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Autore: diamantrouge    15/11/2016    1 recensioni
[Dedicata a Starnie]
[...] Aveva letto un libro, una volta, uno di quei pochi superstiti cartacei stipati sugli scaffali delle biblioteche che le scuole mantengono più per estetica che per una reale utilità, in cui spiegavano un concetto che le era in qualche modo rimasto sempre dentro. Dicevano che si può avere nostalgia anche di quel che non accade, la chiamavano con una parola strana che in tutti quegli anni non aveva mai imparato, ma che stava a significare nostalgia del possibile.
[SPOILER prima e seconda stagione]
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Akane Tsunemori, Sakuya Togane, Shinya Kogami
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Appocundria me scoppia / ogne minuto ‘mpietto / pecché passanno forte / haje sconcecato 'o lietto
Appocundria ‘e chi è sazio / e dice ca è diuno

Appocundria ‘e nisciuno
 
Le avevano detto che da qualche parte nel mondo il caffè filtro non era considerato vero caffè. A quell’affermazione, in risposta, aveva sorriso divertita sicura che l’avrebbe riposta in uno di quei cassetti blindati dove tendeva ad accumulare tutte le informazioni inutili – quel genere di cose che spuntavano fuori nei momenti più casuali e la lasciavano anche per ore a chiedersi perché le fosse venuto in mente. Proprio come quella mattina, mentre versava il caffè forte in due tazze bianche. Fino a due anni prima, Akane non si era mai definita una grande amante del caffè perché aveva imparato ad associarlo alle lunghe nottate di studio prima dei test attitudinali e a tutte quelle albe viste a malincuore dalla grande finestra del salotto del suo appartamento. Al caffè, da un po’ di tempo, associava la nostalgia di una persona che ne consumava in quantità industriali, sempre accompagnato da sigarette di marca.
Posò le due tazze una di fronte all’altra, una davanti a sé e l’altra per l’ospite che ancora vagava per casa cercando di svegliarsi. Akane era sempre stata come una spugna, con quella sua tendenza ad assorbire in fretta abitudini e modi di fare che le parevano congeniali – prima, infatti, aveva iniziato col caffè; pian piano, una tazza per volta, con la caffeina che iniziava a mescolarsi al sangue e si diramava per tutto il corpo, lasciando un senso di sovreccitazione, quasi una febbre, che durava forse più a lungo di quanto avrebbe dovuto e la lasciava di notte con gli occhi sbarrati a maledirsi. Poi, quando Shinya era scomparso, erano venute le sigarette – stessa marca, per ora si limitava ad accenderle, fare due tiri e lasciarle seccarsi come fossero incenso. Poi era venuto il fatto più grave, quello di farsela con un sottoposto per recuperare il tempo perso. Il pensiero la fece sorridere amaramente, quasi fosse un riflesso condizionato, poté sentire chiaramente i muscoli del viso stirarsi come fossero atrofizzati da tempo. Sakuya – lo chiamava sempre così tra sé quand’era sola tra le mura di casa – sembrava intento a ispezionare ogni angolo dell’appartamento, come se fosse la prima volta che ci metteva piede, ammirando ogni dettaglio delle pareti olografiche che gli aveva lasciato scegliere. Lo conosceva relativamente da poco, ma se c’era un punto su cui aveva capito di potersi fidare era sicuramente il suo gusto estetico; per quella notte aveva scelto un avatar particolarmente elegante, la casa aveva preso le sembianze di una suite dello Chateau Marmont con un solo click e per un attimo Akane si era sentita meno in colpa all’idea di averlo accolto in casa perché aveva trovato nei suoi tratti spigolosi e nel sorriso sghembo un’ombra familiare che l’aveva spinta a cedere.
Sakuya la salutò con un cenno del capo, senza proferir parola, trovandola seduta al tavolo, ancora in biancheria e col volto ancora appesantito dal sonno; i capelli non erano pettinati ed aveva la certezza di avere le guance segnate di rosso per aver dormito male sui cuscini.
«Ti spiace se accendo la radio?», domandò lui.
Akane scosse lievemente la testa – curioso come in quel caso stesse ad indicare un cenno d’assenso. Lo stereo, senza la copertura olografica, era normalissimo ma aveva in quel momento assunto le sembianze di una vecchissima radio, risalente forse a più d’un secolo prima, di quelle grosse, pesanti e piene di manopole. Sperò in cuor suo che i suoni che ne sarebbero usciti avrebbero avuto quella nota ovattata che raramente le era capitato di sentire. In realtà, sapeva che così non sarebbe stato; tolto ogni inutile fronzolo, ciò che restava erano solo pareti spoglie, una casa ai limiti del mediocre, degna d’accogliere solamente il suo corpo stanco e nient’altro. Fu tentata di spogliarla – e spogliarsi – di ogni scudo e mostrarsi in tutta la sua banalità al suo ospite, col suo corpo slavato e minuto che qualche ora prima era stato oggetto di attenzioni che aveva desiderato a lungo e che forse, al mattino, avrebbe avuto una luce completamente diversa, di quelle che avrebbero messo in risalto quanto in realtà fosse terribilmente goffa e scialba.
Il suo sguardo fu catturato dalla figura di Sakuya che si avviava alla finestra col suo portamento elegante, del tutto indisturbato dalla sua quasi totale nudità. Akane aveva sempre creduto che certe persone avessero un modo tutto particolare di vestire il proprio corpo, d’indossarlo con naturalezza; questo modo di fare si evinceva dai movimenti fluidi di quei corpi che sapevano portarsi. Il gesto con cui Sakuya scostò le tende le diede l’idea delle mani di un direttore d’orchestra; aprì la finestra e si appoggiò con noncuranza al davanzale, respirando a pieni polmoni prima di accendersi una di quelle sigarette particolari che raramente gli aveva visto fumare – Black Devil, se rammentava bene, quelle col filtro completamente nero, importate come gran parte di quel che poteva permettersi. Di tanto in tanto l’ospite si girava a guardarla e le sorrideva benevolo, i capelli lievemente scossi dal vento – lei ricambiava meccanicamente, forse per il senso di soggezione.
Quella mattina non c’era stata nessuna sveglia parlante a ricordarle dei mille impegni, perché non c’era nulla da fare. Eppure, non aveva perduto quel suo particolarissimo senso del dovere, quel fastidioso tarlo che la convinceva a buttarsi giù dal letto di buon mattino anche quando sarebbe potuta restare a vegetare tra le coperte finché l’avesse desiderato – quello era uno di quei giorni, e l’idea di restare a letto, avvinghiata a Sakuya fino a tarda mattina, di certo non la disgustava. Era quasi come se fosse stata chiamata a guardare lo spettacolo che si espandeva fuori dalla sua finestra.
Akane adorava la metropoli al mattino. Le luci della sera la rendevano invivibile ed accecante, anche se colorata oltre ogni dire, mentre nella sua fase di risveglio il grigiore dei grattacieli diveniva quasi confortante, come se l’esistenza stessa delle luci facesse degli edifici creature vive e pronte ad ingoiarla per intero. Aveva smesso di aver paura della città da un po’ di tempo, ma era rimasta affezionata a quell’immagine pacifica della mattina. Aveva imparato ad associare la notte al caos.
«Tu non fumi, vero, Ispettore?», chiese lui. Dalla radio proveniva un sound decisamente antico, accompagnato da una voce femminile vellutata che parlava di lunghi viaggi su strade aperte. Sentire il cambiamento nel suo timbro quando le dava del tu la turbava sempre, al primo impatto
«No», rispose lei «Come te ne sei accorto?»
Sakuya tacque. Tirò una lunga boccata e rilasciò una nuvola di fumo.
«Non sai di fumo. Nemmeno un po’», disse, divertito ma senza l’intento di schernirla. Akane rise lievemente, scostandosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio e sorseggiando un poco di quel  caffè che incominciava a minacciare di raffreddarsi
«Mi piace l’odore, tutto qui», rispose
«Non è solo quello», aggiunse lui «Usi sempre e solo quella marca – è robetta, non hanno neppure un aroma particolare. C’è qualche altro motivo dietro questa scelta?»
Akane abbassò lo sguardo, pensosa. Non sapeva se svuotarsi completamente, se lasciar andare il peso che si era sobbarcata quasi due anni prima condividendolo con qualcuno che conosceva solo sommariamente e che avrebbe potuto rigirare la cosa a suo vantaggio. Inoltre, c’era da considerare il fatto che parlarne nel dettaglio l’avrebbe stressata, e non era di certo un lusso che poteva concedersi, ché di lussi se n’era concessa già troppi. Quella mattina era praticamente quanto di più vicino potesse esserci all’irrintracciabile; c’era posto solo per lei, Sakuya e la pigrizia.
«Un giorno te ne parlerò», rispose infine, guardandolo dritto negli occhi, per quanto le fosse possibile da quella distanza.
Sakuya sorrise e tirò un’altra boccata. Ad Akane piaceva tutto di quel movimento: il modo in cui portava la sigaretta alle labbra, il leggero incavarsi delle guance mentre aspirava il fumo e le labbra piene che si dischiudevano appena per rilasciarlo. Trovava elegante persino il modo in cui lasciava pendere la sigaretta tra le dita. Tutto di lui sembrava al di fuori della sua portata, eppure aveva acconsentito a qualcosa che rischiava di mettere in pericolo entrambi senza batter ciglio; se fosse stata un poco più maliziosa avrebbe dato retta a quella vocina nella sua testa che suggeriva che lui la stesse aspettando come un ragno attende una farfalla che s’incagli nella tela.
«Perché non adesso?», chiese lui. La sua voce graffiata si era tinta di quella tipica nota melliflua di quando si divertiva a pungolarla sui punti deboli; ricordando il contesto in cui era solito modulare la voce a quel modo, sentì una lievissima scossa diffondersi da sotto le scapole sino alla base della spina dorsale. Si morsicò lievemente il labbro, portando la tazza alla bocca in un tentativo maldestro di non farsi notare.
«Questioni di cuore?», incalzò lui mentre la raggiungeva al tavolo. Akane rise sommessamente e si soffermò ad osservare i movimenti delle sue dita; persino il modo in cui si avvolgevano intorno alla ceramica trattata, come se questa fosse stata creata apposta per stare in un palmo come il suo, trasmetteva una certa sensualità a cui non si sentiva più abituata come un tempo. Il fatto di poterlo guardare negli occhi stando seduti allo stesso tavolo, di averlo vicino già abbastanza da avvertire distintamente il suo odore, era già qualcosa che andava ben oltre tutto ciò su cui aveva potuto fantasticare durante i primi mesi di lavoro.
Akane abbassò lo sguardo e passò istintivamente la mano sul pacchetto malridotto di Spinel, quasi con tenerezza, come si farebbe con uno di quei vecchi diari che aveva trovato a casa della nonna quand’era piccola. Quella sembrò essere una risposta sufficiente, dato che Sakuya non incalzò oltre. Aveva letto un libro, una volta, uno di quei pochi superstiti cartacei stipati sugli scaffali delle biblioteche che le scuole mantengono più per estetica che per una reale utilità, in cui spiegavano un concetto che le era in qualche modo rimasto sempre dentro. Dicevano che si può avere nostalgia anche di quel che non accade, la chiamavano con una parola strana che in tutti quegli anni non aveva mai imparato, ma che stava a significare nostalgia del possibile. Quando toccava quel pacchetto di sigarette, l’unica immagine che le veniva in mente era quella di lei e dell’agente Kougami appoggiati contro un muro, rilassati, a parlare di cose che sicuramente non avrebbe capito benissimo ma che avrebbe ascoltato volentieri, con lui che le passa l’accendino. Era come una traccia che si ripeteva in loop nella sua testa, sempre così, stesso scenario. Era più o meno quello che succedeva con Sakuya le prime volte, con la sola differenza che lei non fumava davvero.
Il fatto di avere sui vestiti l’odore di un’altra marca di sigarette le pungeva il cuore, alle volte. Era ingiusto nei confronti di tutti e tre – e di Ginoza, pure, che quando al lavoro ricollegava l’odore alla persona assumeva quasi un’aria offesa.
La realtà la riportò a galla dolcemente, quando sentì il tocco inatteso delle dita di Sakuya sul dorso della sua mano. Lo guardò negli occhi e fu come sentire una mano gelida artigliarle il cuore e stringerlo forte, mentre i suoi polpastrelli accarezzavano piano le nocche; le dita di Akane si mossero come dotate di volontà propria ed andarono a intrecciarsi a quelle di lui. Per un momento fu pervasa da un brivido di timore che strideva con quell’atmosfera quasi di sogno che sembrava avvolgere entrambi; il fatto che anche la mano di un altro fosse poggiata su qualcosa che aveva perso il suo valore d’oggetto inanimato e preso quello di simbolo le sembrava quasi un tentativo di marcare un territorio che in fin dei conti non gli apparteneva. L’idea stessa che lui potesse considerarla “territorio” le faceva sentire in fondo alla bocca un sapore amaro. Tutte sciocchezze, si disse. La sua stretta non era di possesso, assomigliava più ad un tentativo sfacciato di attirare la sua attenzione; vedendola così, non poté fare a meno d’intenerirsi un poco. Il solo fatto che fosse capace d’intenerirsi di fronte a un uomo che la gente tendeva ad evitare, poi, era già tutto un dire; non capiva se cercasse di nascondere gli aspetti di lui che la insospettivano per concentrarsi su quelli che invece la facevano sentire protetta, o se stesse cadendo nello stesso pregiudizio di cui ad esempio l’ispettore Shimotsuki sembrava essere caduta vittima sin dalla prima volta in cui l’aveva incontrato. Un giorno si sarebbe occupata di saperne di più anche su quello, ma non quel giorno.
In ogni caso, nonostante le paure illogiche che di tanto in tanto le sussurravano avvertimenti, gli spazi tra le dita affusolate di lui le sembrarono fatti apposta per accogliere le sue. Non erano rimasti così che per pochi istanti, eppure le parve quasi che le loro mani fossero state scolpite a quel modo; scivolare via con dolcezza e sfilare il pacchetto da sotto il palmo di lui le diede la stessa sensazione di quel fastidioso lasso di tempo tra quando si sfilava i vestiti ed entrava nella doccia calda in certe mattine invernali. Estrasse una sigaretta e se la portò alla bocca, con gli occhi che cercavano l’accendino di Sakuya
«Ecco, a furia di guardarti fumare finirò col prendere l’abitudine anch’io», biascicò, mordicchiando il filtro. «Come se non ne avessi già tante», aggiunse divertita.
Si sollevò leggermente dalla sedia, sporgendosi un poco in avanti per portarsi verso l’accendino che Sakuya stava già avvicinandole. Una delle cose che adorava di lui era il fatto che sapesse capirla senza che parlasse; troppo spesso le bastava semplicemente cambiare sguardo perché lui provvedesse – e sino ad allora non aveva mai sbagliato un colpo. Le venne in mente una volta, quando diversi mesi prima di cominciare ad approfondire la frequentazione le aveva fatto recapitare una scatola di cioccolatini fondenti finissimi d’importazione, con tanto di confezione regalo, di buon mattino sulla scrivania. Non aveva idea di come facesse a sapere che fosse un periodo particolarmente complesso, ma una tale premura la lusingava quasi al punto da imbarazzarla.
Quando la sigaretta fu accesa, Akane si risedette e aspirò lievemente per poi ricacciare fuori il fumo quasi soffiando. La risata a stento trattenuta di Sakuya era indice del fatto che non era così che si fumava, ma lei non aveva mai davvero capito cosa si intendesse per “aspirare”
«Quel che hai detto sulle cattive abitudini è potenzialmente molto offensivo, sai?», la rimbeccò lui col tono di chi finge di essere offeso «Ti sembro uno di quei mal amour per passare il tempo, una cosa da niente?»
Akane rise lievemente
«Non essere drammatico», lo ammonì con tono scherzoso
«Purtroppo sono nato drammatico», sospirò lui «E comunque, per prendere una cattiva abitudine dovresti impararla, prima»
Akane gonfiò le guance mentre giocherellava col filtro
«Se vuoi t’insegno io, so essere un ottimo maestro», la punzecchiò ancora Sakuya. Akane scosse il capo divertita.
«Ci hanno già provato prima di te, purtroppo sono negata», disse. Il suo sguardo tentennò un attimo e trattenne il fiato. L’idea di lasciarsi andare completamente, di aprire uno spiraglio troppo grande perché lui potesse guardare meglio dentro di lei, ancora la spaventava. Poteva camminare nuda con lui in casa e non battere ciglio, ma confidargli una storia apparentemente stupida e insignificante sembrava ancora troppo lontano dalle sue intenzioni – allora giungeva alle sue orecchie la vocina del tarlo che da un po’: puoi fidarti di uno come lui? Sembrava quasi un peccato non farlo. Sakuya aveva fatto di tutto per potersi guadagnare della fiducia ed era certa che le avrebbe portato anche un pezzo di Luna, solo che lei l’avesse chiesto. Arrivati a quel punto, poi, era quasi stupido trincerarsi dietro la scusa della riservatezza. Non sapeva se temeva che potesse ingelosirsi – il che non sembrava possibile, data la sua voglia smodata di saperne di più. Erano ancora in quella fase in cui si cerca di appropriarsi di tutto dell’altro, soprattutto lui, e mentre lui non si faceva remore a parlare delle donne con cui era stato senza rancori o sentimentalismi di sorta lei sentiva come una corda stringersi attorno alla sua gola ogni qualvolta provava anche solo a mettere in ordine i pensieri per poter parlare di qualcuno che non aveva fatto altro che scivolarle via dalle dita come fumo. Poteva quasi dire di avere la certezza di potersi aggrappare a Sakuya – anzi, forse le conveniva farlo prima che scomparisse nel nulla anche lui, sebbene tutto di lui sembrasse dirle sono qui, resto qui per te.
Prese un lungo respiro per farsi coraggio prima di parlare.
«Posso raccontarti di quella volta, però», disse. Il suo tentativo di non inciampare nelle sue stesse parole riuscì goffo – non riusciva proprio a fingere naturalezza quando si addentrava in quel territorio, ma tutte quelle storie avrebbero continuato a marcirle dentro senza che ci fosse una ragione plausibile se non avesse mai quantomeno tentato di esorcizzare il timore reverenziale che provava all’idea di parlarne.
Lo sguardo di Sakuya divenne stranamente vigile e curioso. Sembrava quasi pronto a scattare, come se non attendesse altro da lei; capiva bene la curiosità e la gioia di aver ottenuto il permesso di impicciarsi nel suo passato – cosa che non aveva consentito a nessuno prima di allora – ma c’era quasi una smania ingiustificata nei suoi occhi. Era in quei momenti che ricordava che lui restava in ogni caso un criminale latente. Una scelta decisamente strana, quella di legarsi intimamente a qualcuno di potenzialmente pericoloso; ormai credeva di essersi lasciata alle spalle quell’abitudine, ma tutto sembrava dimostrarle l’opposto.
 
Lo stesso sguardo vigile l’aveva il signor Kougami quella sera, quando Akane gli chiese se potesse sostituirla alla guida così che lei potesse riposarsi. Alla fine del turno, almeno sul tragitto di casa, doveva pur avere il diritto di godersi il meritato riposo.
Il sedile del passeggero, però, non faceva per lei. Le sembrava che le automobili che viaggiavano nel senso opposto arrivassero dritte in faccia, pronte a travolgere lei e l’agente Kougami; per quanto razionalmente riuscisse a capire che si trattava di un effetto ottico, non poteva fare a meno di distogliere lo sguardo non appena vedeva un camion o qualche altro grosso veicolo provenire dall’altra direzione.
Aveva colto una nota di divertimento nello sguardo dell’agente, mentre s’impegnava a dissimulare il disagio. Evidentemente non doveva riuscirle granché. A quel punto aveva sospirato ed era sprofondata comodamente nel sedile, scrollandosi da dosso un poco della sua rigidità professionale assieme alla stanchezza. Il cielo sopra di loro si era tinto di un lilla tenue sfumato di un bel fucsia carico verso ovest, con le nuvole che di tanto in tanto aggiungevano striature di un blu cobalto dai riflessi grigi; si era domandata spesso se quel cielo non fosse esso stesso un ologramma, una proiezione di qualcosa che era andata perduta tempo addietro. Sarebbe stato bizzarro se qualcuno ogni mattina avesse semplicemente impostato una sequenza di algoritmi specifici per creare certi spettacoli meravigliosi. Il sole era una mezza sfera sanguigna che si tuffava dietro gli edifici alti della metropoli, e non avrebbe stentato a credere che fosse finto. Anche se non fosse stato reale, restava pur sempre uno spettacolo meraviglioso. Inoltre, probabilmente una ragazza come lei, nata già sotto la stella del Sibyl System, non aveva mai avuto occasione di vedere il cielo com’era prima; che senso avrebbe avuto rimpiangere qualcosa che in fondo non aveva mai sperimentato? Forse qualcuno come il signor Masaoka avrebbe avuto ragione di esserne addolorato, ma non lei o altri giovani in generale
«Ti piace startene col naso per aria, ispettore?», domandò il signor Kougami. Akane si sentì come scossa da un sonno leggero, in quel momento, e lo guardò spaesata.
«Mi scusi, mi ero distratta», rispose lei, per poi tornare nel suo silenzio discreto. Lo studiò con lo sguardo, incerta se parlare o meno. Stargli intorno era diventato più semplice soltanto da poco, ma percepiva ancora la sua presenza come qualcosa di troppo imponente al di là dell’autorità che la legge le aveva concesso su di lui.
«Senta, signor Kougami…», disse, quasi un sussurro, come se si vergognasse «Le dispiacerebbe se le facessi una domanda?»
«Dipende dalla domanda, suppongo», rispose lui. I timori incominciavano pian piano a sciogliersi. Sentirlo parlare era più rassicurante di quanto le piacesse ammettere; non aveva certo bisogno dell’approvazione di qualcuno, si diceva.
«Che rimanga fra noi, ma… secondo lei il cielo che vediamo è quello vero?»
«In che senso?»
«Quante sono le probabilità che sia un ologramma?»
Kougami aggrottò prima le sopracciglia, perplesso, prima di scoppiare in una risata che non traspariva scherno – sembrava genuinamente divertito, era forse una delle poche volte che l’aveva visto così.
«Che cos’è, la nuova teoria del complotto in voga tra voi giovani?»
«Soltanto un pensiero estemporaneo, agente»
Kougami scosse la testa, con quel sorriso che non accennava ad andar via
«Non penso proprio, ispettore. Quel poco che abbiamo lasciato della natura penso sia ancora autentico. Magari stiamo vivendo in una qualche sorta di iperrealtà che non ci sembra più artificiale del normale, tutto può essere, ma per quanto ne so non è questo il caso»
Fece una pausa come di riflessione, dopo averle risposto. Sembrava essere stato colto da un’illuminazione, ma che stesse elaborando un modo per parlargliene – o meglio, sembrava quasi che stesse tramando qualcosa. Gli scanner non segnalavano anomalie di alcun tipo.
«A proposito di natura…», mormorò quasi fra sé, come se non parlasse con lei; le rivolse direttamente la parola subito dopo «Ispettore, permetterebbe una piccola deviazione? È questione di poco, e poi finché c’è lei a supervisionarmi non c’è pericolo»
Akane aggrottò lievemente le sopracciglia, come se ci fosse qualcosa di sbagliato nella richiesta di Kougami. Il clima si era fatto fin troppo amichevole e confidenziale in pochissimo tempo – fin troppo poco. Sebbene sapesse benissimo che, nell’eventualità, si sarebbe difesa egregiamente, si sentiva in colpa all’idea di considerare così lontana l’ipotesi di un tranello. Inoltre, sapeva benissimo anche che, nel caso in cui fosse capitato qualcosa di male a lei o a entrambi, se fosse sopravvissuta sarebbe stata licenziata in tronco e non avrebbe avuto di che lamentarsi; probabilmente sarebbe anche stata il primo caso di persona con un coefficiente normale sbattuta dentro.
Per quanto bene avesse studiato il regolamento, non ricordava ci fossero regole contrarie allo scortare gli Esecutori. A ben pensarci, messa in quei termini era davvero come portare un cane a passeggio e sentì una fitta di mortificazione pungerle lo stomaco al pensiero.
«È sicuro sia legale, signor Kougami?», domandò, cercando di dissimulare i dubbi.
«Si fidi, se il Sibyl non volesse che facessimo qualcosa ce lo renderebbe immediatamente noto. Finché non vediamo dei droni in corsa nello specchietto retrovisore possiamo stare tranquilli»
I tratti di Akane s’irrigidirono in una smorfia di disagio all’idea di dover rispondere di una bravata completamente non necessaria; tuttavia, in qualche modo sapeva che il signor Kougami non l’avrebbe mai messa in posizioni scomode – non più, almeno, si disse quando la sua mente corse al loro primo giorno di lavoro insieme
«Agente, devo forse ricordarle che ci siamo scambiati il sedile e non il grado?», chiese, cercando di imprimere alla sua voce e alla battuta una naturalezza tale che suonasse bene tanto quanto nella sua testa quando l’aveva concepita. Le luci dell’autostrada illuminarono il sorriso sghembo sul volto di Kougami; si sentì quasi imbarazzata dalla soddisfazione che provava.
«Non se ne pentirà, Ispettore, scommettiamo?», disse Kougami.
«Scommettiamo, allora.»
Quell’aria di familiarità non le dava l’idea di una mancanza di rispetto da parte sua; per quanto fosse sempre serio e concentrato sul lavoro, pensò, doveva avere pur bisogno di uno svago che non consistesse nel tirare pugni alle cose o aspirare sostanze che almeno un tempo erano dannose per l’organismo.
«Non scommetto nulla, voglio fidarmi di lei.»
Kougami sembrò prendere quella frase come un ordine; accelerò abbastanza da farle attorcigliare lo stomaco, ma non abbastanza da uscire dai limiti. Sembrava quasi che avesse imparato a viversi certi brividi poco alla volta, come dosi di veleno che lo rendessero immune allo stesso; il massimo del brivido che Akane provava quotidianamente era girare in mutande per tutta casa quando non aveva ospiti e indossare solo il pezzo di sopra del pigiama quando aveva da rispondere alle videochiamate. Quello, e finire certi cocktail che spaventavano anche bevitori più esperti di lei in meno di dieci minuti. Guardando fuori dal finestrino, mentre il cielo incominciava a sfumare delicatamente nell’indaco, notò che le luci artificiali andavano diminuendo man mano che si addentravano nelle strade che portavano fuori dalla metropoli. L’uscita dell’autostrada era una di quelle che non aveva mai avuto bisogno di prendere, di quelle che portavano fuori dalla grande città – era mai davvero uscita fuori dai confini della metropoli per puro piacere? Non ricordava viaggi particolarmente lunghi, nella sua vita, che non fossero funzionali a faccende di scuola o al lavoro. Pensò che le sarebbe piaciuto, una volta, fare di testa propria. Anche il fatto che quella volta l’idea di fuggire per un po’ fosse stata dell’agente Kougami la faceva sentire come in balìa di forze che la trascinavano o la guidavano a seconda della tensione che avvertiva nelle spalle; chissà, si chiese, se il giorno in cui avrebbe deciso per se stessa fosse vicino o meno. Con Kougami si sentiva più a suo agio che con altri, ma non poteva fare a meno di domandarsi se fosse davvero in grado di essere una guida per quelli come lui. Gli altri le apparivano come individui fatti e finiti, mentre si vedeva costantemente alla ricerca dell’approvazione di qualcun altro, come se la sua stessa vita fosse in qualche modo completata dai segnali degli altri
«Ispettore, c’è ancora o dorme?»
«Ci sono, ci sono, sto guardando il panorama.»
«E non ha visto ancora nulla.»
La soddisfazione dava alla voce di Kougami un colore che non era abituata ad associare a qualcuno come lui; l’uomo che aveva accanto sul posto di lavoro, sino a qualche tempo fa, non si sarebbe mai rivolto così a lei. Si era domandata più volte perché un uomo così sulle sue l’avesse presa in simpatia quasi al punto da sembrare affezionato – il fatto di avergli sparato il primo giorno di lavoro, in teoria, non avrebbe dovuto farle guadagnare punti, eppure apparentemente era stato il punto di partenza di quello che sentiva come un rapporto per cui erano state quantomeno gettate le basi. Quando guardava il suo profilo illuminato a intermittenza dai lampioni e dalle luci della metropoli che si allontanava dietro di loro si rendeva conto di quanto in realtà poco sapesse e potesse dire del suo rapporto con quell’uomo; quell’uscita, forse, era il suo modo di consolare qualcuno a cui teneva, o quantomeno sembrava tenere. Si voltò completamente verso di lui, nascosta nella penombra abbastanza perché lui non potesse accorgersi che lo guardava; era la cosa che faceva più di quanto le piacesse ammettere. Non poté fare a meno di chiedersi cosa passasse per la sua testa. In qualche modo, sembrava che lui sapesse sempre almeno a grandi linee cosa stesse pensando lei e il fatto di non poter fare lo stesso la turbava; Kougami era sempre un passo avanti a lei, e non poteva farci nulla. Anche in quel momento che altri avrebbero definito quasi d’intimità, c’era sempre una barriera sottile a separarli, quasi palpabile, credeva quasi di poterne percepire il freddo se avesse deciso di allungare la mano per toccarlo.
Akane fu scossa da un tremito. Non aveva alcun diritto di pensare certe cose. Si rannicchiò sul sedile come a cercare di difendersi da certi pensieri; il cuore era come risalito in gola tutto d’un tratto, pensando che soffermarsi troppo a fantasticare avrebbe potuto costarle qualcosa. Non aveva intenzione di perdere quanto aveva conquistato per dei pensieri che appartenevano forse più ad una se stessa adolescente che alla se stessa di quell’istante. Chiuse gli occhi, cercando di scacciare via il profilo di Kougami dalla mente per un attimo. A quel punto, non sapeva neppure più perché avesse acconsentito a quella deviazione dalla norma. Si morse il labbro, sentendosi più che mai protetta dal buio.
«Ci siamo quasi, Ispettore», disse Kougami per rompere il silenzio, che a quel punto per Akane pesava più di un mattone sul suo petto «Non se ne pentirà»
Akane non rispose. Il fatto che Kougami non l’avesse incalzata stava probabilmente a significare che la credeva già nel mondo dei sogni; il fatto di dare l’idea di una bambina dal sonno facile la divertiva, purché la si prendesse sul serio per tutto il resto.
L’automobile si fermò su quella che probabilmente era la prima strada sterrata che vedeva in vita sua. Aveva persino dubbi che potessero ancora esistere strade così.
Quando aprì lo sportello, avvertì l’aria della sera pungerle piacevolmente il viso ed inspirò a pieni polmoni; non seppe spiegarsi il perché, ma il fatto di trovarsi in un luogo così radicalmente diverso dalla città le strappò un sorriso. In qualche modo, anche una simile scelta un po’ l’avvicinava a Kougami: adesso sapeva che la città lo soffocava più di quanto desse a vedere.
Posò le scarpe su un suolo più morbido dell’asfalto cui era abituata. Si allontanò un poco dall’auto, chiudendosi la portiera alle spalle, solo per guardarsi attorno: non appena gli occhi si abituarono un poco all’oscurità, riuscì a mettere a fuoco le sagome nere degli alberi che si stagliavano sinuose contro una coltre indaco punteggiata di stelle. Un suono flebile, appena percettibile, di meraviglia sfuggì alle sue labbra e ringraziò di essere al buio perché Kougami non poteva vederla imbambolata, con la bocca aperta e il naso per aria. Nelle serate più limpide cercava sempre il Grande Carro, o Cassiopea in inverno, al di là delle cime dei grattacieli, spesso senza trovarle; le capitava alle volte di distinguerne le forme appena accennate, ma gli occhi non potevano afferrarle per davvero in quelle condizioni. Se ne stava lì, col cuore che batteva inspiegabilmente forte alla vista della forma nitida dell’Auriga. Il suo cuore fu come investito dalla dolcezza dei ricordi di serate anche di pochi anni prima passate distesa su certe terrazze un poco fuori città, circondata dalle amiche che amava più di ogni altra cosa, e quelle più a ritroso nel tempo che rievocavano l’eco della voce della nonna che la chiamava in casa perché non stesse fuori troppo a lungo, la stessa voce che le raccontava che in tempi più remoti c’era una festa, in Giappone, dedicata alla leggenda dell’incontro fra due stelle.
«Che dice, Ispettore?», la apostrofò Kougami, non senza una certa baldanza «Ne è valsa la pena?»
«Assolutamente sì»
Non potevano guardarsi bene in volto, ma dalle voci si percepiva il sorriso sulle labbra di entrambi. Kougami la illuminò con una piccola torcia, forse per non perderla di vista
«Allora venga qui vicino a me, voglio mostrarle una cosa»
Akane seguì la luce a passi lenti, per non incespicare. Kougami l’attendeva appoggiato al cofano dell’automobile con naturalezza, come se fosse effettivamente fatto per starci seduti. Aveva sempre un’aria rilassata ma in qualche modo vigile, come se fosse pronto a scattare all’occorrenza.
Non appena furono vicini abbastanza, Kougami sembrò spogliarsi del tutto delle formalità; le passò una mano attorno alle spalle e la avvicinò a sé. Akane s’irrigidì e trattenne il respiro
«Ora faccia bene attenzione», disse con un tono di voce insolitamente basso, quasi che temesse di disturbare qualcuno; Akane si chiese come mai non avesse smesso di darle del lei anche in una simile circostanza «Riesce a vedere dove sto indicando?»
«Sì», rispose lei con tono altrettanto sussurrato
«Quella è-»
«Orione», intervenne Akane «È la costellazione che si vede meglio a occhio nudo, no?»
Lo sentì ridere a bassa voce e serrare lievemente la presa sulla sua spalla
«Diamine, speravo di coglierla più impreparata. Di solito quando indicavo Orione le ragazze andavano in visibilio, devo essermi arrugginito col tempo»
Akane arrossì e ringraziò tacitamente il buio
«I tempi sono cambiati, signor Kougami.»
«Sta forse dicendo che sono vecchio?», la rimbeccò lui con il suo miglior tono da finto offeso. Risero entrambi ed Akane avvertì il calore della sua mano svanire pian piano dalla sua spalla mentre si spostava. Non sapeva come prendere le parole di lui; era da un po’ che lo guardava con altri occhi rispetto agli altri colleghi e si sorprendeva di quanto intenso fosse questo debole che sembrava stesse incominciando ad avere per lui, che l’aveva investita come un’onda alle sue spalle e l’aveva lasciata con gli occhi sbarrati sulla riva a cercare di respirare nuovamente. Non ne aveva parlato a nessuno, di questo suo sentimento, perché lei stessa ancora non sapeva bene come definirlo. Sapeva soltanto che quand’era con lui sentiva una voglia di vivere che in altri momenti passava in secondo piano.
Si tolse le scarpe, lasciandole abbandonate davanti al muso dell’automobile e si tirò indietro, accovacciandosi sul cofano e abbracciandosi le ginocchia, con gli spifferi che s’infilavano sotto la camicia. Guardò in alto dove le aveva indicato Kougami e fu grata di non potersi vedere, perché sentiva il volto tirato in una stupida espressione sognante completamente fuori luogo rispetto a quel che erano e sarebbero dovuti essere.
«Era da tantissimo che non vedevo tutte queste stelle», mormorò
«Paparino mi ha detto che quand’era giovane ce n’erano molte altre – io non ci credo, però, i vecchi dicono sempre che tutto era meglio prima. Mi ha raccontato di quando ha portato qui sua moglie per festeggiare la notizia che sarebbero diventati genitori.»
«Il signor Masaoka dev’essere un uomo davvero interessante…», disse lei, lasciando però la frase a pendere nel vuoto – la sua testa se ne stava altrove, ormai «Venite spesso qui con l’ispettore Ginoza?», chiese, come a cercare un appiglio.
«Siamo venuti qui la prima volta quando ancora ero un ispettore, io e paparino decidemmo di portarlo qui per fargli provare il brivido delle sortite notturne… ricordo che ha fatto un sacco di storie all’inizio.»
Lo avrebbe ascoltato per ore.
«E poi?», si voltò a guardare la sua sagoma nella notte, la bocca piegata in un sorriso mentre si figurava le proteste dell’Ispettore Ginoza. Era incredibile come tra le quattro mura di un aneddoto persino le figure più impensabili assumessero tratti più umani, quasi più abbozzati, come se stessero all’interno di una vignetta.
«Poi ha alzato il naso per aria e si è ammutolito. Non ha voluto più rifarlo, ma non potrò mai scordarmi il verso di stupore che gli sentii uscire da bocca… mi piacerebbe tornare qui più spesso, sa?»
«Anche a me piacerebbe», mormorò Akane. Si morse il labbro – sentiva di non aver saputo controllare la sua voce, era uscita dalla sua bocca quasi fremente e sperò che Kougami non se ne fosse accorto.
«Se lei mi dà il permesso, potremmo venire qui ogni volta che lo vorrà», disse. Anche nella sua voce c’era una sfumatura diversa da quella che aveva di giorno, ma non seppe dire se questo cambiamento fosse frutto delle sue fantasticherie o se davvero stesse avvenendo.
Akane si distese lentamente, con la paura di scivolare che irrigidiva i suoi movimenti. La testa era posata scomodamente sul vetro frontale della vettura e sentiva il collo piegato in maniera innaturale, come quando sistemava il cuscino in mille modi ma non riusciva a trovare una posizione consona – quando lo vedeva fare alle eroine dei film sembrava incredibilmente semplice e naturale; rise di sé, pensando che forse non era adatta a quel genere di avventure. A conti fatti, non si sentiva fatta nemmeno per quelle missioni che affrontava ogni giorno. Eppure era lì.
«Tutto a posto, Ispettore?», chiese lui. Non c’era malizia nella sua voce, nessuna provocazione, solo un senso di genuino interesse. Akane trattenne il respiro e si disse che forse stava andando un po’ troppo in là con la fantasia; eppure, in quel preciso frangente non riusciva proprio a sovrapporre l’idea di Kougami con quella di un sottoposto che lei dovesse tenere al guinzaglio. Era uno di quei cattivi ragazzi che era abituata a guardare al di là di uno schermo, ma se ne stava tranquillo accanto a lei, appoggiato sul cofano, illuminato brevemente dalla fiammella di un accendino vintage. Esistente tanto quanto lei.
Akane si alzò a sedere, come colta da un’illuminazione. Aveva posato lo sguardo sulla sigaretta appoggiata tra le labbra di lui un secondo di troppo – non una sigaretta morsicata e relegata all’angolo della bocca come spesso aveva visto; era posata penzoloni come fosse una piccola gioia in un momento di tregua. Deglutì, cercando di distogliere la mente il più velocemente possibile dal piccolo spasmo che l’aveva percorsa mentre gli occhi indugiavano per quella frazione di secondo sul suo profilo.
«Agente», lo chiamò lei con voce più flebile, abbastanza da risultare discreta ma non da tradire il senso di confusione da cui si sentiva pervasa. Non sapeva esattamente cosa stesse facendo, né dove stesse cercando di arrivare, ma poteva sentire le parole quasi straripare
«Posso provare?», domandò.
Ci fu un momento di silenzio.
«Cosa?»
Akane sentì come una mano chiudersi intorno allo stomaco ed artigliare forsennatamente per l’imbarazzo. Era riuscita persino a sbagliare una richiesta così semplice.
«La sigaretta. Mi piacerebbe provare, sì»
Sentì Kougami emettere una risata leggera nel buio.
«Non sapevo fosse così sprezzante del pericolo», la canzonò lui. Akane sentì distintamente il rumore del pacchetto che veniva aperto. «Si avvicini»
Akane scivolò un poco in avanti, verso di lui, che aveva riacceso la fiamma per capire dove fosse. Una volta che ebbe individuato la mano che teneva la sigaretta, estese la sua per prenderla. Il contatto fu breve, riuscì a malapena a sentire le nocche di lui sotto i polpastrelli, eppure non poté fare a meno di notare quanto fossero diverse dalle sue, quelle mani. Mani che avevano ucciso – a sangue freddo, a malincuore, questo poteva saperlo soltanto Kougami, ma che senz’altro avevano ucciso. Non era un assassino, però. Era più simile a un cane da caccia o a un predatore, qualcuno che aveva come una predisposizione alla violenza, e che pure riusciva in qualche modo a ispirarle fiducia; non si era mai sentita in grado di giudicare i criminali latenti proprio perché sentiva questa sorta di timore reverenziale nei confronti della loro più grande contraddizione. Erano esseri umani come lei, ma il fatto di essere marchiati li metteva in qualche modo in relazione alle bestie. Kougami aveva qualcosa di ferino in sé, l’aveva notato da come correva o da come digrignava i denti quando particolarmente concentrato, ma non si sarebbe mai sognata di definirlo in tutto e per tutto animalesco. Era quel tipo di aura selvaggia, la sua, da farle trattenere il fiato; forse era così che si sarebbe sentita stando accanto ad un lupo addormentato.
Si rigirò la sigaretta fra le dita fingendo naturalezza anche se Kougami non poteva vederla. Col peso appoggiato sul palmo, all’indietro, e una gamba piegata contro il petto mentre l’altra ricadeva rilassata, si sentì per un momento come parte di un sogno. Si portò il filtro marroncino alle labbra – la sigaretta era di quelle grosse, piene di tabacco, aveva notato – e avvicinò il viso alla fiammella.
Aspirò troppo velocemente. Un colpo roco di tosse le sfuggì dalle labbra mentre si toglieva rapidamente la sigaretta da bocca, tenendola tra pollice e indice per non farla cadere; sentì la gola arsa dalla nicotina e si domandò se era questa la sensazione con cui il signor Kougami doveva convivere ogni giorno. Si domandò come sarebbe stato baciare qualcuno con la bocca sempre bruciata dal fumo ed arrossì nell’oscurità.
Dalla punta della sigaretta, unico punto di luce, si levava uno sbuffo di fumo appena percettibile.
«Diamine, Ispettore», la rimbrottò lui «Devo insegnarle anche a fumare?»
Akane emise una mezza risata, ancora senza fiato. «Non si preoccupi, agente, non credo sia necessario»
Si portò nuovamente la sigaretta alla bocca e guardò in alto, con gli occhi che cercavano un qualche grumo di stelle riconoscibile su cui concentrarsi. Forse, pensò, se si fosse riempita la bocca di fumo senza aspirarlo sarebbe comunque riuscita a sentire il suo stesso sapore. Sarebbe stato come averlo con sé pur non riuscendo a vederlo o toccarlo in quell’oscurità. Era solo una fantasticheria sciocca di una ragazza che forse stava leggendo in quell’incontro qualcosa che non c’era davvero, ma a quel pensiero il sapore della nicotina si era fatto un poco più sopportabile.
Forse non avrebbe mai imparato a fumare.
Akane tirò le ginocchia al petto, tenendo la sigaretta tra le dita come fosse una bacchetta d’incenso, prendendo di tanto in tanto una di quelle finte boccate e lasciando che il fumo di entrambi si avvolgesse loro intorno come un velo, o come qualcosa che li legasse, come se fossero avvolti dallo stesso velo che li proteggesse dal freddo della notte.  
«Mi dica, signor Kougami, ha mai sentito parlare di quell’antica leggenda di Vega e Altair?»
«Purtroppo no, Ispettore», rispose lui con un sorriso pienamente udibile nella voce «Ma sarei felice se fosse lei a raccontarmi qualcosa che non so»

 
***
 
Eeee siamo arrivati all’angolo dell’autore. Evviva. Riporto innanzitutto la traduzione del testo in alto, che è una canzone di Pino Daniele che ho scoperto da poco ma che adoro (e che mi ha dato la “botta” finale per spingermi a finire il pezzo):
 
Malinconia, mi scoppia / ogni minuto in petto / perché passando forte / hai disfatto il letto
Malinconia di chi è sazio / e dice di essere digiuno
Malinconia di nessuno

 
Ho voluto fare qualcosa di un po’ più sperimentale e cinematografico, studiando pure tutta una serie di riferimenti estetici perché la cosa rendesse bene soprattutto visivamente e spero che il risultato sia apprezzato! In particolar modo mi piacerebbe che fosse apprezzato da Starnie, a cui la storia è dedicata ♥ auguri per i nostri PRIMI dieci anni di scleri! 
 
 
  
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