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Autore: sakura182blast    20/11/2016    3 recensioni
Kagome è una ragazza vittima di una realtà distorta, di una persona che crede di poter esercitare su di lei una supremazia assoluta. Ma una visita inaspettata alla sua porta la porterà a cercare una via d'uscita dalla sofferenza e dal dolore, a riconquistarsi con lena e con impegno il suo posto nel mondo. Nella vita, anche nei momenti più cupi, c'è sempre un barlume di speranza: è a quell'appiglio che bisogna aggrapparsi con unghie e denti, difendendo il proprio diritto ad un'esistenza degna di essere vissuta. [ATTENZIONE: CONTENUTI FORTI]
Genere: Generale, Romantico, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Inuyasha, Kagome, Un po' tutti
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Contenuti forti
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Buonasera a tutti voi. Torno nuovamente nel fandom con una storia che per me significa molto. C'è tanto di me in quanto pubblico di seguito e, vi dirò, scrivere è un vero e proprio parto questa volta. Costruire certe situazioni non viene semplice e certi demoni ancora infestano la mia testa. Ho deciso di esorcizzare questi demoni in un modo a me familiare: scrivendo di loro.

Alcune dovute precisazioni: ho dovuto, per esigenze di servizio, dare un cognome a tutti i personaggi (come Miroku ed Inuyasha, per esempio) ed un nome al povero senzanome Hojo, usando quello di  Akitoki per comodità!
Detto questo, vi auguro buona lettura ;)




Hope




Un vetro si infranse.
Mille schegge costellarono il pavimento di legno scuro come piccole stelle in un cielo notturno.
Kagome si era fatta piccola piccola, stretta e raccolta in un angolo del soggiorno in attesa che l'ennesima sfuriata di suo marito terminasse. Neanche ricordava che cosa l'avesse reso così furente, ma Hojo era fatto così da un po' di tempo a questa parte: dipendeva da quale primo pensiero lo colpiva la mattina appena sveglio.
In quei momenti la ragazza faceva finta di sparire. Chiudeva gli occhi, respirava lentamente con una mano posata sul petto mentre cercava, inutilmente, di controllare i battiti del suo cuore impazzito. Cercava di tramutare in fatti quel desiderio di annichilimento totale serrando le ginocchia verso il torace, calando le palpebre sulle iridi nocciola, pensando ad un luogo lontano, sicuro. In quei casi, se le violente mani di Hojo la raggiungevano con gesti poco delicati, sentiva solo l'eco di un dolore sordo là dove veniva toccata: il corpo era lì, la mente trasmigrata in chissà quale remota regione.
Certe volte tornava al liceo, con le sue amiche, discutendo di un compito in classe; altre volte si trovava nella sua camera da letto a punzecchiare dolcemente le orecchie del suo gatto Buyo.
Poi la tempesta finiva, la pioggia cessava di cadere sulle sue membra stanche, ed a lei non restava altro che raccogliere le macerie del suo corpo, della sua anima, e riarrangiarle alla meno peggio.
Era come un vaso rotto, i cui cocci venivano saldati con oro colato per garantire al pezzo una sua unicità, un valore intrinseco. Ma per Kagome non c'erano oro, né cocci: solo lembi lacerati di un'anima distrutta che non avrebbero mai e poi mai combaciato di nuovo. Per quanto lei tirasse quei pezzi l'uno accanto all'altro, per quanta lena ed accanimento ponesse in essere per ricostruirsi daccapo ogni volta, non riusciva comunque a ricostruirsi salda ed eretta come un tempo.
Era un edificio diroccato e traballante, un animale che cercava inutilmente di strisciare con le sue ultime forze lontano da quel predatore che puntava alla sua giugulare con zanne affilate. Eppure quei canini non affondavano mai nella sua carne per l'ultimo colpo di grazia.
Sembrava che quel predatore si beasse della vista di quella preda in affanno, zoppicante verso una salvezza lontana. Saggiava la sua schiena tremante con occhi attenti mentre le stava abbastanza lontano da permetterle di avere una fioca speranza di vita, abbastanza vicino da poterla cogliere con un semplice, piccolo balzo.
Gonfiava il petto tronfio di un orgoglio tipicamente animalesco: la supremazia assoluta su una creatura più indifesa, l'esercizio del diritto di veto sulla sua sopravvivenza.
Insulti misogini di ogni tipo uscivano dalle labbra di suo marito, i suoi occhi guizzavano di una luce malata, una sorta di estasi orgasmica contraeva i suoi muscoli mentre, concitato, si muoveva davanti a lei senza scopo prefissato, né meta. Era riuscito a colpirla un paio di volte, forse tre, poi Kagome si era rannicchiata sul pavimento con lo scopo di proteggere quanto di più delicato avesse: il viso. Si era resa conto, nel corso del tempo, di come il suo desiderio di nascondere il volto in primis nascondesse in realtà una motivazione sordida e malata: le ecchimosi su braccia e gambe erano facili da nascondere, ma la faccia... Beh, svettava per prima là dove doveva essere. Una manica lunga non poteva nascondere un labbro spaccato o uno zigomo violaceo.
Qualcuno avrebbe notato, qualcuno avrebbe supposto, qualcuno avrebbe chiesto.
Il fatto che lei stessa nascondesse al mondo la condotta recidiva di suo marito non riusciva a spiegarselo, ma così era, così andava. Non ricordava più come si potesse vivere in qualsiasi altro modo.
La sua mente felice vagava, ma vagava saldamente sicura di tornare alla sua stabile, venefica realtà da un momento all'altro.
Se Kagome stessa si fosse ritrovata per davvero in quella situazione che prendeva vita nella sua mente durante uno dei suoi viaggi astrali, sarebbe stata di nuovo in grado di comportarsi in modo consono, adeguato? La risposta la spaventava.
E poi, quando Hojo era tranquillo, quando non dava di matto le cose andavano piuttosto bene, no?
No?
Suo maritò lasciò improvvisamente la stanza come una furia per recarsi davanti al portone d'ingresso.
Solo allora Kagome si accorse che il campanello stava insistentemente suonando e senza pensarci si lasciò scappare un sospiro sollevato.
Ma lo smorzò: nessuno le poteva promettere che, terminata l'inaspettata visita, Hojo non avrebbe ripreso dal punto in cui era stato interrotto.
La voce che arrivò dall'ingresso era anziana e preoccupata.
<< Se questa storia non finisce immediatamente, chiamo la polizia. >>
Riconobbe in quel tono sicuro la vecchia vicina del piano di sotto, Kaede, quella graziosa, gentile nonnina che spesso l'aveva fermata lungo le scale afferrandola per le spalle mentre le narrava una bellissima favola: per lei c'era di meglio là fuori, un uomo vero che avrebbe saputo trattarla come la meravigliosa creatura che era.
A Kagome piaceva quella storia. Le faceva credere che da una qualche parte del mondo esistesse qualcuno che poteva rispettarla, forse amarla come meritava.
Ma il coraggio di compiere un solo passo al di là della soglia della sua quotidianità le mancava.
Pensava che solo esseri umani meno mediocri di lei meritassero un sentimento tanto puro come l'amore. Cos'aveva Kagome di speciale affinchè qualcuno la ritenesse migliore di qualcun altro, tanto da farla entrare nella sua vita? Nulla.
Ascoltò distrattamente Hojo mentre inveiva contro l'anziana Kaede, raccomandandole caldamente di farsi gli affari suoi. Poi la porta sbattè violentemente ed il marito le passò davanti lanciandole un'occhiata gelida prima di recarsi in bagno.
Kagome ebbe il tempo di ricomporsi quel tanto che le bastava per abbandonare l'istintiva protezione di difesa ed alzarsi in piedi e, senza che la minima emozione trasparisse dai suoi gesti o dal suo viso, cominciò a raccogliere i cocci di quell'ennesima litigata.
Raccoglieva pezzi di vasellame e pezzi di sé stessa, buttando distrattamente tutto nell'immondizia senza il minimo rigore di logica.
Era così che stava andando? Si stava lentamente buttando via una litigata dopo l'altra?
Cos'avrebbe fatto una volta raccolto e buttato l'ultimo scarto che sarebbe rimasto di lei non lo sapevo. Qualche pezzo ancora le restava ed andava bene così.
Spazzò via con la scopa le ultime piccole macerie, spazzò via dalla sua mente l'ultimo pensiero logico che avrebbe potuto adombrarla, ed attese paziente, in piedi al centro della stanza, che Hojo si spostasse di nuovo in un'altra stanza. Un'altra stanza qualsiasi, a patto che non fosse quella in cui lei stava cercando di sopravvivere.


Un paio di ore più tardi il campanello suonò di nuovo.
Interruppe una quotidianità che, ad occhio ignorante, sarebbe anche parsa tranquilla: i due coniugi, seduti sul divano l'uno accanto all'altra, stavano guardando senza interesse uno sceneggiato comico in televisione in un soggiorno avvolto dalla penombra.
Uno sguardo esperto ed attento avrebbe notato, invece, l'atono sguardo di lui che osservava senza cogliere davvero le vivide figure che si susseguivano sullo schermo opaco del televisore e la rigida postura di lei, seduta accanto al marito né troppo distante, né troppo vicino, con i piedi puntati inconsciamente verso la porta pronti ad uno scatto fulmineo alla prima avvisaglia, al primo la storto che avrebbe scatenato una melodia che Kagome non avrebbe voluto sentire più.
Hojo si alzò con un grugnito sommesso ed andò ad aprire: due uomini in divisa guardarono prima lui, poi lanciarono un'occhiata fulminea ed indagatrice oltre il vuoto alle sue spalle.
Il più alto dei due, un uomo sulla trentina con gli occhi indaco ed i capelli castani raccolti in un codino, si schiarì rapidamente la voce.
<< E' lei Akitoki Hojo-san? >>, disse rapido guardandolo dritto negli occhi.
L'uomo, in risposta, assentì tranquillo.
<< Ci è stato segnalato un episodio di violenza domestica. >>, continuò il poliziotto dando una rapida occhiata ad un minuscolo blocco per gli appunti che teneva fra le mani, e lì si corresse, << Anzi, reiterati episodi di violenza domestica. Il collega ed io siamo venuti per degli accertamenti. >>
Hojo incrociò le braccia al petto e si appoggiò allo stipite della porta. Un sorrisetto strafottente andò a dipingersi sul suo viso, negli occhi una luce accesa, la sicurezza di chi sa che sta affrontando solo un piccolo impiccio di minimo significato.
<< Immagino già chi vi abbia contattato. >>, ammise con una punta di verità, << L'anziana del piano di sotto è una povera vedova demente e senza figli che deve dare pure un senso alle sue giornate noiose. >>
Ridacchiò, a quel punto, ed un brivido scosse la schiena dell'agente; c'era qualcosa in quella risata che gli faceva accapponare la pelle.
Kagome, ancora seduta sul divano in salotto, ascoltava distrattamente la conversazione. Sorrise quando sentì il marito accusare Kaede-sama di essere una pensionata visionaria, ma era un sorriso amaro, rassegnato.
L'unico pazzo visionario, in quel frangente, era proprio Hojo.
La conversazione stava proseguendo su una linea relativamente tranquilla: l'agente che, in qualche modo, giustificava una telefonata di quel tipo da parte di un'anziana ansiosa, suo marito che rispondeva con una voce calda e rassicurante, un paio di risatine che scapparono per una battuta detta da chissà chi.
La visita inaspettata, dai toni del discorso, stava volgendo al termine senza grosse conseguenze e fu a quel punto che qualcosa iniziò a battere insistentemente nella testa della ragazza.
Si grattò distrattamente la spalla sinistra, dando sollievo ad un insolito, bruciante prurito, ma più le sue corte unghie correvano sulla pelle, più la solleticante sensazione si faceva vivida e forte. Si accanì dunque a pieno regime contro quel fastidio con l'unica conseguenza di renderlo più insistente.
Si grattò la spalla a sangue e si stupì quando si accorse che il prurito si era esteso a tutto il braccio, alla mano, e risaliva addirittura fino al collo andando a lambire torace e ventre.
Grattava, grattava e grattava ora con entrambe le sue piccole mani tremanti, ma il disagio non passava.
Schioccò secca la lingua contro il palato e si scoprì la bocca asciutta, la salivazione azzerata.
Udì dall'esterno quelle che volevano essere parole prossime ad un commiato e lì le gambe cominciarono a tremare talmente forte che i piedi, insolenti, battevano sul pavimento di legno producendo un ritmo poco gradevole all'udito.
Cosa le stava accadendo?
Una smania misteriosa la travolse in pieno.
Non riusciva più a controllare i movimenti del suo corpo e si ritrovò eretta a mezzo metro dal divano, i piedi piantati sul morbido tappeto iraniano, gli occhi che guardavano con sdegno quell'insulsa commediola che ancora faceva capolino nello schermo del televisore.
Un attore si abbandonò ad una fragorosa risata e Kagome lo rimproverò con un'occhiata glaciale.
<< Non c'è niente da ridere. >>, sibilò a denti stretti e puntò un accusatorio indice verso di lui come se potesse starla a sentire.
Si guardò intorno, assicurandosi che nessuno avrebbe potuto sentirla, e continuò. << Che cosa ne dici? Se ora quei due se ne vanno senza un dato di fatto le probabilità che tornino si riducono ad un numero ad una cifra. >>
Si torturò le mani mentre osservava l'attore, il suo unico, ignaro interlocutore, che continuava a recitare seguendo il copione ed, ovviamente, senza degnarla di una risposta.
<< Kaede-sama potrebbe anche telefonare di nuovo, ma chi la prenderebbe sul serio poi? >>, insistette la ragazza.
Qualche sinapsi doveva essersi attivata in completa autonomia perchè si accorse di aver cominciato a camminare avanti ed indietro seguendo l'intrecciato disegno del tappeto di lana.
<< Nessuno tornerà a disturbare Hojo e me. Nessuno chiederà più nulla. >>
Con un mezzo balzo abbandonò il caldo abbraccio del tappeto ed iniziò a camminare a piedi nudi sul freddo legno del pavimento seguendo il debole tracciato delle venature, di quei solchi che tempo addietro avevano ospitato la linfa vitale dell'albero e che ora stavano trasportando lei verso una nuova, inconscia meta.
I suoi passi traballanti la condussero là dove sarebbe dovuta andare: davanti alla porta d'ingresso, esattamente dietro le spalle di Hojo.
Li si fermò, le mani giunte in grembo, ed osservò diligentemente i due poliziotti da sotto la frangia scura senza proferire parola.
Quello a sinistra, un giovane dai lunghi capelli color pece e gli occhi profondi, la notò immediatamente. Fece un rapido cenno col capo al collega ed anche quest'ultimo la guardò.
<< Houshi, penso che qui non abbiamo per niente finito. >>, concluse dunque il primo.
Hojo, interdetto, guardò prima uno, poi l'altro, infine si voltò: Kagome era lì, a pochi passi da lui, immobile come in un fermo immagine, come se la sua vita stessa fosse stata messa in pausa.
Houshi scostò poco delicatamente Akitoki dalla porta e si avvicinò alla ragazza, ancora immobile come una statua, forse per assicurarsi che fosse una creatura in carne ed ossa e non un cartonato, un'apparizione intangibile.
La guardò attentamente: quel taglio ancora fresco sul labbro superiore, quel rossore vivo e puro che le accendeva lo zigomo sinistro stavano lì a testimoniare che, probabilmente, l'anziana vicina non era una delirante visionaria con la passione di ricamare strane, infondate vicissitudini sul vissuto altrui.
Le mise una mano sotto il mento e la guardò intensamente negli occhi. << Signorina, conferma la versione della segnalazione? >>
Kagome non rispose; non appena Houshi le lasciò il mento, il suo viso ricadde nella stessa posizione di prima come quello di un fantoccio inanimato, una bambola di pezza nelle fortuite mani del destino.
<< Taishou... >>, esalò dunque l'agente al collega, lo sguardo fisso sulla donna, << Chiama la centrale, chiedi l'intervento di un'altra pattuglia. >>


Dopo l'arrivo di altri due poliziotti che caricarono Hojo sulla loro volante, Kagome restò ignara riguardo alla sorte di suo marito.
Houshi e Taishou, i due agenti che per primi erano arrivati sul posto, la portarono in ospedale per accertamenti e per il rilascio di un certificato che, a loro dire, era indispensabile per dare inizio all'iter legale che ne sarebbe seguito.
La ragazza non ci mise molto a fare due più due ed a capire che entrambi si riferivano ad una denuncia e, di conseguenza, all'inizio di un calvario penale.
La fecero accomodare nella sala d'aspetto gremita di gente e, mentre uno di loro le si sedeva accanto, l'altro sparì dietro la porta della guardiola per parlare con l'infermiere di turno. Probabilmente gli stava spiegando la situazione e, molto più che probabilmente, sarebbe stata la prossima ad entrare.
Houshi, il giovane col codino, uscì poi dalla stanza sbuffando sonoramente e si avvicinò al collega farfugliando qualcosa riguardo ad un incidente grave, due codici rossi in entrata e l'impossibilità di sbrigare la faccenda nel lasso di poco tempo.
Iniziò dunque a vagare senza meta seguendo le quattro mura di quella sala d'attesa con la stessa lena ed ostinazione di una mosca che sbatte infinite volte contro lo stesso vetro della stessa finestra per poter trovare una via d'uscita da una situazione scomoda. Si fermò poi davanti ad un tabellone informativo che recava delucidazioni sulla zecca comune e la malattia di Lyme dove svettavano due scritte a caratteri cubitali: “L'Ixodida: come difendersi dal parassita dell'estate”.
Ma a Kagome in quel momento non poteva importare meno degli aracnidi e delle loro sottofamiglie.
Si guardò intorno con circospezione, infastidita dal sommesso cicaleccio che si levava dalle bocche di tutte quelle persone intorno a lei. Quel tono basso di voce che mantenevano, quasi sacrale, dava a sembrare che stessero recitando una sorta di mantra, una preghiera nei confronti di qualcuno che non avrebbe mai ascoltato.
La sala d'aspetto, inoltre, puzzava terribilmente di sudore e detersivo industriale, le mattonelle del pavimento erano sbeccate qua e là, le seggiole cigolavano fastidiose al minimo movimento. Alla ragazza parve di impazzire: non riusciva a rilassarsi, a non concentrare la mente su ognuno di questi particolari.
Voleva solo distendere i nervi per qualche secondo, ed invece non riusciva a non registrare ogni singolo avvenimento che la circondava: la tosse nervosa dell'anziano seduto accanto a lei, la signora carica di bigiotteria che si lamentava dell'attesa, il gruppo di ragazzini in divisa da calcetto che ridevano nel prendere in giro il loro amico finito lì per quella che doveva essere una storta o qualcosa del genere.
Ed Hojo?
Chissà che fine aveva fatto... Avrebbe dovuto disinteressarsene, eppure non ci riusciva.
Si trovavano in quel pasticcio per colpa sua, no? Ma poi... Di pasticcio propriamente si trattava?
Kagome non riusciva a rispondersi.
Nella sua testa migravano così tanti pensieri contrastanti che si accavallavano gli uni sugli altri. Da una parte la soddisfazione di essere riuscita a sganciarsi dal giogo della supremazia malata di suo marito, dall'altra la voglia di ritornare immediatamente a casa con lui, sana e salva... Ma sana e salva per quanto?
Taishou, il poliziotto che le era seduto accanto, si alzò senza proferire parola e sparì oltre una porta sulla destra che Kagome dapprincipio non aveva notato; tornò dopo pochi minuti con un bicchiere di carta fumante fra le mani.
Le si parò dinnanzi e le porse quel bicchiere. << Prego, signorina. >>
Con un gesto meccanico le mani della ragazza lo afferrarono e ringraziò con un cenno del capo l'agente che era tornato a sederle affianco.
Forse aveva notato il suo disappunto, il suo modo ansioso di guardare tutto e tutti: fatto fu che cercò di coinvolgerla in quello che fu un pallido tentativo di rincuorarla.
<< Ci sarà da aspettare ancora un po'. >>, le disse dunque, lo sguardo fisso su un punto davanti a sé, << I medici sono impegnati con due ragazzi coinvolti in un incidente stradale. >>
Kagome annuì appena, persa chissà dove.
Taishou la osservò mentre reggeva il bicchiere di tè davanti al volto senza sorseggiarlo nemmeno una volta.
I suoi tratti erano delicati, come quelli di una bambina, i capelli neri le ricadevano scomposti su due spalle fin troppo magre ed incorniciavano un viso grazioso ed armonioso seppur scarno e provato.
Ma i suoi occhi... quegli occhi castani gli provocarono una stilettata al cuore la prima volta che ricambiarono il suo sguardo: erano infossati e spenti, agonizzanti come quelli di una bestia smarrita in un territorio non suo.
Si chiese in quale distorta visione della realtà qualcuno trovasse lecito accanirsi su una creatura tanto delicata.
<< Io mi chiamo Inuyasha. Inuyasha Taishou. >>, le mormorò il poliziotto; il suo sguardo era fisso nel vuoto, i gomiti posati sulle ginocchia e le mani giunte a penzoloni nel vuoto, << Qual è il suo nome, signorina? >>
Kagome esitò appena. << Mi chiamo Hojo... >>
Era sulla difensiva e Taishou se ne accorse immediatamente. << No, signorina, volevo sapere il suo vero nome. Non quello da sposata. >>
<< Higurashi... Kagome Higurashi. >>
Inuyasha sobbalzò, colto nel vivo. << Come quel gioco per bambini? >>
La ragazza assentì appena mentre con una mano saggiava delicatamente la sua fluente chioma corvina nel tentativo di riorganizzare quei capelli disordinati alla meno peggio.
La vecchia, spensierata lei si sarebbe lanciata a piè pari nel racconto di qualche aneddoto spassoso della sua infanzia facendo presente al ragazzo quanto detestasse quel gioco e le derisioni ad esso annesse; la Kagome del presente, invece, si limitò a pensare con nostalgia a quelle estati giocate all'ombra del tempio, quando ancora il mondo le sembrava vasto e colorato, pronto ad accoglierla in un rassicurante abbraccio non appena avesse fatto un salto nella vita vera.
Ma tutto questo era una vita fa.
Inuyasha le sorrise. Due tenere fossette si incavarono nelle sue guance rasate di fresco e la ragazza trovò quelle labbra incurvate terribilmente rassicuranti.
Anche se per un solo istante, sentì un calore meraviglioso dirompere dal suo petto ed irradiare le sue provate membra di un tepore gentile.
Fu come l'abbraccio di una mamma affettuosa, la carezza di un amante devoto e rispettoso.
Le sue labbra tremarono appena nel tentativo di restituire la cortesia, ma fu solo un vano tentativo di sorriso: scoprì leggermente un'arcata superiore lattea e perfetta, ma gli angoli della bocca protestarono per la posizione insolita in cui stavano venendo forzati e ricaddero colpevoli al loro posto.
Mortificata, inumidì appena il labbro inferiore e spostò lo sguardo sul pavimento, il bicchiere di tè ancora saldo fra le dita lunghe ed esili.


Attese paziente due lunghissime ore e, finalmente, giunse il suo turno.
Il medico, nonostante l'ora, nonostante le occhiaie e nonostante un velo impietoso di stanchezza adombrasse il suo sguardo, fu molto gentile con lei e Kagome ne fu a dir poco sorpresa.
Si era aspettata di tutto, fuorchè comprensione.
Si era spesso immaginata derisa da occhi esterni, giudicata stupida per le sue altrettanto stupide scelte di vita degli ultimi due anni. Invece nulla di tutto ciò accadde: il dottore non le chiese nemmeno perchè non avesse denunciato i fatti al primo schiaffo ricevuto.
Quella era proprio la domanda che la ragazza temeva di più.
Perchè?
Perchè non prima? Perchè aveva sopportato anni di angherie prima di additare il colpevole?
La risposta non la conosceva nemmeno lei e si sentiva sciocca nell'ammettere quella perentoria verità a sé stessa e ad altri.
Era per questo che celava il girone infernale in cui veniva punita per colpe non commesse ogni giorno, nascondendo la verità a quelle poche persone che ancora frequentava. E, soprattutto, alla sua famiglia.


Kagome uscì dall'ospedale con un sottile plico di carta fra le mani ed un enorme vuoto dentro di sé.
Ed adesso?
Taishou la riaccompagnò alla volante dove Houshi li stava aspettando.
Il poliziottò col codino le raccontò una tiritera infinita di cosa avrebbe dovuto fare con quelle carte alla mano, dei novanta giorni di tempo che avrebbe avuto per sporgere denuncia dell'ultimo avvenimento per raccontare poi anche delle vicende pregresse, delle conseguenze che tutto questo avrebbe potuto avere su suo marito.
Il suo fare era spazientito e questo irrigidì oltremodo la ragazza che sedeva sul sedile posteriore dell'automobile senza proferire parola.
Houshi fissò dunque il collega che aveva preso posto accanto a lui. Inuyasha tamburellava le dita sul cruscotto con fare pensoso, i muscoli rigidi, il volto chiuso in un'espressione seria.
Sembrava stesse cercando delle parole sfuggite alla sua lingua chissà in quale momento.
<< Higurashi-san. >>, mormorò dunque guardandola finalmente negli occhi.
Kagome chiuse le mani sulle ginocchia, i pugni talmente stretti da sentire la pressione delle unghie sulla pelle.
Quell'appellativo, il sentirsi chiamare con il suo nome da nubile le provocò una scarica elettrica lungo la spina dorsale.
Quell'Higurashi, per Kagome, riempì completamente di un suono completamente nuovo l'intero abitacolo del mezzo, aveva lo stesso profumo selvatico di un fiore di campo sbocciato nel verde lussureggiante fra l'aspra gramigna.
Stava a tracciare una linea di confine fra una vita ed un'altra ancora.
Inuyasha si voltò completamente verso di lei e si inumidì appena le labbra sottili; i suoi occhi caldi le guardarono dentro, sotto pelle, carne ed ossa.
<< Higurashi-san, nessuno di noi due ha il potere di obbligarla a fare niente in questo momento. Se non vorrà denunciare suo marito, noi non potremo obbligarla. Se vorrà tornare a casa da lui, noi avremo il dovere di riaccompagnarla dove vuole... >>
Kagome sbattè la palpebre un paio di volte, perplessa. << Akitoki è a casa adesso? >>
I due poliziotti si scambiarono un'occhiata per un istante. Houshi fece un rapido cenno con la mano che sembrava voler intimare il collega a lasciar perdere: probabilmente le parole da lui pronunciate stavano rimbalzando a vuoto contro un muro di cemento, ma Taishou lo ignorò e continuò.
<< Sì, si trova a casa al momento. Se lei, Higurashi-san, non ci fornirà un motivo per incriminarlo, noi non avremo alcun motivo per trattenerlo. >>
Kagome assentì appena, distante da quel discorso a cui non stava fornendo risposta alcuna. Guardò fuori dal finestrino al di sotto della lunga frangia scura: i lampioni irradiavano l'ampio parcheggio di una luce fredda ed innaturale illuminandolo a giorno, costeggiando anche la strada che da lì portava al centro urbano, a casa sua.
Quale casa?
Qualcosa di caldo lambì appena la sua mano destra e fu costretta a voltarsi in direzione delle sue gambe: l'agente Taishou aveva posato una mano sulla sua e la stringeva appena, forse timoroso di farle male, forse restio a quel contatto che esulava dalla sua professione.
<< Higurashi-san, se lei fosse contenta delle cose così come sono non si sarebbe mai mostrata ai nostri occhi e non avrebbe accettato di seguirci in ospedale. Non è così? >>
Due occhi seri, traboccanti comprensione, la guardarono dritta in pieno viso.
Kagome sentì il respiro mozzarsi, gli occhi nocciola inumidirsi.
Subito dopo, però, la pace.
Sentì un peso all'altezza del petto alleggerirsi fino a scomparire, una sensazione di quiete farsi spazio fra le sue membra stanche.
Una lacrima solitaria rigò la sua guancia arrossata e cadde dopo il mento disperdendosi fra le pieghe della felpa che indossava. Altre, più spavalde, la imitarono ed inumidirono il suo viso infossato fra le spalle.
Ora che la verità era stata detta, lanciata sul tavolo come un mazzo di carte da gioco, stava a Kagome iniziare una nuova partita con la vita.
<< Taihsou-san, non mi riporti indietro... La prego... >>, sussurrò, incespicando sulle parole fra un singhiozzo e l'altro. Si puliva il volto con le maniche della felpa, come una bambina, e non guardò più nessuno negli occhi.
Inuyasha lanciò uno sguardo tronfio al collega che, per tutta risposta, fece un cenno di assenso col capo abbozzando un sorriso soddisfatto, il primo di tutta la serata.
La ragazza pianse finchè riuscì, fin quando le lacrime finirono e restarono solo i fremiti che qualche singhiozzo si trascinava ancora dietro. Infine si abbandonò sul sedile e reclinò il capo all'indietro serrando le palpebre sui suoi occhi stanchi.
<< Higurashi-san, ha un posto dove andare? >>, le chiese dunque Taishou interrompendo il silenzio.
La mora assentì appena col capo. << Al tempio... Il tempio Higurashi. La mia famiglia vive lì. >>
Houshi mise in moto il motore, inserì la prima e partì.
Kagome inspirò profondamente ed immagini vivide e colorate presero forma nella sua testa: vide sua madre sorriderle cordiale, suo fratello Sota abbracciarla teneramente, il nonno con il kimono tradizionale, Buyo che le zampettava incontro miagolando festoso...
I loro volti rassicuranti fecero compagnia alla sua mente accompagnandola verso quegli ultimi istanti di veglia; pochi minuti dopo cadde in un sonno profondo avvolta da un'atmosfera di tranquillità che non respirava da mesi.


Una volta al tempio, svegliata la madre di Kagome nel cuore della notte, i due poliziotti spiegarono brevemente la situazione.
La donna, le mani giunte al petto, confessò che nutriva dei sospetti al riguardo ma che la figlia negava ad oltranza anche la più nitida evidenza e si ritrovò a non sapere come intervenire.
Fu molto felice di riaccoglierla sotto il suo tetto e garantirle protezione.
Houshi e Taishou si congedarono non prima di ricordare a Kagome le loro raccomandazioni su cosa ora avrebbe dovuto fare.
<< Mi raccomando, Higurashi-san. >>, le disse Houshi, << Non lasci che ciò per cui ha sofferto resti impunito. >>
La ragazza, stretta fra le rassicuranti braccia di sua madre, assentì col capo. A quello che avrebbe dovuto fare da lì in poi avrebbe pensato dopo: ora era al sicuro, a casa, dove avrebbe dovuto essere.
I due poliziotti salutarono con un leggero inchino e si diressero verso la grande scalinata del tempio, ma Taishou si bloccò al primo scalino guardandosi alle spalle.
Mormorò poi qualcosa che al collega suonò come un “Arrivo subito” e ripercorse in tutta fretta la strada che portava all'abitazione della ragazza.
Madre e figlia erano ancora sulla soglia chiuse in un nostalgico abbraccio che traboccava tristezza e rimorso.
Inuyasha si dispiacque di rovinare quel momento di affetto ma, con un leggero colp di tosse, richiamò l'attenzione su di sé. Gli occhi umidi di Kagome si posarono sulla sua figura in uniforme con un'espressione stupita.
Il ragazzo trafficò dentro una tasca interna alla giacca della divisa e da lì estrasse un foglietto stropicciato.
<< Scusi l'ardire, Higurashi-san, ma prenda questo. >>, bofonchiò dunque impacciato porgendole il pezzo di carta.
Kagome lo prese e vi lesse un insieme di numeri a cui, nell'immediato, non seppe dare un senso.
<< E'... E' il numero del mio cellulare di servizio. >>, chiarì dunque il moro, << Se avesse bisogno di chiarimenti, se si dovesse trovare in una situazione scomoda al riguardo... Ecco, non esiti a chiamarmi. Sarei felice di poterle essere d'aiuto. >>
La ragazza fece passare lo sguardo dal foglio ad Inuyasha almeno una mezza dozzina di volte. Chissà quando aveva avuto l'idea di darglielo e scriverlo?
Si trovò stupita di tanta gentilezza; lei, che in tutto questo tempo aveva visto solo le sfaccettature peggiore dell'animo umano.
Riuscì a sorridere appena, questa volta, grata che quel poliziotto dall'indole gentile avesse incrociato la sua impervia strada. Si premurò di stringere quel numero lesta fra le dita timorosa del fatto che avrebbe potuto scivolare via dalla sua mano.
<< La ringrazio, Taishou-san. >>
Con un ultimo, leggero sorriso l'agente si allontanò per l'ultima volta raggiungendo ad ampie falcate il collega che stava sbrigando qualche scartoffia aspettandolo nell'auto.
<< Possiamo andare adesso? >>, gli domandò Houshi guardando distrattamente un paio di fogli che reggeva fra le mani.
Inuyasha si accomodò meglio sul sedile, assentendo con un rapido cenno del capo. << Sì. >>




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Vi ringrazio per essere arrivati sin qui!
Avevo pensato di farne una one shot, ma mi piacerebbe poterla continuare... Forse solo due o tre capitoli in più, non saprei. Ci penserò su!
Ancora grazie per averle dato una letta :)
PS: spero di non essere stata indelicata e di non aver offeso nessuno trattando certe tematiche. Se così fosse, me ne scuso!
   
 
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