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Autore: FRAMAR    20/11/2016    25 recensioni
Un ragazzo rapito, un ragazzo trovato da un uomo che si innamora di lui soprattutto perché il ragazzo non ha niente, né storia, né nome: ha perso la memoria, lui lo chiama Angelo, è felice di tenerlo con sè, nella sua casa a Napoli. Una storia dolce e tenera, nello scenario intenso di Napoli e della costa e dei paesi intorno. Una storia drammatica, perché il ragazzo non ricorda nulla e nessuno. Un romanzo vero, pieno di amore, di colore, di suspense, di dramma.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Capitolo 4


 
 
Dovetti comprare una branda e un materasso per dormire nella stanza da pranzo e lasciare così la camera da letto a Lidia e a Tonino. Lidia si alzava presto e mi portava il caffè a letto. Mi lavava e stirava le camicie, mi preparava il pranzo. Mi faceva trovare il pigiama con la giacca già sbottonata stesa sul letto e andava tutti i giorni all’ospedale. Un giorno a tavola, c’erano un mazzo di margherite bianche e un pacchetto.

“Cos’è?”, chiese.

“Auguri!”, disse Lidia e Tonino le fece eco.

“Oh”, dissi e ricordai compivo trentun anni e mi commossi. Aprii il pacchetto. “E’ il mio profumo preferito. Grazie, siete veramente gentili e affettuosi”.

Baciai Tonino e strinsi la mano a Lidia e notai che era particolarmente graziosa e le chiesi: “Hai un vestito nuovo”?”

“Ti piace? L’ha comprato al corso Umberto”, disse Tonino.

“Si”, aggiunse Lidia, abbassando gli occhi. “In città è diverso, senti il bisogno di farle certe cose”.

“Allora si deve andare in qualche posto, oggi. A passeggio, al cinema, dove voi volete”, dissi  guardando anche Tonino”.

“Io no, ho un appuntamento”.

“Allora sarà Lidia a decidere”.

“Ma io debbo andare all’ospedale”. Obiettò lei.

“Non hai detto che mamma sta molto meglio? E dunque?”.

Andammo al cinema. Nel buio le presi una mano e la sentii ruvida nel palmo e ossuta nelle nocche e ricordai l’altra mano. Per sfidare me stesso, in auto, le baciai prima una guancia e poi le sfiorai le labbra. Furono gli occhi chiusi di lei a spingermi a baciarla ancora.

A casa trovammo Tonino sprofondato in una poltrona, davanti al televisore.

“Tu sei già tornato?”, domandai.

“In verità non sono nemmeno uscito, perché c’era la partita”.

“E l’appuntamento?”.

Tonino non rispose, ed io capii che l’appuntamento era tutta invenzione.

Erano le tre di notte quando squillò il cellulare.

Mia madre morì dolcemente all’alba, mentre il cielo si schiariva e la città cominciava a vivere. Lidia fu l’unica a piangere, io rimasi inebetito e guardare quegli occhi ormai chiusi per sempre, quelle mani scure incrociate su un rosario dai grani lattiginosi e quei setosi capelli, che un spiffero d’aria, inutilmente, smuoveva sulla fronte dove erano più fini e più corti.

La seppellii al paese, in quel cimitero bianco e verde che era sulla collina e vennero tutti, a gruppi,  dalle case sul mare e dalla campagna con tanti fiori e da lassù parve una festa.

Lidia mi chiese: «Tornerai?», ma non attese la risposta e aggiunse: «Io ti aspetterò.»

La salutai fra gli altri, sentendo un po’ di affetto per tutti e desiderai di restare lì per abbandonarmi alle loro premure, ma furono loro stessi ad accompagnarmi all’auto, a spingermi al mio posto di guida e ad esortarmi:  Va, a Napoli ti distrai, e non pensare più a questa triste giornata.

Sveglia. Negozio e clienti. Cena davanti al televisore. Notte insonni a pensare: a Sandro, alla mamma, alla Lidia. Giorni sempre uguali e sofferti. Venne a trovarmi Tonino, accettai di andare a pranzo con lui e seppi che partiva per l’Inghilterra. Lo invidiai un poco, poi lo dimenticai. Lidia mi telefonò due volte e ogni volta mi chiese: Quando vieni? Mi commossi nel sentirla, ma non andai al paese. Il fioraio mi invitò a cena a casa sua e io accettai, ma una seconda volta rifiutai perché mi disturbava il vocio dei bambini e mi immalinconiva l’agitarsi premuroso della moglie.

Da un giornale seppi: Sandro Fucile è guarito. Ha festeggiato con gli amici i suoi ventidue anni in un locale sul lungomare. Due fotografie: lui che ballava guancia a guancia con un uomo: lui rideva con un bicchiere di spumante in mano.

Una sera, seduto sulla poltrona davanti al televisore, mi accorsi che stavo piangendo: Mi sentii buffo, imbecille, inutile e immaturo.
Capii che dovevo reagire se non volevo essere distrutto da quel magone che tenevo nel petto. Il giorno dopo bisognava andare al paese e sistemare le poche cose rimaste  di mia madre e parlare con Lidia. Dovevo chiederle di sposarmi. Sarebbe stato onesto. Le avrei detto tutto: di Sandro. Di pazientare con me, perché ero come uno ubriaco che non ritrova più se stesso, aspettare soltanto un altro poco di tempo e la sbornia sarebbe passata. Le avrei anche detto che io oltre a Sandro, l’unica persona a cui avevo pensato con affetto era lei. Bisognava dirgliele queste cose, perché Lidia era una donna onesta e innamorata. Napoli a Lidia piaceva, sarebbe venuta volentieri in quella casa  e io avrei sempre trovato il pranzo pronto, la biancheria pulita e avrei avuto tanti figli. Che forse non si dice, e lo ripetevo sempre quell’anima benedetta di mia madre, mogli e buoi dei paesi tuoi.

Mi alzai. Chiusi il televisore. Erano le tre. Decisi che sarei partito alle sei e verso le nove sarei stato da Lidia. Lungo la strada le avrei comprato dei fiori. O una scatola di cioccolatini. Le donne del mio paese non apprezzano il denaro speso per comprare i fiori perché loro i fiori li coltivano tra le viti e gli ulivi. Avrei comprato una scatola grossa così di cioccolatini.


 
Indossai il pigiama, caricai la sveglia, fissai la suoneria sulle sei, spensi la luce.

Bussarono alla porta.

Quel suono mi penetrò nel cervello con violenza. Mi alzai, intontito e gridai forte: chi è?, ma non avendo risposta, se non quel suono stridulo e continuo, andai a piedi scalzi e aprii.

Tanti capelli, due braccia esili ma forti nella stretta e una voce calda, allegra: «Sono io, Angelo. Chi vuoi che venga a bussare alla tua porta a quest’ora? Soltanto io. Dovevo venire, sai?», e alzò gli occhi azzurri a guardarmi. «Non ce la facevo più. L’ho detto agli altri: a mia madre, a mio padre. Alla mia vecchia zia e a lui, Vittorio. Prima era tanto, ora è niente», e con una mano mi carezzò il viso. «Quando ho ricordato tutto, ho capito che io stavo bene soltanto qui, con te e in questa casa. Se tu mi vuoi ancora, io resto», disse a appoggiò una guancia sul mio petto.

Chiusi la porta, lo sollevai tra le braccia, gli baciai piano le labbra e lo portai verso la camera da letto.

«Puniscimi , padroncino, sono stato cattivo, ti ho fatto soffrire!»

«Non posso punire chi amo, cucciolo.»
 

   
 
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