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Autore: Alyeska707    22/11/2016    4 recensioni
! STORIA INTERATTIVA !
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-E se il desiderio di avere degli amici, unito alla follia, deformasse la realtà? Se ragazzi tra loro diversi, all'oscuro del loro avvenire, si ritrovassero improvvisamente in un luogo sconosciuto, in cui la neve è perenne? Se, a loro insaputa, una presenza li osservasse costantemente? Decifrando il loro essere, osservando le loro esistenze... manovrandoli a suo piacimento...
Che accadrebbe?
Genere: Generale, Introspettivo, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai, Shoujo-ai | Personaggi: Altro personaggio, Courtney
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Triangolo | Contesto: Contesto generale
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Total Drama: The Snowfall
Cap. 9-Inferiorità, invisibilità, stanchezza.
 
Niente era sistemato, anzi, tutto stava andando sempre più a picco: la situazione, le certezze, i rapporti. Courtney non poteva non sentirsi fiera di sé; l’aveva subito predetto, che amalgamare persone tanto diverse si sarebbe rivelato ancora più entusiasmante. Erano un composto eterogeneo, non sarebbero mai diventati un tutt’uno. Non sarebbero mai riusciti a rispettare piani, allearsi senza doppi fini, dimostrarsi fedeli, mescolarsi. Erano tutti cariche opposte ma incapaci di creare legami. La sola attrazione tra coppie di soggetti non avrebbe mai portato a nulla di positivo. Li avrebbe tenuti vicini al momento del crollo finale, del colpo di vento che, come foglie, li avrebbe staccati dal loro ramo. Courtney era fermamente convinta di questo e non riusciva a smettere di ridacchiare, anche se non si sentiva ancora pienamente soddisfatta.

Jordan e Cerise tornarono nel rifugio, ma il ragazzo si sentiva estremamente diverso rispetto a quando era uscito a cercare l’altra: intorpidito, privo di forze, risucchiato. La sua pelle era fredda, gli occhi circondati da un colore violaceo che ricordava lividi, le unghie dello stesso colore. Certo, Jordan non era il tipo da divertirsi ad atteggiarsi da vittima. Non si sarebbe mai rivelato debole. Forse era proprio questo il dettaglio che lo accomunava a Cerise: l’orgoglio. Troppo forte per essere calpestato e tanto, tanto rumoroso, così rumoroso da non poter non essere sentito. Le anime di entrambi erano sottovuoto, chiuse in una sagoma plastica che teneva ben chiusi e compatti i loro colori, giusto perché chi non riesce a capirti non riuscirà mai a sapere dove la tua forza finisce.
«Cerise» disse Alejandro, il tono fermo. «Dov’eri finita?»
Jordan si allontanò da lei tossicchiando e Cerise si sentì improvvisamente inferiore e senza difese. «Qui fuori.»
«Bene» bofonchiò Alejandro. «Nuova regola: da ora ogni spostamento dev’essere reso pubblico al gruppo. Non possiamo permetterci di perdere qualcuno per capriccio. Mi capisci, no?» Lei annuì. Dopo si sentì stupida: lasciarsi sottomettere così era da stupidi, ma perché opporsi? Era sempre più stanca, su ogni fronte. Quella a cui stava assistendo era la più grande prova di coraggio a cui si fosse mai sottoposta.
«Che inezia» commentò Joseph che, a differenza di Cerise, ancora non demordeva. «Se qualcuno è talmente autodistruttivo da voler agire per conto proprio perché fermarlo? Ognuno prende da solo le sue scelte. Non abbiamo cinque anni, dovremmo tutti aver capito come gira il mondo.»
Cerise sbuffò e guardò con sdegno il ragazzo che, appoggiato spalle al muro, gli occhi chiusi e il respiro regolare, non tradiva nessun timore.
«Tappati quella bocca, Joseph.»
«Solo se con la tua, tesoro.» Cerise serrò la mascella, ma scelse di non girarsi. Era superiore a questo genere di scontri, no? Non valeva la pena approfondirli. Riconosceva che il confronto tra lei e Jordan non era per nulla diverso, eppure non riusciva a sottrarcisi. Non se lo spiegava e non voleva. Si rifiutava perfino di accogliere il dubbio che quel pensiero le suggeriva.
«Non pensi che Alejandro, dato che conosce Courtney e sa cosa potrebbe farci, sappia di cosa stia parlando?» Le parole uscirono dalle labbra di Melody più alte rispetto a quelle che aveva pensato. Ma le aveva realmente pensate? Non erano più imprecazioni contro l’ego grande quanto la freddezza di Joseph, tutte quelle urla nella sua testa? Si tappò istintivamente la bocca e tutto divenne più silenzioso. Nessuno se lo aspettava, sicuramente non da lei, sicuramente non Joseph. Aprì gli occhi e socchiuse la bocca.
«L’agnellino è diventato leone?» la schernì.
Melody impiegò qualche secondo per trovare le parole giuste.
«No» rispose alla fine. «Si è solo stancato.» Si stava perdendo, sempre di più, lo riconosceva. L’invisibilità che si sentiva addosso la uccideva. L’inutilità di cui si sentiva coperta le impediva di scacciare via i brutti pensieri. La solitudine, che percepiva sempre più vicina e pericolosa, come un ladro nel cuore della notte, la stava facendo impazzire.
«Bella uscita» mormorò Amira. Melody non si aspettava sue parole e quando riconobbe quella voce che tanto aveva cercato, sentì un battito di felicità e nient’altro all’interno della sua cassa toracica. Le labbra della ragazza esile dai capelli tinti erano incrinate e la sua espressione era indecifrabile, ondeggiava tra il divertito e il cinico. Melody stava per sussurrarle un grazie, giusto perché quello appena rivoltole era stato una sottospecie di complimento e non ringraziare sarebbe sembrato scortese, ma non riuscì a pronunciare nemmeno una lettera, perché quell’espressione mistica e tanto particolare che l’aveva colpita fin dal primo momento si era come trasformata: adesso era un sorriso, o almeno, ci assomigliava molto. Gli occhi un po’ più piccoli, gli angoli delle labbra piegati all’insù: il quadro di una dolcezza che Amira non era mai riuscita a comprendere, eppure era lì, e la stava sfoggiando. Melody si sentì improvvisamente più calma, e Amira ebbe la conferma che sì, una dimostrazione di affetto era in grado di risollevare uno spirito tormentato. Peccato solo che in lei non c’era traccia di affetto. In lei non c’era niente. Solo il vuoto.
 
«A proposito di animali» disse basso Jordan, sedendosi a terra accanto a Loup, che sentì un brivido lungo tutta la schiena.
«Il tuo nome in francese significa lupo, dico giusto?» Loup si ritrovò sorpreso. Era il primo a porci attenzione. Non se l’aspettava.
«È… vero» mormorò, l’incertezza nella voce. Non sapeva come sentirsi, in realtà: da una parte era impaurito, lo spaventava sapere che qualcuno lo volesse conoscere, forse per timore di deluderlo, forse solo per antipatia verso i rapporti umani, l’instabilità di essi e le illusioni che procurano, i mali che arrecano. Ma non poteva negarlo: si era sentito accendere. Vivo. Protagonista, per la prima volta nella sua vita. Si era sentito visto. E decise di farsi conoscere.
«Che figo» fece l’altro vacuo, abbozzando un sorriso sghembo.
«No, non tanto» ribatté Loup, tenendo lo sguardo basso sulla pavimentazione irregolare, logora e umida. «Il nome di una persona dovrebbe essere molto legato alla sua personalità» cominciò, poi Jordan lo interruppe con quel tipo di risatina pulita e vagamente fastidiosa in grado di sdrammatizzare sempre ogni cosa.
«Mica sono tutti veggenti, che possono saperne i tuoi genitori di come sarai, quando ti scelgono il nome?»
«Non è questo il punto» disse Loup. Sbuffò e si decise a guardare l’interlocutore. «Il punto è che crea aspettative. Quando qualcuno decide di chiamarti lupo è perché ti vuole forte come un lupo, il padrone di un branco, un esemplare perfetto. Se non lo sei non rientri più nel loro schema. Li hai delusi. Io li ho delusi.»
Era la prima volta che Loup diceva ad alta voce quelle parole, la prima volta che parlava dei suoi genitori senza l’ombra di rancore nei loro confronti. Non era per niente da lui autocommiserarsi così. Perse lo sguardo.
«Non ho un branco» ripeté, e il suo alito fu visibile nel freddo della sera, quasi da parere fumo.
«Non bisognerebbe mai aver bisogno di altre persone» gli disse invece Jordan. «Gli altri ti limitano e basta. Cercano di insegnarti cose che non vuoi imparare.» Poi si alzò in piedi.
«Sei un lupo solitario. E secondo me un lupo solitario è molto più libero.» Scrollò le spalle. «Prova a pensarci.»
 
Oliver si era sistemato vicino al fuoco, ma il calore emanato da questo non riusciva a scaldarlo. Era strano: sentiva un freddo gelido dentro di lui, ad una profondità tale da non poter essere sfiorato da nemmeno una scintilla di tepore. Le sue dita erano ghiaccio, trovava difficile muoverle con fluidità. Le nocche screpolate, i polsi pallidi. Si sentiva vulnerabile e infreddolito, incapace e inferiore rispetto a quel tutto che lo circondava. Si sentiva come represso, soffocato. Non riusciva più a decifrare i suoi pensieri. In cosa credeva? In cosa sperava? Quali dubbi lo tormentavano? Erano così tante, le incertezze… ed era così pesante da sopportare, il baratro del fallimento… Stringere i denti risultava molto più difficile che lasciarsi trasportare dalla corrente.
«Hey!» La voce squillante di Damerae lo destabilizzò. Sospirò, lievemente sollevato dalla realizzazione di non essere ancora diventato invisibile.
«Ciao» lo salutò. Accennò un sorriso, ma le sue parole risultarono flebili.
Damerae arricciò il naso. «Amico» disse con un accento strascicato. Si sedette a terra, ma sovrastava ancora Oliver di qualche spanna. Il riccio appariva tanto demotivato che Damerae si ritrovò a posargli una mano sulla spalla senza nemmeno rendersene conto.
«Cosa ti succede?»
Oliver scosse la testa e affrettò un: «Niente» per nulla convincente.
«Mh» borbottò l’altro ragazzo. «Mi puzza un po’.» Spostò lo sguardo sul fuoco, che si rifletteva nei suoi occhi scuri e gli illuminava la pelle. Un ricordo lo fece sorridere istintivamente. «Come la minestra della mamma.»
Oliver non sapeva se l’altro si stesse divertendo a prenderlo in giro o se fosse davvero tanto semplice e ingenuo.
«Scusa? Non ho capito» mentì. Damerae si grattò la fronte e si lasciò scappare una risatina nervosa.
«Sì, insomma…» cominciò a spiegare, un po’ imbarazzato. «La mamma cucinava una volta a settimana, tutti i lunedì, una zuppa. Non era cattiva, perché tutte le verdure le raccoglieva lei stessa, dal nostro orto, ma l’odore… era davvero… per niente delizioso, proprio per niente.» Scosse la testa, come improvvisamente nauseato.
«Mi chiedo se la cucini ancora… tutti i lunedì… proprio come un tempo.»
Oliver spostò l’attenzione sulle sue mani e sfregò tra loro i palmi. Le prime parole che gli erano venute in mente erano state: “Potresti non saperlo mai, potresti non rincontrarla più, la tua vita potrebbe essere finita e tu non te ne sei neppure accorto, per ora”, ma alla fine aveva scelto di non proferirle. Non voleva urtare la sensibilità dell’altro ragazzo. Era tanto alto, Damerae, tanto muscoloso… ma il suo cuore era talmente grande e nobile. Oliver temette che una sua espressione potesse lasciar trapelare queste parole, così dolorose, e preferì non guardarlo. Infondo sapeva bene cosa voleva dire essere sensibile, ne era un esempio lampante. Sapeva quanti aspetti negativi comportasse.
«Oliveeeer!» Ma era una scarica di calore, quella che aveva appena avvertito? Oliver si convinse di sì. Quella voce, così pulita, lo risollevava puntualmente dalle tenebre. Sorrise a Ruby, che camminava verso di lui serena in viso.
 

Risurrezione, RISURREZIONE!
Ho avuto tanti impegni, tanti imprevisti e tanti pensieri. Tutto insieme non mi ha concesso né tempo né strumenti per continuare la storia (fino ad oggi, almeno). Si tratta di un progetto lungo e complesso, necessita di tanta, tanta organizzazione. Spremersi le meningi in minuscoli ritagli di tempo non avrebbe portato nulla di buono, ed è per questo che ho optato per aspettare l’attimo giusto. E FINALMENTE E’ ARRIVATO! Dato che è da un bel po’ che non ci lavoravo adesso devo riprenderci la mano e riacquistare il giusto ritmo, ma mi auguro sarà un work in progress :) Vi prometto il mio impegno. Intanto in questo nono capitolo possiamo notare coloro che si stanno lentamente lasciando andare... TO BE CONTINUED! ^.^
Al prossimo capitolo (e fatemi sapere come al solito cosa ne pensate, non abbandonatemii!) T.T

Alyeska707
   
 
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