Il ritardo non è mai stata una caratteristica peculiare di Daichi.
Anzi, Daichi stesso non è mai stato in generale vezzo a contornarsi di compagnie particolarmente ritardatarie per natura, essendo sempre stata una pecca
che fin da molto giovane ha spesso associato più ad una mancanza di rispetto nei confronti del prossimo, piuttosto che ad un vero blocco degli stessi verso
orologi e sveglie di qualsiasi tipologia. Più volte hanno provato a fargli cambiare idea al riguardo, e lo stesso Koushi ha molteplici volte riso della sua
sfiducia istintiva verso quel genere di persona, non risparmiandosi battute divertite mentre occupato a passargli il mestolo e lasciargli un delicato bacio
sulla testa coperta di ciocche color nocciola. Ma neppure questi ultimi tentativi sono mai serviti a molto, ed alla fine persino il ragazzo dai capelli
chiari come la neve ha dovuto accettare di non essere riuscito a trovare giustificazioni che il maggiore riesca seriamente a vedere come tali, non davanti
a quello che lui vede davvero come un difetto insormontabile.
Daichi, invece, ha sempre preferito le persone che arrivano in orario. Non ha mai chiesto l’anticipo, c’è da dirlo, e neppure gli impegni programmati con
esagerata precedenza temporale, né ancora è mai stata persona da versare chissà quale caparra abbondante un anno prima una possibile vacanza. Si potrebbe
quindi dire più generalmente che non sia mai stato tipo da eccessi, e che la questione temporale risulti essere solo uno di tanti esempi che sarebbe
possibile fare per tenere conto di questa sua preferenza verso il "giusto compromesso", come lo chiamerebbe lui.
Non troppo tardi, non troppo presto.
Non troppo zuccherato, non troppo amaro.
Non troppo fitto, non troppo rado.
Solo, l'estrema certezza nata dalla tranquillità del giusto.
Certo, non è mai stato così duro da precludersi un rapporto nato e coltivato negli anni passati a scuola per via di quei cinque o dieci minuti di troppo in
ogni caso, anche perché se così non fosse probabilmente avrebbe già smesso di presentarsi agli incontri con Asahi – sempre, e vorrebbe sottolineare il
sempre, in anticipo di un intervallo di tempo che va dal quarto d’ora ai venti minuti abbondanti – o con Nishinoya – al contrario, perennemente in ritardo
di almeno quindici minuti pieni. Eppure, c’è da dire che neppure l'amicizia che lo lega alle persone a lui più vicine è mai bastata per farlo passare
facilmente sulle tribolazioni delle attese che talvolta alcune persone obbligano egoisticamente altre a vivere, tanto che più di una volta si è ritrovato,
sguardo severo e voce grave, a ripetere agli stessi e come un padre che stia rimbeccando il figlio per una marachella di troppo l’importanza
dell’educazione e dell’evitare che qualcuno, che con tutta probabilità ha impegnato il suo tempo preferendo un impegno all’altro per vedere qualcun altro,
viva una vita di solitudini e silenziose attese.
Il ritardo non è una caratteristica peculiare di Daichi neppure quando questo alza lo sguardo spento e stanco dalla pila di carte e documenti aziendali, le
palpebre rese pesanti dalla spossatezza e il tendine della mano destra che tira impercettibilmente l’interno del polso, litigando con il quinto dito nel
tentativo di tenerlo ancorato a quella piegatura da scrittura.
Le lancette dell’orologio a muro sembrano emulare quel suo stato di sfinimento mentale, muovendosi lentamente ed adagio su quella tavola bianca circondata
da segni romani che distinguono il susseguirsi delle ore. Daichi abbassa nuovamente lo sguardo sull’inchiostro scuro che macchia le carte ruvide che tiene
sul banco da lavoro, e nell’attesa di ricevere gli ultimi dati dal suo collega ancora probabilmente in copisteria corregge a matita qualcosa su un paio di
atti riguardanti la Relazione Annuale dell’anno appena terminato, sospirando mestamente quando la grafite della matita dell’azienda decide di opporsi
all’ulteriore fatica fisica a cui il giovane la sta obbligando ormai da ore, spezzandosi nel mezzo della tracciatura e mandando probabilmente così avanti
una sua piccola rivoluzione partita da quando il dirigente della compagnia è entrato l’ultima volta nel loro studio, mettendolo al corrente dell’incoerenza
di alcuni risultati pubblicati nella scorsa documentazione e chiedendogli di fare una rapida revisione degli stessi.
Daichi posa la matita ormai inutilizzabile a lato dei raccoglitori impilati sul confine della scrivania e abbassa le palpebre, portando il pollice e
l’indice sull’estremità interne dell’arco sopraccigliare e abbassando appena la testa verso il basso, così da posare il gomito della destra sul legno di
noce laccato di scuro. L’emicrania sviluppatasi ormai quasi un’ora prima gli appesantisce le tempie e per qualche secondo la pressione dei polpastrelli
sembra non sortire alcun effetto, la tensione sulla parte anteriore della fronte che dà al ragazzo la scomoda sensazione di avere un’asta di ferro a
premergli con forza contro la pelle calda. Resta in quella posizione per qualche istante, in silenzio e leggermente curvo su se stesso, ed è proprio in
quel primo vero istante di assoluta quiete che si rende conto di una vibrazione localizzata al lato della scrivania, parzialmente soffocata dalle pile di
fogli che sembrano nasconderne la fonte e ricordargli, al contempo, l’incredibile mole di lavoro a cui è stato soggetto fino a qualche secondo prima.
La mancina va quindi a muoversi infiacchita verso quella catasta di documenti e libri di economia, finché le dita non riescono a catturare con qualche
difficoltà il piccolo oggetto rettangolare imprigionato al di sotto, tirandolo fuori dalla cellulosa rigida che lo teneva celato e mostrandone lo schermo
giusto in tempo per vedere i due dischi verde e rosso della chiamata scomparire dalla schermata.
Non crede di sapere come sia finito il suo cellulare lì sotto sinceramente, ma nel momento esatto in cui sblocca lo schermo le iridi si colorano di una
sottile sfumatura di confusione al chiedersi istintivamente se, nel mentre lui veniva inglobato senza remore dall’enorme mole di numeri caduta dal cielo –
seppure sarebbe meglio dire dal piano di sopra, vista la presenza chiave del dirigente in questo inconveniente – , sia successo qualcosa di cui non sappia
ancora nulla.
Sullo sfondo della pagina iniziale del telefonino campeggia infatti un piccolo quadrato dagli angoli smussati, ed al suo interno non meno di due chiamate e
quattro messaggi dal medesimo destinatario fanno la loro apparizione, immobili dopo l’ultimo messaggio di chiamata ricevuta e non accettata dal ragazzo.
✉ Koushi S;
“Sono appena uscito dall’asilo, non immagineresti mai Hitomi chi ha detto che vorrebbe essere da grande, ahah! Magari ne parliamo oggi pomeriggio, buon lavoro!”
12:34 – 22/12/2016
✉ Koushi S;
“Stavo pensando di arrivare qualche minuto prima per comprare i biglietti, che ne pensi? Così magari non devi fare le corse in ufficio, visto che il tuo capo non mi sembra una persona simpatica a cui chiedere permessi. (A me li danno sempre!)”
15:03 – 22/12/2016
✉ Koushi S;
“Sto uscendo adesso, tra una decina di minuti dovrei essere al Museo. Ci vediamo lì”
16:40 – 22/12/2016
✉ Koushi S;
“Ti ho cercato alle 17:09 del 22/12. Informazione gratuita con il servizio ‘Ti ho cercato’.”
17:11 – 22/12/2016
È come se in Daichi tutto a un tratto si riaccendesse qualcosa, ed in un istante è in piedi, il cellulare in mano e gli occhi che si puntano nervosi e
presi da una frenetica sensazione di malessere. La freccia minore dell’orologio sul muro dello studio ha da poco passato le cinque, mentre la più lunga
scocca proprio in quel momento, posandosi sicura a qualche centimetro dall’altra, segnando un orario al quale il giovane uomo fatica a credere. Perché ad
un tratto è tutto molto, troppo chiaro: il cellulare lasciato sulla scrivania, in primo luogo. In un misto di preoccupazione e disagio capisce con amarezza
come le ultime ore totalmente focalizzate nel correggere quei documenti che il dirigente ha posto sotto la sua attenzione lo hanno portato a dimenticarsi
completamente dell’impegno che aveva preso con l’altro, e le sopracciglia scure e spesse si aggrottano ad espressione della sua preoccupazione mentre le
dita lunghe e ben delineate vanno a premere velocemente sullo schermo del cellulare, coprendo istantaneamente la foto del viso di Sugawara prima di alzare
il telefonino verso l’orecchio.
“… Daichi?”
Il cuore di Daichi perde un battito al sentire la voce chiaramente preoccupata ed agitata di Sugawara riempire il silenzio lasciato dalla chiamata in
uscita, e prima che possa davvero evitarlo se lo immagina lì, davanti al luogo del loro appuntamento, i biglietti piegati nella giacca chiara e lo sguardo
impensierito nel fissare i visi degli sconosciuti di passaggio sul marciapiede, nel tentativo di riconoscere il suo tra i tanti.
“Koushi? Oddio perdonami, il dirigente mi ha bloccato al lavoro e– Sei arrivato da molto? Sto scendendo, devi solo lasciami il tempo di scrivere un
biglietto al mio collega, d’accordo?”
“… Ok, ma Daichi–”
“Non riesco a capire come sia successo, davvero. Lo sai, non amo i ritardi, ma c’era questo problema in ufficio e dovevo per forza occuparmene io, almeno
per questa prima parte. Sono l’unico che fa anche contabilità e–”
“Daichi, non fa nulla–”
“Sul serio, Koushi perdonami. Dovevamo vederci alle cinque, ed invece sono ancora qui–”
“Daichi, non preoccuparti. Io oggi non ho impegni, non mi cambia nulla aspettarti un poco di più, lo sai: Finché so che arrivi, non mi muovo di qui.”
Nonostante la vergogna che in quel momento lo attanaglia Sawamura non riesce che ad abbozzare un timido accenno di sorriso alle parole del compagno, mentre
con la penna a gel trovata sulla scrivania del collega scrive velocemente l’abbozzo di una lista da seguire per terminare le pratiche degli atti di
registro già parzialmente controllate da lui stesso nelle ultime cinque ore. Si allontana proprio verso l’ingresso dell’ufficio, prendendo al volo il
cappotto posto sull’attaccapanni e arrotolandosi la calda sciarpa in morbida finitura a trama increspata attorno al collo, premendo il bottone della chiamata dell’ascensore con la mano libera dal cellulare e
cambiando poi orecchio mentre il bracco destro va ad alzarsi da piegato, permettendogli di controllare quell’orario già incredibilmente sbagliato.
“Arrivo subito, d’accordo?”
“Ti aspetto.”
“Va bene, ti amo.”
Riesce a sentire l’altro soffiare sulla cornetta una leggera risata, e le labbra si schiudono maggiormente all’idea di immaginarlo in quel momento, gli
occhi chiusi, il naso dritto ed alla francese leggermente arricciato, la mano che non tiene il cellulare chiusa a pugno a coprire il sorriso alzando la
larga sciarpa che gli ha regalato due natali fa.
“Anche io, fai presto.”
“Promesso.”
E con quello chiude la chiamata, riportando il cellulare alla tasca ed entrando velocemente nell’ascensore nel frattempo arrivato. Esce dall’edificio con
passo svelto, guardando a destra e sinistra nell’ultimo tentativo di incontrare il collega, ma alla fine rinuncia, arrivando all’incrocio ed attraversando
in direzione della fermata della metro di Jouban.
Il viaggio non è troppo lungo, ma a Daichi pare sinceramente durare un’eternità. Sono già le sei meno un quarto quando esce dalla stazione di Ueno
dopotutto, e il loro appuntamento doveva iniziare almeno quarantacinque minuti prima.
Si sistema i bottoni del doppiopetto per quella che potrebbe essere la centesima volta, e dopo aver passato la tessera annuale del trasporto si avvia
velocemente verso il semaforo, sorridendo ad una anziana signora in attesa di vedere il verde comparire e finendo per attraversare insieme a lei la strada
ad una lentezza dolorosamente necessaria, buste della spesa alla mano mentre l’ascolta parlare della sua vita e dei suoi figli ormai adulti, sorridendo
educatamente mentre questa inserisce con qualche titubanza il braccio sotto quello del più giovane aiutandosi nel cammino e dichiarando nel frattempo con
voce dolce e tremolante quanto sia stata fortunata ad aver incontrato un giovanotto così tutto a modo e così educato.
Daichi l’accompagna ancora un po’ più avanti, scuotendo la testa quando la donna pone la mano ossuta sul borsellino chiedendogli se debba qualcosa al suo
cavaliere portaborse, ed anzi all’inaspettato appellativo la destra del ragazzo va a massaggiare con una punta di soggezione la base del collo, sorridendo
timidamente mentre rifiuta i soldi ancora un’ultima volta augurandole una buona giornata.
Lo sguardo cade nuovamente sull’orologio che porta al polso, ed a vedere che mancano appena dieci minuti alle sei prende nuovamente il cellulare, aprendolo
e mandando un messaggio al compagno per avvertirlo di essere vicino al Museo di Arte Occidentale.
Tiene il cellulare in mano per un altro paio di minuti, controllandolo di tanto in tanto mentre percorre a larghe falcate le strade principali di Uenokoen,
superando semafori e incroci, parcheggi e piccoli supermercati, fino a vedere in lontananza il grande edificio dalla caratteristica struttura a spirale,
sviluppata attraverso moduli cubici che Daichi ha più volte visti aumentare di numero dipendentemente dalle opere d’arte esposte durante le stagioni.
Ancora ricorda quando studiò per la prima volta la costruzione del fabbricato al liceo, e soprattutto ricorda le ricerche fatte con Sugawara riguardo Le
Corbusier e la sua perenne rincorsa dell’innovazione e dell’originalità, pensando a quanto sia a suo modo– strano, tornare in quel luogo dove tutto è
iniziato, a partire quella ricerca sulla quale lui ed il più giovane hanno speso tanto tempo ed energie e che li ha portati, ormai quasi tredici anni
prima, ad avvicinarsi quei pochi centimetri in più del solito che sono bastati per far sì che il soffio vitale di uno entrasse per sempre nella vita
dell’altro.
Per Sawamura tutto era iniziato lì dentro, davanti ad un quadro di Girasoli di Van Gogh, durante una gita che Sugawara aveva tanto chiesto di fare
approfittando di una ricerca che entrambi dovevano fare per educazione tecnica al liceo e trasportato da un entusiasmo al quale Daichi non era davvero
stato capace di dire di no, non dopo essere venuto a sapere dal compagno di quella sua passione assoluta per quell’artista e per quella corrente in
generale.
Sawamura, a dirla sinceramente, non era mai stato un grande adulatore del post-impressionismo; lui preferiva il classicismo, l’arte greca, la concezione
imitatoria ed immutevole della bellezza ideale espressa tramite l'ordine, l'armonia e l'equilibrio della trasposizione di ciò che è vero agli occhi. Ma
quando aveva visto il viso dell’altro e la speranza accendere i suoi grandi occhi castani non era veramente riuscito a dire di no, e così si era ritrovato
ad andare a quella mostra guidato più dall’affetto – che ai tempi stava imparando a riconoscere come scisso da quello provato per gli altri suoi amici –
che da un vero interesse verso quell’arte, guardando con la coda dell’occhio mentre il ragazzo dai capelli candidi si avvicinava ad una prima, seconda,
terza opera, l’espressione estasiata e le labbra socchiuse per la sorpresa davanti quelle onde di colori, densità, spirali e tratteggi.
Daichi aveva ascoltato pazientemente il compagno allora adolescente spiegare, mostrare, descrivere quelle reazioni che Van Gogh aveva suscitato in lui ed
in se stesso mediante quel lavoro di colori, di gialli e di blu, di arancioni e di verdi, colori che diventavano la lingua della sua esperienza e
l'adesione agli stimoli fisici del suo ambiente, riflessione dei propri sentimenti interiori e scala di emozioni ben delineate.
Il giallo, ad esempio, aveva scoperto essere espressione assoluta della passione: Vibrante, libero, intenso nella sua tonalità e pericolosamente
totalitario, pronto ad inghiottire tutti i colori della realtà fino a quando non fosse possibile vedere la stessa solo filtrata attraverso la sua lente.
Una tinta assuefacente, proprio come l’assenzio diluito che il fragile e progressista artista era solito ingerire durante la sua fase di estraniamento
dalla realtà. Una tinta che, per molti versi, aveva ricordato a Daichi lo stesso Koushi, quella lente incredibilmente umana attraverso la quale il mondo
sembrava diverso, così mosso e così vivo, talmente brillante da consumare persino la notte e, successivamente che il loro rapporto si era evoluto, talmente
luminoso da rendere lo stesso buio incapace di scendere a portare il suo blu ed il suo viola su quel letto, ove il giovane ed amatoriale artista che era
Daichi amava ogni sera quell’amato tripudio di giallo capace di dominare le sue tele notturne.
Il trentenne si guarda attorno, facendosi da parte per non bloccare la fiumana di gente che si sta muovendo verso l’entrata dell’edificio o allontanandosi
dallo stesso per andare a prendere la metro, e le palpebre si assottigliano appena nel tentativo di mettere a fuoco quanti più visi possibili e cercarne
uno in particolare, piccolo, la mascella stretta, i capelli bianchi come il latte, gli occhi di un ligneo ciliegio chiaro e un piccolo neo al lato del
destro.
Lo intuisce, più che vederlo veramente, solo dopo qualche minuto e qualche sguardo di troppo al cellulare, rimasto innaturalmente silenzioso da quando è
salito sulla metro ormai quasi venti minuti prima, e si scusa con un paio di passanti nel mentre finisce involontariamente con lo scontrarsi con alcuni di
loro, reso ubriaco dalla fretta salita tutta insieme di arrivare al compagno, di vederlo, di sentirlo accanto a lui ora che lo sa così vicino ed ancora
così incomprensibilmente lontano.
Una, due, tre file di persone; una famiglia, un gruppo di adolescenti, una gita di anziani provenienti da qualche paese fuori da Tokyo; Daichi li sorpassa
tutti, e quando ormai mancano pochi metri può finalmente vedere un po’ di più di quella piccola chioma dai riflessi argentati che, man mano che si
avvicina, non riesce ad evitare di notare essere un po’ più bassa del solito, la piega che il cappotto segue sulla schiena che si fa appena più arcuata
verso il basso, le gambe leggermente piegate, e qualcosa, o qualcuno, o ancora meglio più di uno di quei piccoli qualcuno con le loro braccine
tutte tese a tenere il tessuto della giacca stretto tra pugnetti stretti e fasciati dai più vari guantini di pile, così da avere Sugawara il più vicino
possibile.
«Koushi…?»
Vorrebbe sembrare più convinto mentre pronuncia il nome del suo compagno, ma sinceramente – e per quanto si sforzi – non riesce ad evitare ai suoi caldi
occhi nocciola di scivolare con qualche traccia di onesta confusione verso quei bimbi dai quattro ai sette anni di età, non sapendo esattamente come
catalogare quella situazione nella quale quella mattina, preso da mille e più pensieri riguardo quella giornata programmata da così tanto tempo – e prima
di finire in quel vortice di dati e di quote annuali che spera sinceramente di non vedere più per i dieci mesi successivi – non avrebbe mai pensato sarebbe
incappato, parlandone a cuore aperto.
Il maggiore attende mentre gli occhi mielati di Sugawara si vanno ad alzare da quei piccoli chiacchieroni, le orecchie coperte da quei fili di zucchero e
richiamate da quella voce dalla tonalità appena incerta ma dal timbro caldo, e la schiena si raddrizza appena, il sufficiente per permettergli di guardare
il compagno senza bisogno di stressare eccessivamente il collo né di costringere nessuna di quelle tre piccole figure ad allentare la presa sulla sua
giacca lunga fino a sotto il bacino e di un color crema.
«Ah, Daichi! Sei arrivato prima di quanto pensassi!»
Il tempo di riconoscerlo e due piccole fossette pizzicano involontariamente le guance di Sugawara mentre le labbra si schiudono in un sorriso caldo e
familiare, ed a vederlo anche Daichi non riesce ad evitare di sorridere istintivamente di rimando, guidato da un affetto che profuma di casa e di
sicurezza, di lenzuola e di silenzi.
«Non credo, ti avevo detto sarei arrivato subito, ricordi?»
Sugawara si lascia andare ad una leggera risata, e Daichi scuote leggermente la testa, il sorriso ancora aperto a tagliare parzialmente quelle guance
dall’incarnato olivastro.
«Non volevo fare così tardi, mi spiace. Ho anche provato a scriverti, ma credo tu non abbia visto il messaggio.»
«Davvero, mi avevi scritto?! Forse non mi è arrivato?»
Il ragazzo porta una mano nella tasca del giaccone, e non senza qualche difficoltà dovuta alla posizione piuttosto scomoda che continua testardamente a
tenere ne tira infine fuori un piccolo cellulare celeste, premendo un tasto per illuminarne lo schermo.
«Ah–»
A questo punto, è abbastanza probabile sia arrivato.
«Mi spiace Daichi, non lo avevo proprio sentito– E voi bambini, lo avete sentito?»
E nel fare la domanda lo sguardo torna a posarsi sui piccoli bambini che ha davanti, riservando a ciascuno di loro il suo sorriso. La bimba più grande dei
tre sorride tutta contenta scuotendo il piccolo viso ovale, mostrando un bellissimo balconcino al posto dei dentini da latte mentre con la mano va ad
allentare la presa da uno degli alamari del giaccone di Sugawara, portando le braccine piegate ai lati del busto e alzando le spalle in senso di negazione.
Daichi vede nel frattempo la seconda bimba, più piccina della prima, gonfiare appena le guance morbide e accigliarsi come un piccolo pentolino borbottante,
probabilmente incredibilmente in disaccordo con l’idea del cellulare che squilla in generale.
L’ultimo bambino, invece, sembra lo stia semplicemente guardando. Nascosto dietro alla gamba di Sugawara, le manine piccolissime a stringere debolmente la
stoffa dei pantaloni e le spalle esili ad offrire riparo a quella testina tonda e a quelle guanciotte rosate, sembra quasi lo stia studiando, decidendo in
quell’istante se fidarsi o meno di lui, se dirgli chissà quale segreto importantissimo o tenerselo per sé. Persino Sugawara se ne accorge, e dopo aver
abbassato appena il mento per guardarlo e seguire i suoi occhi fino a tornare a Daichi stesso, commenta semplicemente:
«… E tu, Neji? Vuoi dire qualcosa al signor Sawamura?»
La testolina, a quelle parole, sembra ritrarsi ancora di più oltre le rassicuranti pieghe del giacchetto di Koushi, e le sopracciglia fini si aggrottano
maggiormente, il labbruccio inferiore che conquista un pochino lo spazio del superiore, ponendosi in avanti e donando alla forma di quel visino tondo
un’espressione di pura infantile indecisione.
«…»
Daichi prova a sorridere appena, gli occhi caldi che tentano di infondere un po’ di fiducia in quel piccolo bambino tutto racchiuso dietro le snelle gambe
del compagno, e tenta di non abbassarsi per non mettere troppa paura al più piccolo, seppure nella sua mente continui a vorticare pigramente l’idea che
forse qualcosa gli stia sfuggendo e che non dovrebbe proprio abituarsi così velocemente all’idea di vedere da un giorno all’altro Koushi con tre bambini a
seguito.
«… Daichi– »
Il bambino pronuncia quel nome quasi con un certo timore, la vocina vibrante ed insicura e la testolina che si inabissa maggiormente tra le spalle smilze,
andandosi ad infossare tra le pieghe del giacchettino con le astronavi e le stelle dipinte sul tessuto impermeabile.
«Sì?»
Lo sprona a continuare, abbassandosi appena con le gambe per poter dare al bimbo la possibilità di farsi sentire senza dover alzare troppo la voce.
«… Sei il mio papà?»
… Ecco. Per quanto Daichi non avesse esattamente un’idea chiara di cosa aspettarsi da quel piccolo essere umano, c’è da dire che quella domanda non sia
esattamente una di quelle che si sarebbe aspettato di ricevere. Il sorriso rimane fisso sul volto, gelato sulle labbra scure e tese, e le palpebre vanno a
chiudersi e riaprirsi velocemente un paio di volte, cercando di inumidire quelle iridi ancora fisse sul piccino.
«… Il tuo–?»
Sente qualcuno schiarirsi la voce e tossire nervosamente un piccolo soffio di fiato, e lo sguardo scivola appena più in alto, verso Sugawara, guardandolo
irrigidirsi per qualche istante prima di iniziare con brevi movimenti irrequieti a toccarsi la sciarpa. Sorride nervosamente, mentre la mancina va a
posarsi in un tentativo di rassicurazione sulla piccola testa del bimbo, scompigliandogli appena quelle ciocche scure e mosse ed abbassandosi un po’ di più
ad avvicinare il viso a quello del minore.
«Neji, perché tu– Cioè, Daichi– Il signor Sawamura ti ricorda il tuo papà?»
Prova ad articolare, la voce di una tonalità appena più acuta del solito e leggermente esitante. Il più piccolo scuote la testolina, stringendo
maggiormente in quei minuscoli pugnetti la stoffa del vestiario di Koushi, avvicinandosi ancora di più a lui ed arrivando quasi ad abbracciare la gamba
coperta dal morbido pantalone scuro di cotone.
«… Daichi è il mio papà. »
«… Nel senso che ne sei sicuro? »
« Sì, lo dice sempre mamma. »
Il bambino annuisce timidamente, ed in un istante un silenzio gelido scende su entrambi gli adulti. Il maggiore può vedere il viso dell’altro posarsi su di
lui, distogliendo lo sguardo dal minore e fissando le iridi castane sul maggiore, e gli occhi di Daichi si spostano verso l’alto per incontrare quelli del
compagno, in tutta sincerità più sospinti da una costrizione istintiva che da una scelta consapevole. Basta un primo sguardo, ed il maggiore sente il
sangue gelarsi dentro le arterie, l’espressione ancora sorpresa e leggermente confusa che ha riservato al bambino che trova in quella dell’altro un tuffo
indelicato verso il panico puro.
«… Ah, sì? »
Il sorriso che Sugawara regala a Sawamura non è freddo, ma questo perché Daichi è abbastanza sicuro che la temperatura artica necessaria a definire freddo qualcosa sia troppo alta rispetto a quella sentita in quel momento. No, lo zero assoluto che raggiunge lo sguardo di Koushi è semplicemente
indefinibile, ed è reso forse più allarmante proprio da quella traccia di assoluta distensione di qualsiasi ruga espressiva, da quell’incredibile mancanza
di spontaneità e dalla predominante presenza di una intimidazione che più di una volta ha visto nello sguardo del compagno, per quanto ogni volta speri sia
l’ultima.
Lo sorprende sempre come la sua metà riesca ad essere la persona più dolce ed al contempo più inquietante che abbia mai incontrato nella sua vita.
«Ahah, dai, non guardarmi così. Ti giuro che non so di cosa– »
« Parla del fatto che tu sia il suo papà, Daichi. Devo farti gli auguri in ritardo? »
«… Koushi, davvero. Non so davvero di cosa stia parlando, non– »
« Oddio, finalmente! Mi scusi per il ritardo, c’era più fila del previsto alla biglietteria! »
Quando la voce di una donna entra nel campo acustico di Daichi il ragazzo quasi non vi fa caso, preso com’è dal momento di assoluto panico che sta vivendo
nei confronti di tutta quell’assurda situazione. Il vedere dei bambini materializzarsi accanto a Koushi è stato già qualcosa che non si sarebbe mai
aspettato di vedere in quella giornata, e già questo sarebbe stato sufficiente per dare alla stessa un risvolto inaspettato. Ma adesso uno di questi bimbi
afferma di essere sangue del suo sangue, e rispetto a questo persino il fatto che Koushi sia diventato inspiegabilmente tutore di tre bambini perde un po’
di consistenza nella sua piramide di cose inaspettate della giornata.
«… Mamma! »
Dice la più grande dei tre bambini, e nel mentre pronuncia quella parola tutti i piccoli si girano verso la sua destra, ad un tratto incredibilmente
disinteressati alla figura del ragazzo dai capelli nocciola ancora piegato verso di loro. Dopo un secondo di esitazione persino Daichi lo fa, forse per
scappare dallo sguardo di Sugawara, forse per vedere la possibile madre dei suoi figli o forse semplicemente per cercare di capire se sia possibile che
soffra di qualche tipo di disturbo di identità e sia all’oscuro di una parte della sua vita, relazione con una donna sposata compresa.
La persona che gli si para davanti è una donna sui trentacinque anni, alta, di corporatura normale, i capelli lunghi e neri e gli occhi di un caldo castano
scuro. Riconosce nei suoi tratti quelli della bambina più grande, negli occhi gli stessi di quello più piccolo, ed ad un certo punto diventa piuttosto
chiaro che tutti e tre i piccoli minorenni siano imparentati fra loro e con lei, sicuramente più di quanto non lo siano con lui stesso.
Cosa che in ogni caso è piuttosto improbabile che siano, ha bisogno di ricordarsi.
« Avete fatto i bravi, bimbi? La ringrazio ancora per l’aiuto signore, non– »
« Mamma, mamma! »
« Non ora amore, la mamma deve dire una cosa importante. Dicevo, non avrei mai saputo come fare la fila con loro se non vi foste offerti di tenermeli, mi
permetta di– »
« Ma mamma, c’è papà! »
Daichi si rende conto che, in tutta quella situazione, si debba dire quasi rassicurato dal fatto che ora siano tre gli adulti in silenzio, piuttosto che
solo lui e Koushi. Insomma, una cosa è se quelli a rimanere senza sapere cosa dire siano lui e Sugawara, una cosa è se lo sia la madre di uno dei bambini
che afferma di essere suo figlio.
« … Tesoro, lo sai. Papà non c’è più, non può essere qui– »
La sente rispondergli con dolcezza dopo qualche secondo, sorridendo teneramente al figlio ed accovacciandosi accanto a lui a carezzargli delicatamente la
chiometta scura, guardando il bambino scuotere la testa e staccarsi da Koushi per indicarlo con convinzione.
« No! È papà, lo ha detto il signore! Vero, vero che lo hai detto, signore? »
E Daichi la vede, la difficoltà di Koushi mentre questo si abbassa insieme alla madre del bambino, completamente diverso rispetto ad un paio di minuti
prima mentre gli sorride anche lui, prendendo una manina tra le sue, le dita affusolate e chiare come la luna che scivolano a prendere quella piccola e
morbida del bambino dagli occhi ancora puntati verso il ragazzo dai capelli argentati.
« Neji, è perché si chiama Daichi? Il tuo papà si chiamava Daichi? »
La madre alza lo sguardo verso Sugawara e poi verso di lui, e Daichi può vedere chiaramente nello sguardo della donna la muta e composta sorpresa sia nel
comprendere il motivo di questo attimo di confusione, sia nel venire a sapere che quel giovane uomo, di almeno cinque anni più giovane di lei e
probabilmente così diverso dal marito scomparso, porti lo stesso nome del suo amato.
Il bambino annuisce, facendosi impercettibilmente più vicino alla mamma ma continuando a guardare Koushi, il visino un po’ imbronciato e sulla difensiva, e
Koushi sorride appena, piegando appena la testa di lato e lasciando che le ciocche chiare della sua frangia scivolino da parte, mostrando il neo accanto
all’occhio celatosi involontariamente di seguito ad una precedente folata di vento.
« Ma Neji– Daichi non è il tuo papà. Sono sicuro che il tuo papà era speciale per te e le tue sorelle. Era speciale per la tua mamma, anche– Questo Daichi,
invece– »
E alza lo sguardo, sorridendogli quando lo vede tra le bambine, le mani posate sulle loro piccole spalle per tenerle protette dalla folla nel mentre gli
altri due adulti sono accovacciati ai lati il bimbo più piccino.
« Lui è speciale per me. È il mio, di Daichi. »
…
… Daichi lo sa: il loro rapporto è sempre stato così.
Non ci sono mai state grandi parole, non dichiarazioni importanti, né scene da chissà quale lungometraggio vecchia scuola che alcuni, molti forse,
vorrebbero vivere in prima persona nella loro vita. La loro è stata una relazione che si è evoluta col tempo, in maniera costante, sospinta da una
quotidianità e da un affetto che non ha mai avuto picchi, ma solo leggere curve in costante salita, una morbida certezza che li ha portati a condividere un
futuro che non sapevano di avere.
Daichi lo sa, e non cambierebbe nulla di tutto ciò.
Non una virgola, non un appuntamento. Non cambierebbe il momento in cui si è accorto di essere innamorato di Koushi, il momento in cui la sua mano si è
scoperta timorosa e speranzosa di sfiorare quella del compagno, la prima volta che le sue braccia grandi sono andate ad abbracciarlo con quella
consapevolezza di volerlo accanto per sempre, mentre l’altro giovane e fresco come la primavera dopo l’inverno alzava leggermente il viso schiudendo le
labbra rosate in un sorriso, piegando un braccio per andargli a sfiorare la guancia calda per l’emozione con il polpastrello morbido e delicato.
Non cambierebbe la prima volta che gli ha detto cosa provava per lui, di ritorno dalla palestra, il sole rosso come le foglie di autunno e il cielo viola
come l’uva settembrina, lo sguardo spaesato di Koushi, e poi le palpebre che si allargavano, l’emozione, la speranza, la risposta emozionata.
Non cambierebbe il loro primo bacio, non cambierebbe i primi tentativi, gli imbarazzi, le cose lasciate a metà. Non cambierebbe le loro prime ricerche su
internet, le risate, la complicità, la prima visita in farmacia in orario di chiusura per prendere quelle cose che avevano letto servissero ma che non
avevano avuto il coraggio di chiedere ad una farmacista, aspettando invece chiudesse la struttura per prenderle alla macchinetta lì fuori, sguardo basso,
gli spicci nelle tasche e le banconote tra le mani tremanti.
Non cambierebbe gli istanti, i momenti di felicità, quelli di tristezza. Non cambierebbe nulla, non le serate passate a sorridersi, non quelle passate a
piangere. Non cambierebbe l’istante in cui gli ha chiesto di perdonare, di dimenticare, di andare avanti insieme.
Non cambierebbe nulla perché questo vorrebbe dire cambiare, in qualche modo, anche Koushi.
E se c’è una cosa che Daichi sa è che non cambierebbe mai è Koushi, per nulla al mondo.
Sugawara sorride, e Sawamura sa che Koushi ha visto nei suoi occhi tutto ciò, tutte queste frasi e quelle certezze che si condensano in uno sguardo che lo
stesso Koushi non teme di regalare all’altro, un respiro di amore e di coinvolgimento che Daichi respira da anni e del quale non si stanca mai.
Il più giovane rimane a fissarlo per un’altra manciata di istanti, prima di abbassare lo sguardo e posarlo nuovamente sul piccolo bimbo ancora lì, insicuro
e un po’ confuso.
« Lo capisci? Il tuo papà ti guarda da su invece, ed è solo tuo. »
Il piccolo sembra pensarci su, poi annuisce debolmente, allungano le braccine corte verso il collo della madre ed infossando la testolina nel caldo angolo
tra questo e la spalla della donna. La vede sorridere, mentre tira in braccio il piccolo bimbo e si alza in piedi, ringraziando Sugawara e Sawamura per la
pazienza e facendo un segno alle bambine ancora accanto al maggiore, mimando un leggero inchino verso entrambi e chiedendo ai bambini di salutare
prima di voltarsi verso l’ingresso della mostra.
Daichi rimane a guardarli allontanarsi, e per un momento la figura della madre con quei bambini gli ricorda la sua, di madre, quando ancora era piccolo e
la accompagnava al supermercato con i fratelli minori per aiutarla con le buste della spesa. Una donna forte, indipendente, lontana dal marito spesso fuori
per affari, incredibilmente attenta ed innamorata tanto della sua famiglia quanto del suo lavoro.
Ma non fa in tempo a chiudersi in quel ricordo che sente i passi leggeri di Koushi assecondare il suo movimento, e passa poco prima che senta la manica
destra del giubotto che indossa l’altro graffiare delicatamente la manica mancina del suo, il respiro che scivola in direzione della famiglia appena
lasciata.
« … Un papà, mhm? »
E Daichi non può fare a meno di sorridere, abbassando le palpebre e sbuffando all’interno della calda sciarpa in tessuto grezzo.
« Sono troppo giovane per queste cose, non trovi? »
« Lo avresti potuto dire qualche anno fa, forse. »
E una risata stavolta non riesce proprio ad evitarla, Daichi, sia perché in effetti conoscendo Koushi non avrebbe mai potuto immaginare risposta diversa,
sia perché si rende conto ancora una volta di come quell’umorismo a tratti pungente sia in fin dei conti un’altra delle cose che ama di lui.
« Ahia, ahia, questa fa male. Stai forse dicendo che sono troppo vecchio, Koushi? »
« Daichi, ti direi di non fare domande di cui tu non voglia davvero la risposta– »
E nel mentre lo ascolta parlare sente le snelle dita del compagno insinuarsi delicatamente fra le sue, attirando la sua attenzione quel tanto che basta
affinché le iridi del maggiore si spostino infine in direzione del minore che trova già in attesa, quei laghi di cacao che sono i suoi occhi già puntati su
di lui, in attesa di venire colti dalle scure biglie oculari nocciola dell’altro.
« Ma stai da anni con una persona con i capelli grigi quindi insomma, chi sono io per giudicare? »
E a questa Daichi davvero non può non scuotere placidamente la testa, divertito e incredibilmente, totalmente sereno, come solo con Koushi riesce ad
essere. Approfitta di quel momento per mettersi di fianco, e la mano libera va ad alzarsi a sfiorare con dolcezza la guancia del ragazzo, inclinando la
testa in avanti e posando infine la fronte su quella del minore, muovendosi appena il necessario per solleticare con la punta del naso quella del compagno.
« Grazie per avermi aspettato, Koushi. »
« Persino un’eternità di attesa non mi sarebbe di peso se significasse aspettarti, Daichi. »
E Daichi non risponde, ma solo perché l’altro già lo sa, e perché le loro labbra ormai sono troppo vicine, e perché qualsiasi frase diventa superflua
davanti a quel loro sfiorarsi delicato.
Ma in fondo lo sanno, lo sanno entrambi:
Lo sanno entrambi che baratterebbe tutta l’eternità dell’universo per un istante di tenerezza e di dolcezza di un loro bacio.
“Ciò che differenzia da prima che s'innamorasse una persona
innamorata
non differisce da ciò che distingue una
lampada
spenta da quando invece è accesa: prima esisteva solo un'ottima
lampada, ma ora in più diffonde la luce – e svolge così la sua vera
funzione.
”
– Vincent Van Gogh ;
––––––––––––––––––––
NdA
. Io non credo di sapere scrivere DaiSuga.
Non è il tipo di coppia su cui sono solita scrivere in generale, e loro mi paiono decisamente troppo carini e troppo– così incredibilmente maturi nel loro
rapporto per saperli descrivere al meglio senza temere costantemente di finire OOC. Avevo però promesso ad una bellissima persona di scriverne una, ed
all’inizio non doveva essere nemmeno questa (…), quindi eccomi qui.
Spero tantissimo di non essere finita troppo in là o troppo in qua, sarebbero super mega iper graditi dei commenti per avere un feedback su questa storia
perché ho molte insicurezza a riguardo, quindi insomma– se vi va, lasciate qualcosa! Credo di aver detto tutto, e spero di non avermi annoiato durante la
lettura. Lo so, è un po’ lunghina.
… Ma io ci ho provato a farla più corta. Lo giuro.