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Autore: MalandrinaLunastorta    21/11/2016    0 recensioni
"Non ti rividi per mesi.
Osservo ora il tuo occhio cieco, bianco e vitreo come una sfera; mi inquieta terribilmente e tu lo sai.
Mi inquieta perché quando succede qualcosa di terribile, come la morte di Michele, tu mi guardi con quell’occhiaccio malefico e Dio solo sa come capisci sempre che ho bisogno di te, delle tue fusa, di un po’ di calore che mi avvolga.
Sei uno stronzo patentato, ma in quei casi sembra quasi che tu mi voglia bene."
Genere: Commedia, Slice of life, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Graffi

 
Quanti anni hai, gatto?
Ti osservo incuriosita mentre lecchi indifferente i resti del tuo pranzo.
Osservo la tua coda dimezzata da un brutto scontro con un cane randagio e ricordo il giorno in cui ti salvai da quella bestiaccia, tu, un cencio sanguinolento e puzzolente che continuava a soffiare contro tutti, anche contro di me.
Ricordo di averti lavato, portato dal veterinario, restando un’ora davanti alla sua porta aspettando di sapere se ce l’avresti fatta, tu, gattaccio snervante, che per me non rappresentavi niente eppure mi tenevi ancorata alla tua vita in quel momento.
Non appena entrai nella sala mi ricominciasti a soffiare contro.
Che imbarazzo con quel veterinario, che mi guardò storto pensando avessi causato io le tue ferite.
Durante tutto il viaggio di ritorno in macchina te ne stetti zitto, ruffiano, ma aperto lo sportello anteriore ti desti alla fuga.
Non ti rividi per mesi.
Osservo ora il tuo occhio cieco, bianco e vitreo come una sfera; mi inquieta terribilmente e tu lo sai.
Mi inquieta perché quando succede qualcosa di terribile, come la morte di Michele, tu mi guardi con quell’occhiaccio malefico e Dio solo sa come capisci sempre che ho bisogno di te, delle tue fusa, di un po’ di calore che mi avvolga.
Sei uno stronzo patentato, ma in quei casi sembra quasi che tu mi voglia bene.
Non seppi mai come lo perdesti, scapestrato come sei, ma fu quell’occhio mezzo morto che ti riportò da me, quando ti presentasti davanti al mio portone così come se nulla fosse, in attesa che ti curassi.
E io non seppi sbatterti la porta sul muso, errore fatale.
Osservo la cicatrice che ti percorre la pancia, testimone del fatto che qualche gatto coraggioso arrivò ad accoppiarsi con te e solo allora mi resi conto che non eri davvero un gatto, ma una gatta rabbiosa.
Non mi permettesti di avvicinarmi a te per mesi, il tuo istinto materno era venuto fuori in maniera feroce, come qualsiasi altra parte di te.
Mangiavi per tre, sporcavi come non avevi mai fatto ma eri molto più attenta alle tue mosse, ai tuoi soliti balzi dal frigorifero al lucernario che mi mandavano terribilmente in bestia, alle tue risse abituali con il barboncino della vicina.
Ne nacquero tre, povere bestie spelacchiate e senza padre, quel giorno di novembre.
Sei stata egoista anche in quel caso, maledetta te, che scomparisti un’altra volta e mi facesti preoccupare per giorni, rompendo le scatole all’intero vicinato per sapere se avevano visto il tuo muso a macchie o sentito il tuo stridulo miagolio.
Fosti te a farti trovare, come sempre.
Il vecchietto del piano di sopra mi venne a bussare, terrorizzato, blaterando di spiriti che infestavano il parchetto dietro casa e di urla terribili provenienti dall’area per bambini.
Quando arrivai davanti allo scivolo, con ancora addosso la camicia da notte coperta da un giaccone e i capelli stravolti dal sonno, smettesti immediatamente di miagolare e mi guardasti soddisfatta, mostrandomi i tre batuffoli luridi che circondavi con il tuo corpo nuovamente ferito dal parto.
Non te ne è sopravvissuto neanche uno, povera vecchia gatta senza nome.
Credo di aver visto un briciolo di dolore in te, essere spaventoso e inumano, quando mi portasti dal primogenito, spiaccicato sul ciglio della strada a nemmeno un anno dalla sua nascita.
Quando scomparve il secondo vagasti per il viale per giorni, richiamandolo con i tuoi miagolii feroci, ma non tornò mai.
Il terzo se l’è portato via la filaria, deboluccio com’era.
Fui io a soffrire per lui, che era il mio preferito, perché quando morì te ne andasti di nuovo, come se non ci fosse più nulla che ti legasse a questa casa.
Probabilmente era così, ma oggi sei di nuovo qua, a quattro anni di distanza.
Mi hai lasciata davvero di stucco, lo devo ammettere, quando ti ho trovata spaparanzata nel mio davanzale al ritorno dalla spesa.
Il tuo solito sguardo insofferente mi ha liquidato in fretta, per poi posarsi sulle buste che tenevo ancora in mano.
Ancora devo capire perché sono uscita di nuovo a comprare cibo per gatti anziché scacciarti con la scopa, ma la mia rivincita l’ho avuta quando hai conosciuto Andrea.
Non credevi che avrei avuto il coraggio di aggiungere un’altra responsabilità alla mia incasinatissima vita, perciò quando hai visto entrare di corsa quel bambino scuretto e rumoroso sei saltata in aria come una mina.
Ti stai già abituando a lui, lo vedo, ma non pensare di riavere indietro la vita pacifica di una volta.
Sollevi di colpo lo sguardo e subito capisco che mi stai chiedendo spiegazioni.
Avrai capito da sola dai suoi tratti marcati che l’ho conosciuto in uno dei miei viaggi in Africa, ma non c’è molto altro da dire: lui aveva bisogno di una madre, io di qualcuno che rischiarasse le mie giornate solitarie.
Il nostro è stato un accordo vantaggioso.
Ti senti tradita, lo vedo, tu che hai perso tutti e tre i tuoi figli.
Ti prendo in braccio, ma sei ancora indignata e mi graffi per scendere e allontanarti con la coda sollevata.
È inutili che ti fingi una nobile con me, sappiamo entrambe che vieni dalla strada.
Ma Andrea non lo sa e già comincia a trattarti da regina.
Tu sì che sai approfittarti delle persone, eh?
L’hai sempre fatto d’altronde, zitellaccia acida, ma nonostante questo non riesco mai a dirti di no.
Tanto lo so che ci metterai più di me e Andrea messi insieme a tirare le cuoia, tanto vale che trascorriamo questi anni insieme.
Mi riavvicino a te, ti afferro per le ascelle e ti porto sul divano.
Vieni qua, gattaccio centenario.
 

 
 
 

  
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