John gli scese in bocca e riempì i polmoni e lui ne voleva di più, più di così.
Le dita di John lasciarono i suoi capelli, scendendo come un soffio di vento sulla sua gola bianca.
Un secondo dopo la sedia era di nuovo sui suoi quattro piedi, il soffitto e il pavimento erano tornati ai loro posti, ma non tutto il resto.
Sherlock sbarrò gli occhi, inghiottendo ossigeno quasi con fastidio, come per adattarsi a un modo sbagliato di prendere aria.
John era già lontano, aveva sbattuto la porta che chiudeva la sua camera e aveva girato la chiave nella serratura.
Non doveva aver fatto qualcosa di sbagliato, come avrebbe potuto? Maledicendo la propria impossibilità di optare per un ragionevole trattamento del silenzio, il detective andò dietro l’uscio bussando leggermente.
“Va a letto, Sherlock”.
Oh, sì, esattamente. É che non avrei il coraggio di chiederlo così
“John?” Non ci fu risposta, ma solo perché John attendeva, non lo stava ignorando.
“Vuoi… che dorma con te, una notte?”
“No”.
“Cerca di ragionare, questo rifiuto per ripicca non serve a niente, e francamente non lo capisco”.
“Stai seguendo un ragionamento logico, adesso, su questo?
“È l’unica cosa che so fare bene, lo sai. Per il resto sono solo arrogante e insensibile, e non saprei come dirlo meglio. John?”
Un minuto dopo la porta si aprì di nuovo, lasciando passare il dottore talmente di corsa e in preda a una furia incontrollata che Sherlock rimase impietrito, e solo quando l’eco dei passi gli sembrò abbastanza lontana si decise a scendere.
Una volta sceso in strada controllò il GPS per seguire il percorso che aveva già studiato a Londra, prima di partire. Attraversò il Wikery Bridge, lasciando scorrere la mano sulla sponda di legno ricostruita in tempi recenti, quella nuova, che aveva sostituito la parte distrutta da un terribile incidente d’auto nel quale era morto un rinomato medico locale con la moglie e la figlia, che era stato di fatto il primo della serie di decessi inspiegabili che portavano fino all’ultimo. John gli aveva mentito e per arrivare a quella decisione doveva sentirsi con le spalle al muro, perché di lui poteva fidarsi, sempre.

Sherlock percorse mezzo miglio sulla provinciale che portava fuori città, girando nella direzione di un cartello dalla scritta scolorita dal tempo e la pioggia.
Di fronte a lui c’era il cancello di un antico cimitero, socchiuso di recente, considerando che sull’acciottolato c’era la catena spezzata che avrebbe dovuto bloccarlo. John sapeva che l’avrebbe seguito e aveva ritenuto ridicolo rallentarlo.
Non fu semplicissimo orientarsi tra le ombre fitte che gli alberi e le statue funebri proiettavano sul terreno illuminato solo dall’ingannevole astro notturno, lasciando a mala pena distinguere le tombe scavate nel terreno.
John era seduto sul prato, di fronte ad una lapide vecchia e priva anche di un fiore o qualsiasi segno di cura, uno strato di polvere e sporcizia a rendere illeggibile il nome scolpito sulla pietra.
“Che nome c’è sulla lapide, John?” Il dottore non si girò, né mostrò di essere sorpreso.
“J.H.Watson, Mystic Falls 17 aprile 1830 – Lynchburg 15 maggio 1864. L’ho cancellato da molti anni, ma non si dimentica il giorno della propria morte, specie considerando che una granata mi aveva portato via una gamba. Per quello ho ancora dei dolori fantasma, a volte, è stato terribile; quando… ho compreso che avrei avuto del tempo che non mi spettava ho deciso di dedicarlo a salvare gli altri. Non ho partecipato a una sola guerra, Sherlock, sono stato ufficiale medico ogni volta che ho potuto, per diversi paesi europei, prima di vivere in Inghilterra”.
“Avevi modo di seguire la tua missione senza più timore di essere ferito e quando un soldato era impossibile da salvare, tu… potevi cibarti, vero? Non aver paura di me, puoi dirlo”.
Io di te? Capisci di cosa stiamo parlando, sai che potrei farti se perdessi il controllo? Sono un…”
“Una persona che si è fermata in tempo quando ha avuto una tentazione fortissima, questo è quello che sei. È da mesi che ho dei dubbi, John. Quando non eravamo impegnati in un caso sei passato troppe volte in ospedale, mio fratello serve almeno per avere informazioni. Sono sparite delle sacche di sangue, ripetutamente. Hai una strana forza fisica, da te non si emana nessun odore che ti dovrebbe impregnare, come il tabacco. E in qualunque situazione, non togli mai quell’anello, neppure se stai medicando qualcuno, ho sempre pensato che avesse un significato particolare”.
“È un anello solare, l’argento respinge la luce: è stato un miracolo averlo, non posso rischiare. Prima non volevo fermarmi, però…”
Sherlock si lasciò scivolare in ginocchio alle sue spalle, aspettando in silenzio.
“La mia natura voleva che ti mordessi sulla gola, potevo sentire il profumo del tuo sangue attraverso la pelle, il cuore che batteva più veloce…”
“Chi è l’assassino, puoi dirmelo?” La voce del detective tradì un tremito.
“Sono dei miei ex compagni d’armi, i due ragazzi che sono stati trasformati insieme a me. Il piano del… hai capito, era che restassimo per sempre qui a Mystic Falls dove abbiamo una rete di copertura, un rifugio, altre cose che è meglio che tu non sappia. Io mi sono rifiutato di tornare e mi hanno fatto sapere che avrebbero ucciso finché non mi fossi rassegnato. Ora dovrei restare, o valutare di sfidarli ed eliminarli. Alcuni di noi col passare del tempo perdono la ragione”.
“Non volevi lasciare la tua nuova vita?” Nella voce di Sherlock si distinguevano speranza e vero e proprio panico.
“Non volevo lasciare te”.
Senza rispondere nulla, il bruno passò una mano sotto il mento di John, forzandolo leggermente a voltarsi. Sotto gli occhi azzurro polvere colmi di lacrime silenziose erano comparse delle sottili vene scure, e la punta di alcuni denti cominciava ad essere visibile. Sherlock arrotolò la manca sinistra della camicia viola, scoprendo il polso per accostarlo alla bocca dell’altro.
“Puoi farlo, se ne hai bisogno”.
“In un certo senso sono già sepolto sotto questa lapide, ma preferirei che mi uccidessi di nuovo, che fare questo”.
Le labbra di John si posarono sul punto più ricco di sangue in un bacio di devozione, seguito da un altro pieno di amore disperato che Sherlock gli diede senza lasciare che si opponesse, abbracciandolo lì, sulla terra di un triste cimitero, davanti alla testimonianza muta della pietra tombale che avrebbe dovuto esser tutto ciò che restava della persona che aveva fatto breccia nel suo cuore in inverno.
Quando si staccarono John ebbe la sensazione che non tutto era perduto, c’era troppo da voler difendere a qualunque costo. Ma col passare degli anni, che sarebbe successo? Avrebbe mai proposto… domani, ci avrebbero pensato da domani.
“Stai sorridendo, John”.
“No, credo di no. Sono sicuro di avere un’espressione tesa”.
“È il tuo sorriso quando mi guardi. Sarò io a farlo cambiare”.

Note:
Il titolo, dalla bellissima Take me to church è da interpretare diviso in due parti, da cui l’uso della parentesi che non è nel testo: la prima, detta da Sherlock a John; la seconda da John a Sherlock
Il gatto del Cheshire è chiaramente Stregatto, ma onoriamolo col suo nome very english!
The Vampire Diaries! Note:
Sono consapevole che questo non è realistico, ma pur trovandosi Mystic Falls in Virginia, (non sul confine) l’aeroporto più vicino viene considerato Atlanta (Georgia). Ovviamente essendo un TVD!AU, rispetto l’ambientazione del telefilm.
Il 23 agosto era il vero compleanno di Elena, (cambiato nella V°serie) che ho considerato come data realistica rispetto a quella della morte dei genitori, che ha dato il via alla storia di TVD
L’insinuazione incest! Si riferisce a Klaus e Rebekah
“Seriously” e “It’s complicated” sono le espressioni più ricorrenti in TVD; a Mystic Falls, tutto si chiama “Mystic qualcosa” ^-^
Sto ipotizzando che un complice si sia introdotto a liberare il vampiro nella cella frigorifera, non che l’abbia aperta dall’interno!
Il palazzo mentale, dalla sua rappresentazione ‘digitale’ appare mixato con Villa Veritas
In pratica John copre il ruolo di Damon (morto nella guerra di Secessione) quello di Lexi quando si aggirava nel campo dei feriti e quello di Elena che cerca di rimediare il suo essere vampira con lo studio della medicina
In TVD tutti i vampiri che camminano alla luce del sole indossano un gioiello incantato, in argento e lapislazzuli

  
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