Film > I ragazzi del Reich
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Autore: Pachiderma Anarchico    20/11/2016    1 recensioni
Potevano anche essere gli uomini che avrebbero dominato il mondo e forgiato catene in grado di soggiogare le nuvole, ma ci sono cose che il fisico umano non può sopportare.
Essere imbavagliati dal ghiaccio era una di queste.
---
"E' questo che sei, Friedrich?" Gli occhi di Albrecht si erano lievemente spalancati, le mani gli tremarono, ma poteva davvero fargli paura chi aveva pianto sul suo petto, scosso dalla stessa diffidente claustrofobia di essere macchie bianche su un lenzuolo nero? No. Non poteva.
"Il loro tedesco?"
---
Parole fantasma, inconsistenti come nebbia.
E come nebbia s'insinuarono in Friedrich, riempiendogli il naso dell'odore pungente del dubbio.
Parole così labili e piccole e sbiadite che Albrecht avrebbe potuto venir fucilato soltanto per averle pensate. Perché uccidere per delle parole fantasma?
Perché il Terzo Reich temeva tanto le parole degli spettri?
Genere: Drammatico, Romantico, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Aquile e Colombe
II
 
 

 
 
Allestain, Polonia Meridionale, 8 Novembre 1942
 
“Lascia perdere le gambe, la testa! La testa!”
“La testa… come ti senti oggi? Fa male?”
“Trattieni il respiro! Scarica.. scarica nelle braccia”
“La sensibilità al braccio? E’ migliorata parecchio.”
“Non ruotare i polsi! Atterralo! Colpiscilo dove l’hai già colpito!”
“Se tiro dei colpi qui’”
“Tirali lì! Sul petto! Non smontare la guardia, la sua, la sua!”
“Albrecht.”
“Grandioso Friedrich!”
“Mi devi guardare una persona.”
“Certo Berta, dimmi pure.”
“Senti che pioggia maledetta, non ci posso credere che a Novembre ancora piova così tanto. Che il cielo tenti di affogarci? Maledetta…”
“Berta, la persona.”
“Sì, oh sì Tornava, eccome se tornava. Quello fa il diavolo a quattro, era ‘perpetuo’ che si rompesse qualcosa. La fronte, dicevo io, ma è stato più fortunato.
Mariah non startene lì impalata e chiudi la porta. Misericordia ladra dico io.”
Berta era la responsabile dell’infermeria dell’Accademia, nonché radio sempre accesa degli infortunati; i poveri disgraziati erano costretti dalle loro condizioni a sentirla canticchiare tutto il giorno fra un lettino e un altro, se andava bene; altrimenti iniziava una sorta di cronaca di guerra nella quale presagiva vivi e orti, esiti e vittorie e non ci azzeccava neanche per sbaglio.
Quel mezzogiorno uggioso era particolarmente allegra poi: l’infermeria era un andirvieni continuo di pugili ammaccati e caviglie rotte. Aveva servito per due anni in un ospedale militare nei pressi di Munich, la Berta, ed anche lì era sempre più felice quando l’ospedale bazzicava di moribondi.
A sentir lei in questo modo si rendeva utile alla nazione. Poco male se quegli stessi moribondi facevano parte della stessa nazione a cui lei voleva essere utile.
In ogni caso nessuno mai, a memoria d’uomo, aveva mai contrariato la Berta, se non qualche gerarca di rango davvero elevato, e ciò non soltanto perché aveva la stazza di un rinoceronte e l’indole infuocata della donna di mezza età navigata e ruvida, ma anche perché fra le sue manone passavano gli aghi con cui punzecchiava i pazienti, ed essi non avevano alcuna intenzione di avere a che fare con una Berta arrabbiata che reggeva degli aghi.
Fatto sta che teneva Albrecht da tre settimane, quando gli si era presentato con una collana di lividi violacei ancora non del tutto svaniti al collo e un polso slogato che rispondeva dolorosamente ai comandi.
“Cosa è stato?” aveva domandato.
“Una lotta corpo a corpo.”
“Una zuffa?”
“Una lotta.”
“Per me tutte le lotte che non ti uccidono sono zuffe. Male qui?”
“Sì.”
“E qui?”
“Sì.”
“Bene.”
“Bene”
“Vuol dire che non sei morto.”
Tabbi, quel giorno, era passato di lì per far medicare Kurtish e il suo polpaccio malridotto e Albrecht stava quasi per socchiudere gli occhi e rilassarsi dopo le ‘lievi’ manovre di Berta sul suo polso quando… “SAUKERL! Non vomitare sui pazienti!” che -per chi non fosse addetto ai lavori- significa “maiale” o, nel linguaggio di Berta, “lurido porco.”
Un Tabbi stropicciato come una calza scucita e i peli ritti sugli avambracci stava effettivamente per rimettere sulla testa del povero Kurtish e della sua gamba rossa.
“Ha già perso troppo sangue, subito da me dovevate portarlo.”
“Ma avevano degli insorti polacchi alle calcagna!”
“Maledetti polacchi. E maledetto pure tu se ti esce un filo di succo gastrico da quella bocca.”
Berta si agitò come un tornado quando ha intenzione di spazzare via tutto e tutti.
“Le garze. Dove sono le garze? Quella saumensh di Mariah le avrà ancora nel ripostiglio sotto ai cetrioli? Mariah!”
Nel frattempo di tutto quell’urlare Albrecht si era alzato e, con il polso ancora utile, strappò una striscia di lenzuolo.
“Tabbi, la gamba.”
“Come?”
“Tienimi la gamba.”
Tabbi non era riuscito subito ad afferrare le parole del moro, ma quando con quel pezzo di stoffa premette direttamente sul buco nella carne di Kurtish, pensò di svenire.
“Cosa… cosa fai? Così non.. entrerà di più il proiettile…?”
“Non deve perdere altro sangue.”
“Ma…”
Kurtish mugolò qualcosa e spinse la nuca contro il cuscino quando Albrecht premette di più, proprio al centro di quel foro scarlatto.
“Se devi vomitare fallo di lato Tabbi, volti la testa e rimetti anche l’anima, ma per ora mi tieni questa gamba.”
Tabbi era pervaso dal ‘rigor mortis’ sin dentro le ossa, eppure non se lo fece ripetere una terza volta.
Un po’ boccheggiante e un po’ disgustato s’imbratto inevitabilmente di sangue.
“No Al… non ce la faccio… che schifo… quello è un tendine? No no…”
“Aborto di un Saukerl! Che combini!?”
Una delle possenti manate di Berta l’aveva spinto via, srotolando un rotolo di garze sul petto ansante di Kurtish che aveva momentaneamente adibito a comodino.
“E tu?”
Albrecht si era aspettato una sfuriata anche per lui, ma Berta gli rivolse un sorriso storto e gli chiese invece “Chi ti ha insegnato così? Ah non importa non importa, tu mi servi cubetto di pan di zenzero.”
E Albrecht dall’otto di Ottobre restava in infermeria anche molte ore al giorno, fino al tramonto, perché “il Fhürer è il Fhürer ma Berta è Berta”, o almeno così andava declamando chi era passato sotto si suoi ferri.
Quel mezzogiorno dunque, la pioggia era una fitta rete da pesca che incastrava la terra, una spessa coltre grigiastra che scendeva giù con rintocchi di madreperla.
Berta detestava la pioggia, credeva che qualche essere divino ce l’avesse direttamente con lei.
“Sarà un inverno come non si è mai visto questo.”
“Albrecht imbevve del cotone con del disinfettante e accennò una smorfia ironica. “Si dice così di ogni inverno.
“Ti dico che questo sarà diverso La vedi questa pioggia? E’ scura, tetra. E’ impastata di fuliggine. Oh ma che cosa vuole saperne un cosino come te? Quante piogge hai visto in vita tua? Io ne ho viste tante e credimi, nessuna è mai stata fuliggine.”
Berta ordinò qualcosa ad un’infermiera e quest’ultima corse fuori, sotto le fredde secchiate d’acqua, senza cappotto né ombrello alcuno, perché “il Fhürer è il Fhürer ma Berta è Berta.”
“Ma guarda te se mi devono mandare indietro i soldati proprio adesso.”
“Mandarli indietro?”
“Massì, come l’autunno del ‘18.”
Albrecht, che in quel ’18 non era ancora nato, non capì sino a quando la stanza non si riempì di divise mimetiche e scarponi grondanti di fango e fiumi d’acqua che appiccicava le appiccicava sui corpi di una trentina di giovani uomini.
“Questi sono ex ragazzi della NaPoLa scelti per il fronte.”
“Su ragazzo, non vorrai startene lì impalato fino alla fine della guerra, sceglitene uno e aggiustalo.” comandò mentre una di quelle fradicie divise si accostava a lei.
Mentre Albrech faticava per mettere a sedere un suo ex-compagno d’Accademia grosso il doppio di lui, non vide il cenno che il militare fece in sua direzione.
Berta si avvicinò e gli mise una boccetta di acetone in mano. L’uomo parlò.
“Berta ha detto che hai le mani più delicate di tutta l’infermeria. Se mi medichi per bene ti assicuro che starò molto più fermo.”
Albrecht strinse l’acetone in mano.
Rivedere Justus von Jaucher, caporalmaggiore e incubo ricorrente, fu come vedere quel mostro nell’armadio che turbava i sonni dei bambini ma che i genitori giuravano di non vedere.
Albrecht non riuscì a nascondere il cipiglio di antipatia che gli montò su in quella sala indaffarata. Si morse una guancia, deglutì l’insofferenza, gustò il sapore amaro del silenzio ficcato di forza in bocca e stette completamente zitto.
“Posso lasciarti da solo Albrecht? Non fartela sotto Justus, il signorino qui presente ha imparato in fretta.” e la donna si allontanò.
“Prego.”
Distaccato, sperò che fosse lì per un congedo breve, qualche giorno, una settimana al massimo. Sperò che la ferita fosse in realtà un graffio quasi invisibile. Gli aprì la giacca e sollevò l’orlo della maglia bagnata dalla bufera di fuori.
“Temo abbia ricominciato a sanguinare durante il viaggio.”
“E sanguina sì, ti è saltato un punto, il primo è completamente andato. Ti farà male.” appurò Albrecht, senza preoccuparsi di mascherare la delusione per la gravità della ferita. Una settimana non sarebbe bastata a rimetterlo in sesto.
“Sai da dove sono appena venuto Stein?”
“No, da dove?” chiese candidamente, rincuorato al pensiero di potergli infilare un ago nella pelle ed essere autorizzato a farlo.
“Dal fronte.”
Stalingrad?”
“Francia.”
“Beh, oggigiorno se non sei stato a Stalingrado non sei nessuno.”
“Stain, come osi-“ ma l’invettiva di Jaucher venne bruscamente recisa dalle sottili dita di Albrecht che infilarono l’ago nel lembo di carne immediatamente vicino la la parte aperta della ferita traslucida come rubini.
“Oh, non volevo mancarti di rispetto. Ma questo è ciò che dice mio padre. Sai… mio padre… il Gaulaiter Einrich Stain…”
Jaucher si tirò alcune ciocche di capelli resistendo a stento all’irrefrenabile impulso di spintonarlo lontano da sé.
“Sì… merda…” bofonchiò l’altro.
“Vuoi qualcosa da mordere?” chiese Albrecht in modo improvvisamente serio. “Non possiamo usare la morfina se non in casi eccezionalmente gravi, secondo Berta ne avremo ancora per le lunghe, ma posso darti-”
“E’… incertezza sulla… vittoria… questa?”
“Oh, ma è Berta che lo dice. Sai… Berta… quella donna laggiù con le dimensioni di un Mammut e la forza di cento Gnu…”
Jaucher non potè far altro che serrare la mascella e pretendere di non andare a fuoco mentre il moro faceva avanti e indietro con quel dannato ago.
Alla fine ammise a se stesso davvero non era così male, che la fronte corrucciata e lo sguardo concentrato su nient’altro che non fosse il suo fianco lo facevano sembrare molto più adulto, ma quella maturità greve gli calzava bene.
Con mani ferme e movimenti precisi, Jaucher realizzò che non era la prima volta che quel diciassettenne si armava di abilità che non c’entravano niente con il conflitto ma che lo rendevano più grande.
O forse stava solo impazzendo di dolore.
“Ho finito.”
Jaucher gli afferrò di scatto il polso, un impulso a cui non seppe resistere, sbiancandogli la pelle intorno alle vene.
Albrecht guardò davanti a sé, cercò di mantenere un autocontrollo che di sicuro possedeva ma che capricciosamente voleva sfuggirgli di mano, e si rivolse a lui.
“Posso fare altro?”
“Solo una cosa…” rispose con gli occhi chiusi, respirando con cautela e calmandosi. Lo disse così, a mezza voce, esausto di una stanchezza che giungeva da un altro confine, gli arti stanchi e i muscoli irrigiditi e visibili dalla maglia alzata, che Albrecht gli si fece più vicino. Jaucher strinse di più la presa sul suo polso, ma non osò interromperlo: era fin troppo evidente l’urgenza nella sua voce.
“Di’ a Berta di… comunicare al Gauleiter… Stain… di accendere la radio alle sei di… questo pomeriggio…” mormorò e lo fissò negli occhi con un’intensità tale che Albrecht si dimenticò di respirare.
“Che cosa è successo?”
“Albrecht.”
Il ragazzo si mosse bruscamente e Jaucher si lasciò cadere sul letto.
“Quel Saukerl di Tabbi ti ha portato il pranzo, staccati un attimo e vagli incontro prima che Mariah si metta ad urlare.”
“Perché dovrebbe urlare?” chiese Albrecht passandole davanti, la voce tradita dall’abbozzo di un sorriso furbo.
“Ma vai veloce va’! Come se non sappia cosa passa per la testa a voi bambini. E non adocchiarmi con quel muso, per me sarete bambini fino a quando non avrete la mia età e avrete visto e fatto quello che ho visto e fatto io. Ah! ma dopotutto forse è meglio avere per la testa le sottane che la guerra.”
“Stai facendo propaganda contraria Berta?”
“Mangia un po’ di zuppa e dormi Jaucher, che vi ho visti crescere, te e la propaganda.”
Albrecht venne rincorso dalle loro battute sin nel ripostiglio, dove Tabbi stava realmente tentando d’intavolare un qualche ciuffo di conversazione con Mariah.
“Inutile ricordarti di venire a pranzo perché sai quanto Berta mi terrorizzi, vero?” lo accolse al suo ingresso.
“Non è così male se ti avvicini un po’.”
“E’ proprio questo fatto dell’avvicinamento che mi terrorizza.”
Mariah se ne stava fra di loro, le scapole aguzze poggiate ad uno scaffale, la fronte di panna liscia e tesa su un paio di sopracciglia morbide color del bronzo e il naso piccolo tirato su dei tratti spigolosi.
Era graziosa e in palese attesta di qualcosa.
Tabbi tentennava, cercando invano di salire su altre giostre di parole, ma in fine glielo domandò.
“Vuoi sapere chi ha vinto?”
“No.”
“Come no? Io voglio saperlo.” s’intromise la ragazza. “Sono stata a sgobbare tutta la mattina.”
“Lui, Friedrich.”
“Sì! Lo sapevo, è troppo bravo. Com’erano i muscoli?”
“Ma che ne so, come al solito, ben fatti. Ma che mi chiedi Mariah? Non vuoi sapere in quanto tempo l’ha steso? Dieci minuti netti.”
“Si è accanito?” chiese di punto in bianco Albrecht.
“Cosa?”
“Lui. Si è accanito?”
“Su chi?”
“Sull’avversario.”
“Ah, no. No, per niente. Appena l’hanno decretato vincitore si è fatto indietro. Ma avresti dovuto esserci, è stata una roba epica. Quello aveva certe braccia così, più grandi delle mie cosce, e certi bicipiti pazzeschi, ma Friedrich era più veloce e gli scartava di lato, lo faceva scaricare e poi giù con i primi pugni; pugno, pugno, difesa, pugno, parata, calcio, pugno… quello c’è andato giù pesante eh, Friedrich è caduto a terra più di un paio di volte e quello soltanto all’ultimo, un equilibrio che pareva uno scoglio. Te lo mandano. Ah, ecco cosa ti dovevo dire! Mandano l’avversario in infermeria prima di rispedirlo alla sua NaPoLa vicino Linz. Austria, capisci? Abbiamo battuto l’Austria. Altre due vittorie come questa e Friedrich vola dritto alle Olimpi-“
“Ennò.”
“E no… aspetta, cosa?”
“Questo tipo… l’avversario, è ridotto male?”
“Meglio di Friedrich. Te l’ho detto, ha colpito solo fino a quando necessario.”
“Ennò.”
“Eccò cosa?”
“Se tuo padre sceglie di fare il macellaio poi non si dispiace se deve ammazzare animali. Vero?”
“Vero… altrimenti non lo farebbe, credo.””
“Esatto.”
“E…” Tabbi cercò un aiuto dalla ragazza che li fissava con perplessità, e l’oblio gli si spandè nei piccoli occhi castani come foglie autunnali. “Quindi?”
“Quindi,” riprese Albrecht, “devi essere coerente con stesso. Non puoi affermare che il re è la legge se poi tu stesso non ti attieni a tutte le sue leggi.”
Tabbi e Mariah si osservarono come due interlocutori muti e impotenti, persi chi sa dove nel fitto di quel discorso su macellai e re.
“Al… io cerco di starti dietro, davvero, ma Dio fascista, neanche un Caccia bonbardiere potrebbe raggiungerti se fai queste rovine di ragionamenti. Che cosa c’entra la coerenza con il mestiere di mio padre e le leggi del re? Di quale re poi?”
Mariah si lisciò il camice bianco con le mani ancora più bianche. “Non è che oggi sentiremo alla radio che il padre di Tabbi è diventato re?”
Tabbi fischiò. “Magari! Re della Germania, sai che bellezza. Sotto al Fhürer, ovvio. Ma bello bello… Ve lo immaginate? Istituirebbe il Giorno dello Spezzatino tutti i giorni e poi costringerebbe i paesi occupati a mangiare solo la sua carne. Sarei più ricco e più bello.”
Mariah scoppiò a ridere, lo scetticismo strabordava dal suono cristallino della risata. “Cosa c’entra la ricchezza con la bellezza?”
“C’entra c’entra… Quando sei ricco sei automaticamente anche un bel vedere. Aggiungici anche il potere e hai fatto tombola. Perché pensi che Katharina fissa Albrecht tutte le volte che porta i piatti a tavola? Perché è ricco, figlio di un potente e automaticamente anche un bel vedere.”
“No Tabbi, Katharina fissa Albrecht perché sarebbe stato un bel vedere anche se vivesse sotto ai ponti.”
Per fortuna che Albrech, a questo punto del colloquio, non era più con loro.
Berta lo aveva avvisato che il pugile dal setto nasale sanguinante e l’occhio tumefatto stava per arrivare e che se ne sarebbe dovuto occupare lui perché lei teneva una pinza in mano e un ragazzo piuttosto preoccupato nell’altra.
Il pugile era davvero ciò che Tabbi aveva descritto: non più alto della media ma piazzato su delle fasce di muscoli come tronchi d’albero, il setto nasale deviato e un tantino schiacciato da anni di combattimenti di alto livello e due occhi rotondi, di un colore a metà fra l’oro scuro e il blu notte, di cui uno sbattuto come un uovo andato a male in un piatto nero e viola. Un palmo di una sua mano avrebbe contenuto comodamente l’intera faccia di Albrecht.
Non ebbe bisogno di chiedergli chi fosse, due rivoli di sangue gli bagnavano il mento e parte della gola, ma lui sembrava non farci caso.
“Allen.”
“Siediti, ti fermo il sangue, ti faccio qualche impacco sull’occhio per sgonfiarlo e puoi andartene. Da quanto fai il pugile?”
Albrecht non era solito intavolare conversazioni a tavolino e non era la persona adatta per le maniere di cortesia. Avrebbe potuto fare benissimo il suo dovere senza spiccicare sillaba, ma Berta gli aveva presto piantato in mente che parlare aiuta a distrarsi dal dolore.
Non che il prestante ragazzo sembrasse essere in grado di avvertirne alcuno.
“Da quando ho tredici anni.”
“Com’è la NaPoLa di Linz?”
“Ottima, ma non è come qui. Qui voi siete i padroni. E com’è questa Danzica per cui Francia e Inghilterra si sono tanto scaldate?”
Sulle guance di Albrecht s’impimeva il peso delle sue parole sotto forma di calore, ad un palmo dal suo naso mentre gli tastava il suo per far sì che il sangue rimasto uscisse fuori.
Davvero questo sport ti appiattisce i lineamenti così?
“Se il Fhürer l’ha voluta così fortemente deve essere tra le sette meraviglie del mondo, ma io non l’ho mai vista.”
Non gli rivelò che lui era dal ’40 che a Danzica ci abitava, che non c’era la sua gente lì, ma un mondo sottomesso per forza che mai avrebbe sofferto le catene in silenzio, come un morente rassegnato all’estrema unzione: quello della Polonia occupata dalla Germania Nazista era una realtà viva, Albrecht la sentiva nella sua primavera al riunirsi delle rondini, nella sua costa di ceruleo mar Baltico, nelle occhiate dei pescatori quando il padre, seduto sul sedile posteriore di un’elegante auto guidata da qualcuno più in basso di lui, veniva scortato in giro nella divisa roboante e con le enfatiche svastiche sul parabrezza.
Non gli rivelò niente di tutto questo, di cosa provava quando tornava a casa per trovare i parenti e scopriva che neanche lei, la sua pittoresca Amburgo, era più soltanto la popolosa nordica città di cobalto che era un tempo, con i suoi pittoreschi posti sospesi su un fiume di carta da zucchero e gli appuntiti tetti delle case del colore degli zaffiri grezzi, ma un presidio di controllo per la vicina conquista: l’Olanda.
“Come ti è sembrato il ragazzo che ha vinto l’incontro?”
L’infermeria andava diradandosi mano a mano che il tempo passava e nel tardo pomeriggio tutti i soldati erano andati via, sballottolati di qua e di là.
“Di bravo è bravo, mi ha battutto. Ma non mi convince.”
“Perché non ti convince?”
“Perché avrebbe potuto battermi meglio, mostrare la sua vittoria su di me, calcare di più, e invece sembrava quasi che non vedesse l’ora che l’arbitro sancisse la fine dell’incontro. Ha più ammaccature lui di me.”
Il pugile aveva un po’ gli occhi come i tetti delle case di Amburgo, Albrecht ci pensò quando dovette concentrarsi sul suo occhio pulsante. Una tonalità di blu scuro s’intravedeva fra le palpebre deformate dal gonfiore, e pensò anche che gli sarebbe piaciuto avere due occhi così, che ricordassero Amburgo a chi ad Amburgo ci aveva lasciato le prime orme.
“Eccolo, guarda tu stesso.”
Albrecht sospirò e si voltò, sapendo già cosa avrebbe visto.
Eccolo, senza la sua amta Amburgo riflessa negli occhi troppo verdi, senza un naso schiacciato o deviato ma vincitore di un grosso livido violaceo sullo zigomo destro, il labbro inferiore rotto e spaccato e percosso e parte del mento macchiato di liquido rosso che gli si era appiccicato fin sul collo.
“Ha vinto lui?”
“Non lo conosci?”
Il campo visivo di Albrecht precipitò drasticamente sul taglio che gli decurtava a metà il labbro rovinato.
“No.”
Mariah costrinse Friedrich a poggiare le natiche su un lettino e a farsi asciugare il sangue che gli aveva colorato le labbra di rosso come un rossetto messo da una mano non troppo ferma.
Albrecht congedò il pugile –si era alzato senza il minimo lamento- e stava per volatilizzarsi a cena quando il destino (e Berta) vollero altrimenti.
“Albrecht, piccolo strüdel alla cannella, pensi tu al talentuoso lottatore palesemente brillo? Il Rektor voleva vedere tutte le infermiere, Mariah compresa, cinque minuti fa, e non vorrei che venga presa a rimproveri perché qualcuno non è venuto subito da me ma ha bevuto qualche bicchierino di troppo.” e assestò uno scappellotto alla nuca di Friedrich.
“Quando hai finito vai tranquillo, arrivano le altre.” E così dicendo ondeggiò con passo pesante fuori dalla stanza.
Albrecht maledì mentalmente il Rektor e la sua mania di convocare infermieri ogni settimana che analizzassero medicinale per medicinale le sue punture perché convinto come del sorgere del sole che qualcuno prima o poi avrebbe tentato di avvelenarlo.
“Magari succedesse davvero” pensò e, ghermita una stoffa pulita e una bacinella colma d’acqua fredda, se sedette difronte a Friedrich e gli premette il panno sullo zigomo.
“Ti ha conciato per le feste.” commentò con leggerezza, sovrastando i suoi sussulti.
Si era ripromesso, da quel giorno nella radura, che non gli si sarebbe più avvicinato se non fosse stato strettamente necessario, che lo avrebbe evitato ad ogni costo e invece si ritrovava con una pezza in mano ad alleviargli le botte di una ventina di pugni.
“Hai bevuto vino? Puzzi di vino.”
“Abbiamo festeggiato… tuo padre beve molto quando è allegro.” Rispose Friedrich, parlando per la prima volta da quando era entrato.
Albrecht strizzò per l’ennesima volta il panno umido e lo passò sui residui di sangue incollatisi sul pomo d’Adamo.
“Mio padre è allegro perché beve.”
“Hai baciato Katharina?”
Nessun segno, prima di questo.
Nessun segnale, nessuna scossa che presagisse il terremoto, nessun nuvolone nero all’orizzonte che ammiccasse il diluvio, nulla che Friedrich, appannato dall’alcol, avrebbe chiesto lucidamente.
Ma nelle ultime due settimane la voce di Christoph, sicura e vendicativa, tornava spesso a fargli visita nei momenti di quiete, fra le lenzuola o sotto lo scorrere di una doccia. Persino durante gli allenamenti al sacco più solitari alle volte si bloccava, perso nell’immaginare Albrecht tanto vicino a qualcuno da poterlo baciare.
Era una domanda come tante altre, posta in un momento qualunque con un tono qualunque ma, per qualche motivo che lui non riusciva a comprendere, quella domanda gli lambiccava il cervello da giorni.
“Sì.” rispose Albrecht con lo stesso tono qualunque.
“Più di una volta?”
“Più di una volta.” ma non si accorava di guardarlo.
“Anche recentemente?”
“Anche recentemente.”
“E ti è piaciuto?”
“Perché dovrei dirtelo?”
“Siamo amici no? Pensavo mi parlassi.” Il tono ora era un po’ meno qualunque.
“Non possiamo essere amici.”
Il distacco con cui Albrecht pronunciò queste parole lapidò il respiro di Friedrich dentro, fra milza e polmoni.
Il moro si alzò e si diresse presso un lungo tavolo sul quale erano poggiati i vari ferri di Berta. Accese un’altra candela -l’elettricità andava preservata per cose più importanti e stanze più affollate che una conversazione sul filo del rasoio di due giovani tedeschi- e la mise accanto alle altre quattro sparse per il locale.
“Perché dici questo?”
“Perché,” Albrecht sbattè le mani sul metallo gelido, “se mi scoprono tu non devi aver avuto niente a che fare con il sottoscritto, o sospetteranno anche di te. Subito. Devi stare alla larga da me Friedrich.”
L’ultimo suono prese la forma di un pezzo di carta lacerato a metà nel mezzo e la sostanza di un ferro rovente spinto a forza nell’acqua a morire.
“Questo perché stai continuando a fare cose che potrebbero portarti guai, no?”
La bocca di Albrecht rimase sigillata e i suoi occhi fuggirono negli angoli più bui. Allora Friedrich continuò.
“Io non sarò tuo nemico.”
Albrecht scattò come una molla. “Dannazione, non posso proteggerti!”
“Ma io sì, io posso proteggerti.”
Il più piccolo i pietrificò, il petto gli si sgonfiò come un palloncino e il ticchettio di un principio di mal di testa iniziò a becchettargli le tempie
“Quello che è successo nella foresta non.. è … è stata soltanto paura. Paura che qualcosa colpisse te o… Tabbi. Ma quello che succederà… Friedrich hai scelto una
strada che non s’interseca con la mia.”
Friedrich si alzò, malfermo sulle gambe, e si avvicinò a lui.
“Il tuo collo… ci sono ancora i segni.”
Albrecht gli diede le spalle istintivamente, ma anche sulla parte posteriore del collo era ancora vivida l’ombra giallo-grigiastra dei polpastrelli di Christopher.
“Ti è piaciuto? …baciarla.” ripetè Friedrich, la voce a singhiozzi altalenanti e i movimenti resi irregolari dalla sbronza.
Albrecht si voltò per troncare di netto la deviazione che aveva assunto la conversazione ma qualunque cosa avesse desiderio di dire gli si spense in gola. Lui era troppo vicino.
“Ti è piaciuto?”
Friedrich fece per poggiargli una mano sulla spalla ma lui la scostò velocemente.
“Più del nostro?”
“Friedrich…” soffiò Albrecht, voltando di poco il viso perché l’altro si era avvicinato ancora. “Sei ubriaco.”
Il biondo scosse la testa con forza e tentò di accostarsi alla sua mandibola con il naso, ma Albrecht  gli mise una mano sul petto. “Friedrich no.” ma nella tundra fosca della percezione di Friderich della realtà circostante nella quale scorrevano fiumi di oggetti inafferabili c’è n’era uno, il braccio di Albrecht, che quando sollevò per distanziarlo gli agguantò, traendolo verso di sé.
“Friedrich… lasciami!”
Lo lasciò, perché Albrecht non alzava quasi mai la voce e perché il carrello di metallo aveva tintinnato ed era scivolato parecchio indietro quando il ragazzo si ci era addossato per allontanarsi da lui.
Alzò le mani. “Scusa… scusa.”
Albrecht osservò il lato di Friedrich su cui non sbatteva la luce aurea delle candele e pensò che neanche l’oscurità poteva estinguere la sua gentilezza.
Non trovava differenza fra luce e buio in lui, giorno e notte condividevano lo stesso letto.
Erano amanti, dentro di lui. Nonostante tutto.
Parve tanto sincero, con quelle scuse lanciate immediatamente avanti e il pizzico di consapevolezza emerso nel suo sguardo annebbiato, che Albrecht dovette assecondare la devastante innocenza nei suoi occhi, spinto da un’emozione più forte di lui. Uno stanco sorriso gli increspò le labbra.
“Qui non si tratta di me e te… lì fuori cadono bombe dal cielo. Devi essere mio nemico Friedrich.”
“Non lo sono.”
“Allora comportati come tale. Devi, se vuoi avere una possibilità nel loro mondo, e io voglio che tu ce l’abbia.”
Nella stanza adiacente il fruscio di coperte che venivano scostate fu più assordante dell’allarme antiaereo. Il biondo accese velocemente la radio lì vicino, in modo che una incolore voce tedesca coprisse che aveva ancora da dirgli.
“Quale mondo? Di quale mondo stai parlando?”
Qualcosa si strangolò nella gola di Albrecht e quando parlò sembrava che vi fosse rimasto incastrato del fumo.
“Un mondo in cui il Nazionalsocialismo ha vinto la guerra.”
Si separarono quasi contemporaneamente, tagliando quel filo che si intrecciava ogni qual volta erano insieme e da soli, e al quale Friederich non riusciva a venirne a capo e Albrecht sembrava deciso a fingere che non esistesse.
“Che succede qui? Weimar! Era da tempo che non ci si vedeva.”
Friedrich raggelò con la velocità di un fulmine. Sperava di essere troppo ubriaco per riconoscerlo, ma sapeva che nessun boccale di vino avrebbe mai potuto farlo sbagliare.
“… Jaucher?”
“In persona. Chi non muore si rivedere, e io non sono tanto semplice da sotterrare. Hai vinto l’incontro che ti permetterà di restare ho saputo, quindi ne deduco che passeremo molto tempo in compagnia l’uno dell’altro. Il Rektor mi ha concesso di tornare alle mie vecchie ‘mansioni’ qui all’Accademia fino a quando non avrò il permesso per tornare sul fronte. E dimmi Weimer, di cosa stavi parlando?”
Friedrich aveva dimenticato con piacere che non esistevano discussioni con lui, che i suoi erano monologhi di assoluto narcisismo in cui per inserirti dovevi rispondere a monosillabi.
“Compiti.”
“Albrecht.”
Friedrich si zittì, notando come anche il nome di Albrecht pareva un insulto detto da lui.
“Credo che la parola giusta sia Albrecht. Parlavi con lui dei compiti? Beh, ora si sta facendo tardi e fra pochi minuti dovrete andare nella vostra stanza.”
“…sì ma io ci metto di meno a parlargli...”
“In fin dei conti qui non è poi così diverso dal fronte, la guerra è dovunque no? Magari anche qui, magari anche adesso. Cosa devi dirgli ancora?”
Friedrich ci mise solo qualche secondo di troppo a rispondere, reso lento dall’alcol, ma risultò comunque convincente.
“Dovevo dirgli della campagna in Russia, dell’esercito bolscevico che arretra ogni giorno di più-“
“La vendetta è un piatto che freddo o caldo va servito, non è così Weimer? Una notizia grandiosa, sono d’accordo. Ma sai qual è un’altra grande notizia? Che Herr Stein mi ha personalmente incaricato di tenere d’occhio sui figlio da molto, molto vicino. Sai chi è il figlio di Herr Stein, Weimer? Il ragazzo con cui stai parlando.”
Lo scatto della testa di Albrecht accolse quella rivelazione e il biondo si trovò refrattario ad accettarla passivamente.
Albrecht era immobile, si aspettava che Jaucher aggiungesse qualcosa che smentisse quell’assurda situazione. Che cosa aveva in mente suo padre? Credeva che si sarebbe messo a scrivere altre cose compromettenti o che non riemwegesse una seconda volta da una lastra di acqua ghiacciata? O semplicemente aveva deciso che se l’arbusto non cresce nella direzione di tutti gli altri arbusti del giardino bisogna legarlo a un’asta?
“Ora dovete proprio andare. Vi accompagnerò fino alla porta della-“
Ma quell’incolore voce tedesca -proveniente dalla radio nel buio- che sino a quel momento aveva fatto da sottofondo ad una penombra di parole e segreti, ora s’impose con inattesa prepotenza sull’attenzione dei tre, e quello che annunciò li impietrì sul posto.
 
 
***
 
 
‘GLI ALLEATI METTONO IN FUGA I FRANCESI DI VICKY E LA GERMANIA INVADE ANCHE LA FRANCIA MERIDIONALE.’
 
Quella mattina del 9 Novembre dell’anno 1942 in molte parti del globo non si parlava d’altro.
La Russia, che era impegnata da quasi un anno in una guerriglia casa per casa con il Reich, accolse la notizia con un misto di sollievo e apprensione; l’Inghilterra e l’America riconobbero alla situazione l’esplosiva delicatezza che meritava, un passo avanti, uno indietro nell’impervio cammino per la liberazione di Francia e nell’avvicinamento al cuore della Germania che aveva eretto attorno a se i paesi occupati come muri invalicabili.
L’Italia considerava ancora la sua alleata come una fortezza inespugnabile, ma qua e là s’intravedeva l’innegabile dirompenza di Churchill e Roosvelt, quest’ultimo con un occhio sull’Europa ed uno sull’Impero Giapponese, pronto a dare ancora una volta filo da torcere per l’egemonia sul Pacifico.
Insomma, lo scacchiere internazionale era un filo d’alta tensione, e la realtà all’interno delle nazioni stesse era persino in faccende peggiori.
Fu una guerra d’ideologie, fu una guerra dove i morti si facevano ammazzare per le idee prima che per le armi.
Il giorno prima, nel tardo pomeriggio, Radio Berlino aveva diffuso la notizia con dovizia di particolari, e i mezzi d’informazione elogiavano il Fhürer per le sue strabilianti capacità tattiche.
Il brusio di fondo che solitamente animava la colazione crebbe in conversazioni concitate la mattina seguente, sui quotidiani nazionali dispiegati sui tavoli.
Questi Alleati mangiavano sempre più vittorie e, dall’entrata degli Stati Uniti nel conflitto, sembravano capaci di notevoli imprese, nonostante gli aggettivi dispregiativi con cui gli articoli nazionalisti li apostrofavano, definendo tutti i loro successi come momentanei istanti di fortuna.
Nonostante il contegno distinto delle autorità e le parole impassibili con cui persuadevano la popolazione che questa manovra era una prova tangibile che la Germania di Adolf Hitler poteva fare del mondo ciò che più le aggradava come una Regina inarrivabile, questa era anche la manovra di una regina che inizia ad avvertire il tremito nel trono, e un senso di trepidazione iniziò a serpeggiare fra alcuni fragmenti della società tedesca.
“Cos’è quel muso lungo?”
“Attento Tabbi, o ti cadrà nel piatto.”
Due diciassettenni sghignazzarono sulle loro salsicce, in barba all’apprensione generale, perché poi c’è sempre, in ogni grande momento, chi fa di tutto per smussarne la portata.
Tabbi puntò loro la forchetta contro con un pezzo di prosciutto infilzatovi. “Karl e Karl, non sapete leggere?”
“Su quel giornale? Noi leggiamo solamente che la Francia è praticamente la nostra puttana.” e ghignarono ancora.
“E poi non capisco tutta questa preoccupazione per gli Alleati.” Si aggiunse un quarto commento di un ragazzo dal naso punteggiato di lentiggini e i lineamenti squadrati. “Hanno messo in fuga i francesi, mica noi.”
Albrecht, con lo sguardo rivolto verso il basso e taciturno, allontanò da se il piatto con due dita. Salsiccia e prosciutto erano intatti.
Uno dei due Karl, quello dal mento più aguzzo, tintinnò il manico del coltello contro il vetro della bottiglia. “E la Germania ha fatto vedere alla Francia cosa succede quando è scontenta. Avevano un compito, fermare l’avanzata di quei stronzi, non l’hanno fatto e adesso piangeranno sui loro morti.”
Albrecht posò con forza il bicchiere sul tavolo.
“Mangiate Karl 1 e Karl 2, invece di parlare dei morti degli altri.”
“E poi” aggiunse Friedrich, che fino ad allora era rimasto in silenzio a osservare il via vai delle opinioni sulla sua tazza di latte caldo, “Berlino è una rocca forte, e sappiamo tutti che se non si aggiudicano Berlino non si aggiudicano nulla.”
“Ben detto. Lo vedete come ragionano i veri Ariani?”
Christoph parve soddisfatto del suo ingresso nel ragionamento. “Tutto quello che avete detto voi altri è privo di fondamento. Tranne per la cosa della Francia, una francese me la farei.”
“Oh andiamo Al.” Il ragazzo con le lentiggini sorrise maliziosamente. “Non te la faresti una francese?”
Una mano femminile sfiorò fugacemente la spalla del moro.
La maggior parte dei colli ruotarono ed innumerevoli teste si voltarono, non perché avessero notato quell’inusuale tocco, ma perché la giovane donna che reggeva tre piatti per braccio era, obiettivamente, piuttosto graziosa.
Katharina si piegò per prendere il piatto di Albrecht e un piccolo sorriso fece capolino su un angolo di bocca.
Tabbi avrebbe potuto sbavare lì e subito con gli occhi trasognati e le membra imbambolate.
Albrecht non seguì il sorriso, ma inclinò la testa un po’ all’indietro per guardarla e rispose: “No, preferisco le tedesche.”
Christoph questo non se lo perse.
 
 
***
 
 
Friedrich e Albrecht si evitarono tutto il giorno, trovando ogni momento quello giusto per mettere fra il proprio corpo e quello dell’altro più metri possibili.
La vittoria eclatante del biondo sul pugile austriaco era ancora sulla bocca di tutti, e il senso di ammirazione per il diciottenne si ripresentò più forte di prima. Era perfetto.
Albrecht, che si rifiutava categoricamente di guardarlo o solo comportarsi come se esistesse, faceva di tutto per convincere se stesso che non la pensava così.
Alla fine si trovarono nello stesso spazio la sera, nel bagno, stanchi e spossati più di chiunque altro perché loro erano l’ultimo livello prima del mondo esterno.
“Friedrich, ti muovi? Si fa mattina tra poco.”
Christoph non gli aveva detto niente del pugno che il biondo gli aveva rifilato nella foresta tre settimane prima, e ancor meno aveva accennato al motivo per cui avevano corso come dei pazzi in un mare di neve: l’imboscata.
Herr Füller soltanto aveva dichiarato a gran voce che era tutto sotto il più stretto controllo e che i responsabili di quella ‘vile e animalesca insurrezione alle spalle’ sarebbero stati presto identificati.
Friedrich s’infilò sotto il getto diretto dell’acqua. Le docce erano una di seguito all’altra delimitate da una lastra di metallo che arrivava pressochè al bassoventre di ogni ospite, e ogni quattro abitacoli erano separate da un muro vero e proprio, alto e spesso.
“Mio nonno diceva sempre che la scherma è lo sport più nobile che sia mai stato inventato dall’uomo, regole ben precise e nessun contatto con l’avversario se non con il fioretto, una danza.” La voce di un ragazzo giunse dall’altro gruppo di docce.
Friedrich annuì con gli occhi chiusi.
“Allora diventerai una ballerina?” lo schernì Christoph, senza vederlo.
Friedrich annuì pure a questo.
Non li stava davvero ascoltando, quel giorno avevano montato e smontato arami per tre ore di seguito, senza mai staccare la concentrazione da dieci tipi di pistole e fucili diversi, i tricipiti gli dolevano ancora per l’allenamento e le gambe erano un’unica fascia contratta di muscoli. Si lavò via di dosso il sudore e le voci dei presenti come gocce di acqua bollente.
Non era il massimo della privacy, Friedrich lo capiva, ma per quel che lo riguardava già poter godere dell’acqua corrente sempre calda era tutto ciò che desiderasse.
Tabbi però non era esattamente d’accordo.
Lui era abituato al confortevole bagno della sua non modesta dimora, e nonostante Himmler dicesse che i tedeschi erano nati senza paura e che esaltare la pelle di un autentico Ariano dovesse essere naturale quanto camminare e necessario come respirare, Tabbi si guardava spesso intorno con imbarazzo e sobbalzava ogni qual volta passava qualcuno. I movimenti oltre il muro e nelle altre docce erano per lui motivo di evidente sconforto.
“Non che mi lamenti eh… non mi sto lamentando, ma perché non posso fare la doccia in un altro momento?”
“Certo, così noi trottiamo e tu asciughi quel sedere grasso!”
Tabbi biascicò un rassegnato “appunto” e si passò il sapone sulle spalle.
“L’Arianesimo non è contagioso, eh Tabbi?” uno diede di gomito al ragazzo dietro di lui, fermandosi davanti la doccia dov’era Tabbi.
“Friedrich bacialo, magari si trasforma in un principe.” e risero sguaiatamente.
“Tira fuori l’Ariano che è in te Tabbi, avanti, sappiamo che è nascosto da qualche parte, molto… molto in fondo.”
“Gustaf, Wilm, dateci un taglio.”
Cinque persone smisero di fare qualsiasi cosa stessero facendo per guardare nella sua direzione.
Anche Joachin, loro camerata e campione indiscusso di rumorini notturni, nell’altra quartina di docce, si sporse come una testa vagante per constatare se veramente dalla bocca di Christoph fosse uscita una frase in difesa di Tabbi.
Tabbi stesso era impallidito, diventando più bianco delle mattonelle del bagno che gli facevano da sfondo; l’acqua gli scendeva giù dal naso sui piedi, troppo allibiti per muoversi.
“Beh? Che c’è? Avete visto Churchill lavarsi i gioielli di famiglia? Non impicciatevi.” E dopo qualche secondo aggiunse “Verdammte Scheiße.
Il ‘Porca troia’ se lo aspettavano tutti, e dopo averlo sentito ognuno si convinse che nessuna spia russa avesse rapito Christoph sostituendolo con un suo omonimo dall’animo cavalleresco.
“Sei uno strano soggetto Snaidar.”
Joachin tornò al suo posto, la sua massa di capelli castani e gocciolanti scomparvero alla vista e Friedrich sentì qualcuno domandare, in un bisbigliare prudente, cosa fosse l’ “Amburgo Swing.”
“Pff, non lo sanno. E poi dicono che io sono strano.” Christoph sbattè teatralmente le palpebre, i suoi occhi blu elettrico brillarono di arroganza.
Friderich lo guardò. “Non è quel movimento clandestino?”
“Più che un movimento è una preferenza per la musica inglese e soprattutto americana. Ad Amburgo il fenomeno è più diffuso che nelle altre città, per questo è noto in tutta la nazione come ‘Amburgo Swing.’”
“Quindi non si può… è difficile da soffocare perché non è un’organizzazione con delle regole comuni ma tante persone sparse che si riuniscono in luoghi specifici?”
“Si soffoca, vedrai come si soffoca.” ribattè un altisonante Christoph. “La Gestapo ha occhi e orecchie dappertutto e le SS sanno anche quante volte ti siedi sul cesso, non resisteranno ancora a lungo, né ad Amburgo né in nessun altro vicolo del dominio del Fhürer, né questi locali d’incontro né chi si incontra.”
“Io sono di Francoforte e anche lì ha preso piede questa deviazione-” ma Tabbi non riuscì in alcun modo a ritagliarsi uno spazio nel fiume di commenti che Christoph, massaggiandosi la chioma bruna, non la finiva più di stilettare a raffiche di vento.
“Strana città Amburgo… piuttosto vivace. Ma cos’avranno da contestare gli Amburgesi poi? Bah. Abbiamo la musica di Bach, Beethoven, Bruckner e Wagner, la nostra radio, i nostri balli, il nostro cinema, autori come Goethe e Schiller, il pensiero immortale di Hegel, Fichte e quel genio di Nietzsche, le nostre millenarie tradizioni, la cultura che ci invidia mezzo mondo, il nostro è l’esercito più forte sulla Terra, siamo rinati dalla morte con cui quell’aborto di Trattato di Versailles ha creduto di piegarci per sempre, non capisco proprio cosa vogliono ancora. Oh, lui è di Amburgo?” fece un cenno svogliato verso Albrecht che, rintanato nell’angolo della sua doccia adiacente al muro, si muoveva lentamente come per non dare nell’occhio.
Ma, in qualche modo, Albrecht dava sempre nell’occhio.
Anche ora che avrebbe desiderato avere un sacco addosso piuttosto che dover stare senza vestiti dinnanzi ad altre persone.
Dava le spalle a chiunque e si lavava in silenzio, lanciando sguardi rapidi e circoscritti all’ambiente circostante.
“Ehi Albrecht, è una caratteristica tipica di voi Amburghesi fare le cose di nascosto? Anche lavarvi di nascosto?”
L’unico segno che lasciò intendere che il moro non fosse sordo fu l’improvviso, impercettibile blocco della mano con cui si stava sciacquando una gamba.
“O forse resti girato e spiaccicato al muro perché non sei Ariano anche lì sotto. Qual è il problema Stein, ce l’hai piccolo?”
Fu una scossa.
La realtà rallentò, poi, come un carillon difettoso, si ruppe.
Una voce di calma innaturale si levò cordiale nell’aria, l’eco del ghiaccio che si spacca.
“Strano… per Katharina sono sempre stato abbastanza Ariano, non si è mai lamentata di quello che ho qui sotto.”
Friedrich ebbe solo il tempo di irrigidirsi che si erano già saltati alla gola.
Dovettero separarli come si fa con i cani e trascinarli via come prigionieri di guerra.
Tabbi si schiaffò le mani sulla fronte quando qualcuno chiamò il Rektor perché erano stati costretti a bloccarli dalle braccia.
Friedrich assistette impotente alla scena, Albrecht con i polsi costretti dietro la schiena strattonava come un’aquila legata a un trespolo nel mezzo della steppa, Christoph che scalciava come un cavallo imbizzarrito.
“Tieni... tienilo!”
“Sei morto Stein!”
Verdammt! Portalo fuori!”
“Ti aspetto Sneidar!”
Li condussero fuori, Jaucher si materializzò loro alle spalle come un’ombra lunga e invasiva ed alcune mani avvolsero alla bell’e e meglio due coperte introno ai due recalcitranti.
Non erano calmi neanche quando li fermarono davanti una porta lucida e pomposa, dietro la quale non si sentiva alcun rumore.
Questo perché, quando la porta si spalancò, quattro divise diverse egualmente intimidatorie li stavano aspettando.
 
 
***
 
La pioggia continuava ad avere la meglio sui vetri delle finestre quando i ragazzi andarono nelle rispettive stanze, e il paesaggio oltre i freddi vetri era ancora un’immensa sfumatura di tetro argento.
Friedrich aprì la posta che sua madre gli inviava ogni mese, puntuale e costante come solo una madre sa essere. I pacchi di Albrecht e di Christoph erano integri sul tavolino.
Mentre il ragazzo si faceva largo nel cartone Tabbi diceva qualcosa a proposito di quei due, una cosa come “Quei due non ci stanno più con la testa, prendersi a mazzate per una cosa così stupida” e Friedrich avrebbe voluto al corrente del fatto che a volte le coso non sono semplicemente soltanto ‘stupide’, magari lo fossero state, stupide e rassicuranti.
Ma la voce non uscì.
Rimase rintanata in uno spicchio di polmone mentre l’ennesimo foglio di giornale, ma stavolta un ritaglio impreciso che sembrava esser stato ricavato di fretta, gli piovve fra le dita. Accanto, una lettera di sua madre.
Il terrore, puro come il suo sangue, gli invase la mente; si lasciò cadere sul primo letto utile e la carta stampata si stropicciò nei punti su cui i polpastrelli di Friedrich strinsero di più.
Non ebbe bisogno di leggere la scrittura frenetica di sua madre, sbavata sulle lettere su cui erano cadute le lacrime.
Dei grossi caratteri neri, che capeggiavano sulla foto di un uomo che sembrava essere stato pestato brutalmente, recitavano:

“FATTORE TEDESCO DI 56 ANNI ARRESTATO DALLA GESTAPO CON L’ACCUSA DI DISPREZZO E DENIGRAZIONE DEL REICH, DELLA PATRIA E DEL FHÜRER. IL FIGLIO DI 8 ANNI ALLONTANATO DAI GENITORI SOSPETTI.”









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Spazio Autore:
Avevo riletto, avevo corretto, il mio pc mi ha sbeffeggiato alla grande salvandomi una correzione sì e venti no, quindi personate eventuali errori in cui potreste inciampare. 
Se vi si rompe una camba sappiate che non era mia intenzionale intenzione (?).
Grazie per le innumerevoli visite e un grazie a MegaraX che è (come sempre) una fedele complice (poverina. cit.) delle mie turbe mentali.

Pachiderma Anarchico

 
  
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