Fanfic su artisti musicali > Avenged Sevenfold
Ricorda la storia  |      
Autore: Queen of Superficial    24/11/2016    4 recensioni
“Non ce la faremo mai.”, gli dissi, soffiando via una voluta di fumo grigio perla. “Non esiste un modo in cui io e te possiamo sopravvivere a questo.”
Lui buttò gli occhiali da sole con le lenti a specchio sulla scrivania, colpendo un portafoto che vacillò appena: sobbalzammo entrambi. 
“Dobbiamo andare.”, disse infine. Stavamo dimostrando più coraggio di quello che di solito è richiesto per procura a chiunque voglia affacciarsi al mestiere di vivere cercando di proteggere i fragili, di difendere i meno forti.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Matthew Shadows, Nuovo personaggio, Synyster Gates, The Rev, Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

“L’écume des jours”

 

Guardavo dritto negli occhi di quella fotografia: se l'avessi fissata abbastanza a lungo, pensavo, magari li avrei visti riprendere vita.
Tutto quel che accadde, dopo intensi secondi, fu che l'immagine iniziò a sdoppiarsi: sempre bidimensionale, cartacea, morta.
Più tenevo i miei in quegli occhi da serpente, più loro mi restituivano lo sguardo; e una falsa speranza.
Avrei potuto scriverne per ore: scrivere, scrivere, scrivere, l'unica cosa che sapevo fare era mettere parole in fila, accatastarle l'una sull'altra fino a che, pericolanti, non si sfasciavano al suolo.
Che me ne potevo mai fare, io, di sillabe spezzate? Di fotografie deformate da mani nervose, strette nel pugno con una sigaretta tra le dita, fumo grigio contro orizzonte nero puntellato di luci, luci in case di gente viva, gente inconsapevole del privilegio che, senza meriti, gli veniva accordato.
Antico e tentatore come il peccato; altrettanto divertente, se non peggio, se non addirittura ironico, ammalato di una vecchia leggerezza terminale che non abitava più né le mie mani né i miei pensieri.
“Ho prenotato il ristorante”, avevo detto al telefono. Ho prenotato il ristorante in un determinato giorno, noto a tutti e caro a nessuno, ho detto, fumando, sforzandomi di allontanare gli occhi dalla tua fotografia pur sapendo che la tua fotografia non li allontana un attimo da me.
“Perché proprio quel venerdì?”, mi hanno chiesto, dall'altra parte.
“Perché ci sarà la neve, e il venerdì è comodo a tutti.”, ho risposto.
Avrei voluto rispondere: perché ho bisogno di tutti, davvero, tutti voi intorno, più stretti e caldi e rumorosi possibile; ho bisogno che parliate di filologia, ingegneria e vacanze, di neve e mezze stagioni, di cocktail di gamberi e flute inutilmente lunghi ricolmi di liquidi inutilmente alcolici, ho bisogno che diciate qualunque cosa, ma non quella. Vorrei che non ci portassimo quella fotografia, tanto ce la ricorderà comunque ogni cosa, quel giorno. La vedrò nelle rocce appena innevate, nei fiori solitari, nelle macchine parcheggiate male, nei cani randagi, sulle facciate delle case fatiscenti, agli svincoli dell'autostrada, nel cielo, nel bicchiere d'acqua, nel piatto di funghi; la vedrò nel mio riflesso nello specchio ogni volta che ci poserò gli occhi.
No, non mi serve riposo: mi serve una seduta di ipnosi.
Ho bisogno di rumore, di impegni, di cose da fare affastellate l'una sull'altra; ho bisogno di un florilegio di cose di cui non ho bisogno, mi distraggono. Respiro. Per questo stavo organizzando quella vacanza, quel ristorante, lontano anni luce da lì, per un giorno qualsiasi che un anno prima aveva significato l'orrore.
Quando la fotografia era una persona non riuscivo a staccare gli occhi neanche da lei. Ogni volta che incrociavamo gli sguardi quelli si piantavano dentro i miei, scavando così a fondo che potevo sentire le unghie di Dio scavarmi i più profondi, reconditi recessi dell'anima: i cassetti in cui c'erano le cose che non dicevo a nessuno, che mi rifiutavo perfino di pensare. Era una liberazione lasciarle andare, fluire in altri occhi, per una volta.
Un ballo lento e intimo su una canzone che non piaceva a nessuno dei due. Un tramonto durante il quale ti avevo appoggiato improvvisamente la testa su una spalla, e quel gesto mi aveva fatto saltare il cuore in gola più di qualunque bacio e qualunque spavento della mia vita. Parole sussurrate fronte contro fronte: “Non importa. Non pensarci. Dio, detesto i broccoli.”
Il giorno in cui mi hai detto che ero la persona più fuori di testa che avessi mai incontrato. Ho pensato che mi avevi vista, vista davvero: mi hai dato una forma, una dimensione che avevo cercato, invano, per tutta la vita.
Non ti ho mai fatto promettere che non te ne saresti mai andato; comunque, non lo avresti fatto; peraltro, se ne vanno anche quelli che promettono. Soprattutto quelli che promettono.
Una sera, sopra un divano, mi hai detto dietro un bicchiere di vino che vivere non serve a niente. Lo credevo anche io: ho messo le gambe sulle tue, in silenzio. Ho scoperto poi, te lo volevo dire, che in realtà vivere ha – o ha avuto – una sua utilità illogica ma effettiva: te. Vivere è stato te, per molto più tempo di quanto tu riesca a immaginare. Di quanto io riesca a immaginare.
Stavamo filtrando un tè dissidente, avevo gli occhi su una pila di fogli che gridavano a gran voce “correggimi, correggimi”: ho preferito te. Guardarti combattere con le foglie thailandesi come se fossero un’idra a tre teste; ho acceso una sigaretta e ti ho detto che non sapevi neanche fare il tè. Mi hai sorriso, perché sapevi che quello che facevi, e cioè plasmare me, era un'impresa di gran lunga più ardua di qualunque infuso recalcitrante.

“Te la immagini, la vita che avremmo potuto vivere?”
Stai zitto e tirami fuori di casa.
Non respiravo.
Se fossi stato qui, lo avresti fatto. Con un colpo di frusta della mano avresti spento a schiaffi la brace della sigaretta che mi cade sempre sul divano quando leggo, o scrivo, o rifletto con gli occhi fissi dentro microscopiche crepe nel muro che vedo solo io, come tutte le crepe di qualunque genere, sempre.
Sempre.
Che brutta parola. Adatta forse a certi tipi di alberi, a certi tipi di madri, di nonne, di donne, ma non a noi. Noi non siamo né dei sempre né dei mai, non siamo dei poi, e dei nonostante.
Poi, nonostante tutto, nonostante me, le tue braccia mi avrebbero circondato come una coperta calda, come una rete contro la caduta massi sul fianco di una montagna, come un giuramento, la voce di un prete durante una messa battista nel cuore dell'Africa, come le ninnananne sussurrate sopra una culla.
Tu non credere che non ci pensi mai, se dicessi il contrario ti mentirei, nello specchio mi inchioda il ritratto di Dorian Gray.
Eternamente giovane. Bellissimo, dentro le rughe intorno ai miei occhi. Me ne stavo lì, paralizzata sulla porta con i tuoi occhiali da vista in mano. Non avevo ancora pianto; mi trovavo in quel limbo surreale di realtà in cui, appena dopo che ti hanno strappato il cuore, ti sembra che non ci sia alcuna differenza con il prima. Lo shock della tua perdita mi ha colpita allo stomaco molto prima di raggiungere il punto dove, una volta, c'era il mio cuore. Sono caduta in ginocchio, e l'unico suono che ricordo è il sottile plin dell'ascensore al piano, e ho iniziato a piangere così forte e così disperatamente che mi era impossibile percepire perfino il suono della mia stessa voce dilaniata dal dolore. Una mia amica aveva perso her significant other qualche anno prima, e mi aveva descritto con dovizia di particolari il susseguirsi delle sensazioni che l'avevano assalita: rabbia, sgomento, solitudine, negazione, disperazione. Io cercavo di riprendere il controllo richiamando alla mente quei racconti, cercando di identificare quello che mi stava accadendo, di circoscriverlo, di dargli un nome; non riuscivo a trovare disperazione, in me, però. Non c'era sgomento, né rabbia, né negazione. Era un dolore così sordo e così devastante da non poter essere descritto a parole. Un buco nero, oscuro, vuoto, un risucchio cosmico come la turbina di un motore che mi trascinava in sé e io, piccola, fragile, sola, sbattevo tra le sue pareti di cristallo, infrangendole in un crescendo di suoni orribili, assordanti. L'orrore vivido, vero, il terrore ancestrale, ghiacciato e implacabile. Più piangevo, più si apriva in me quella voragine senza terraferma alla fine. La nostra vicina, fuori dall'ascensore, si era buttata in ginocchio davanti a me e mi teneva tra le sue braccia sussurrandomi parole di conforto, ma la percepivo appena. Aspettavo quel momento. Aspettavo con ansia l'attimo in cui tutto sarebbe stato troppo e io sarei crollata a terra, svenuta, priva di sensi, ma quel momento non arrivava. Questo è un vuoto che non conosce requie, neanche il sollievo di una morte apparente. Più diventava insopportabile, più mi accorgevo con orrore di essere perfettamente in grado di sopportarlo, e quel vuoto buio mi attirava a sé, mi risucchiava, mi avviluppava nelle sue spire. Avevo bisogno di te né più né meno di quanto ne avevo avuto bisogno in vita; non eri diventato improvvisamente indispensabile, lo eri sempre stato, ed era questa la cosa peggiore. Quella con cui non sarei mai riuscita a fare i conti. Tutto ciò per cui valeva la pena di spostare il divano e accendere il forno mi era stata strappata in maniera così brutale e priva di senso che non sapevo proprio come affrontarla, da che parte prenderla. Mi ripugnava l'idea di un'altra persona, qualunque altra persona, accanto a me in quel momento. Per cui, con la forza della tua rabbia, non della mia, mi alzai in piedi svincolandomi dall'abbraccio della signora Potter. Mi alzai in piedi e barcollai dentro i leggings neri, dentro la camicia bianca troppo grande e troppo leggera per quello stranamente rigido inverno, poggiai una mano smaltata di rosso sul tavolino a muro dell'ingresso e con l'altra mi asciugai il viso, graffiandomi con le chiavi della macchina. Finalmente, la voce della signora Potter mi arrivò alle orecchie.
“Ti serve qualcosa?”
“Un miracolo.”, le risposi, con una voce metallica che non sembrava neanche la mia.
Poi chiusi la porta di casa e andai in camera da letto. Spalancai il tuo armadio e tirai giù una felpa. Quando il tuo migliore amico arrivò, ero seduta sul letto che fumavo una sigaretta con la tua felpa stretta nel pugno. Guardavo il vuoto, il nulla, il nero che mi aveva presa alle spalle poco prima.
Avrebbe potuto dire qualunque cosa delle diecimila che si dicono per rendere tollerabile un dolore in comune, ma non disse nulla. Si sedette accanto a me e prese una manica della felpa, rigirandosela tra le dita con una malinconia così spessa che quasi confinava col vapore.
Country road take me home to the place I belong, take me home, country road.
“Non ce la faremo mai.”, gli dissi, soffiando via una voluta di fumo grigio perla. “Non esiste un modo in cui io e te possiamo sopravvivere a questo.”
Lui buttò gli occhiali da sole con le lenti a specchio sulla scrivania, colpendo un portafoto che vacillò appena: sobbalzammo entrambi.
“Dobbiamo andare.”, disse infine. Stavamo dimostrando più coraggio di quello che di solito è richiesto per procura a chiunque voglia affacciarsi al mestiere di vivere cercando di proteggere i fragili, di difendere i meno forti.
Uno stormo di uccelli si involò alto nel cielo oltre la finestra. Mi sorpresi a reprimere l'impulso di afferrare la mano di Matt e stringerla forte contro il mio petto, approfittando di quel momento irreale in cui eravamo soli, abbandonati a noi stessi, come due frecce cadute nel bosco.
Ingoiai un blocco di orrore che sentii scendere chiaramente giù per l'esofago e cercai di non vomitare.
“Puoi... Puoi restare qui se vuoi, non devi per forza-”
La presa lieve ma decisa con cui la mia mano inanellata chiuse le sue labbra mi ipnotizzò. Il tintinnio dell'anello che portavo all'anulare, leggerissimo contro i suoi denti impegnati a convincermi che non c'era bisogno che io mi sottoponessi a quello strazio.
Mentre scendevamo le scale e l'aria fredda mi frustava la pelle attraverso la camicia e il maglione di lana grossa che portavo addosso come se potesse farmi da scudo contro il mondo, mi assalì il ricordo vivido di te che salivi di corsa quelle scale, correndo da me che ti aspettavo in cima. Non sei il tipo che porta fiori, ma quella sera hai fatto un'eccezione. Un enorme mazzo di rose rosse e gialle, pieno, rigoglioso, vivace. Così, senza un motivo particolare. Senza una ricorrenza a giustificare il gesto, una qualunque scemenza, un compleanno. No, così. Perché ti andava. Ti andava di sollevarmi tra le braccia e farmi volteggiare, abbattendo un paio di soprammobili. Ti andava di spingermi sul divano e strisciarmi addosso, mordendomi i vestiti per farmeli togliere. Ti andava di stringermi, dopo, mentre rischiavamo di cadere dal divano troppo piccolo per tutti e due, nel buio, a luci spente, con il battito del tuo cuore che si calmava lentamente sotto la mia testa, indicandomi il Piccolo Carro.
Avevamo deciso di dipingere il soffitto con le costellazioni, chissà poi perché.
Sei viva dentro l'infinitesimo, ripetuto fino al millesimo, ultimo istante d'armonia.
Camminammo fino all'auto e io tolsi il maglione, perché non c'era indumento che potesse più difendermi da quel freddo feroce che avevo dentro di me, e il meteo del mondo fuori era ormai ben poca cosa. La mia fronte di ragazza bruciava, mentre la brace di una sigaretta stanca illuminava a intermittenza parte del mio viso. Matt guidava e cercava di parlarmi; io non riuscivo a sentirlo. La mia attenzione aveva un vantaggio di otto miglia su di me, mi stava aspettando nell'unità terapia intensiva di un ospedale della California.
Con il petto dilaniato da un'insopportabile canzone di Simon & Garfunkel, nessuno dei due aveva il coraggio di cambiare stazione radio.
Silence like a cancer grows.
I miei occhi rossi e miopi scrutavano la strada.
“Non devi farlo tu, love.”
Love, mi chiamavano tutti love, quegli assurdi ex ragazzi tatuati e afflitti da una fantasia surreale e deviata del sud della California, tranne te. Tu usavi il mio nome. Era il tuo modo di chiamarmi sul serio amore.
Si riferiva all'atto orribile di staccare i tubi che seguitavano caparbi a tenerti in vita, seguendo la nostra volontà egoista e frastornata. Heroes di David Bowie ci colpì come una frusta e ci scambiammo uno sguardo sgomento. Lui ha un figlio, pensavo, una moglie, non posso dirgli sterza e punta il guardrail. Magari lo avrebbe anche fatto, e saremmo volati giù per diversi metri prima di schiantarci nell'acqua gelida del Pacifico. Allora avrei chiuso gli occhi e ti avrei tenuta aperta la porta. Qualcun altro avrebbe disinnescato i fili, spento le macchine, qualcun altro ti avrebbe lasciato andare, ma io sarei stata lì ad aspettarti.
Last night I dreamed that there would be a morning after. Long days, sunshine and peace, long nights of love, forgiveness and laughter.
Non c'era cura per quel gelo che mi strangolava il cuore. Pensai agli occhi di suo figlio e trovai una ragione per essere meno egoista. Accesi un'altra sigaretta. Pregai di morire, in qualunque modo, da sola. Dove sta questo Dio che non ci dà mai più di quanto possiamo sopportare? Dov'era l'amaro capitano, il delicato aneurisma, il silenzioso blocco cardiaco che mi avrebbe fatta scivolare nella pace, dove potevo smettere di pensare, smettere di essere tormentata dal mio fantasma nello specchio? Il tragitto per l'ospedale sembrava così lungo.
Squillò un telefono, facendoci sobbalzare. Rispose premendo un pulsante sull'auricolare. Pensa tu, siamo arrivati a tali livelli di tecnologia eppure non sappiamo come aggiustare il cuore di un trentenne. Strinsi gli occhi così forte che una miriade di luci bianche si assiepò dietro le mie palpebre. Ferma, in silenzio, mi inghiottirono le vertigini.
Nel cortile dell'ospedale la sagoma alta, affilata e stordita di Brian non stava ferma sui propri piedi, continuava a spostare il peso. Mentre un altro da quelle parti singhiozzava senza posa, il silenzio di Brian mangiava lo spazio circostante con la potenza di un urlo nella notte. Scesi dalla macchina senza degnare Matt di uno sguardo, feci dieci metri, arrivai davanti a lui che piantò nei miei due occhi rossi cerchiati di scuro, uguali uguali ai miei. Senza dire nulla, gli offrii il conforto delle mie braccia, un conforto che non potevo dargli. Non mi aveva abbracciato neanche al suo matrimonio, ma quella volta lo fece. Abbassò la testa sulla mia spalla e l'eyeliner mi macchiò la camicia. Mi strinse così forte che il contatto con quel corpo che mi era così poco familiare lanciò una scarica elettrica di sgomento nella mia spina dorsale.
Una testa bionda platino frustò l'aria correndo fuori dall'accettazione; andava così veloce che non attese neanche la completa apertura delle porte automatiche, conseguendo il non indifferente traguardo di bloccarle a metà. Vide i capelli di scuri di Brian in mezzo ai miei, appena sopra la mia spalla, e non disse nulla. Fu allora che me ne accorsi. Un'aria diversa intorno a noi, strana, fragrante e attonita. Il freddo dell'inverno, troppo rigido per quella parte dell'America, che fino ad allora non avevo neanche sentito, mi inondò in tutta la sua inusuale potenza. Brian alzò due occhi lucidi su di me. Non disse nulla, ma lo sentii. Ci guardammo cercando di parlare, ma avevamo scordato come si facesse. Un po' di tempo prima avevo iniziato a correre ogni notte. C’è un momento in cui senti la spinta che parte dal tallone e si riverbera su, su, fino ad attraversare la gamba. E’ chiarissima la sensazione del quadricipite in tensione, riesci quasi a vedere il tuo scheletro in movimento, tutti i muscoli che collaborano ordinati per accompagnare il gesto, e ti senti una macchina perfetta. Una macchina non guasta, progettata per vincere, per arrivare dove vuole arrivare: quando corri, superato il confine della fatica che ti fa sentire tutto il peso degli anni addosso, funzioni. Questo, immagino, il motivo per cui le mie gambe partirono prima della mia testa. Quando realizzai quello che doveva, per forza, stare accadendo, ero già in movimento, e valicavo come una furia un numero imprecisato di corridoi bianchi illuminati dal neon asettico.
Tornavo dalle mie corse sotto la luna e ti trovavo semi-steso sul divano, con gli occhiali in punta al naso e diecimila fogli sparsi sulle ginocchia, o un libro che stavo leggendo io e che tu sfilavi dal mio comodino quando ero intenta a fare altro. Erano testi vissuti, sottolineati, ingombri di riferimenti scritti a penna ai margini dei fogli. “Perché leggi sempre i miei libri?”, ti chiedevo, arrancando verso la doccia con il fiato corto. Tu sorridevi come una sfinge, come un serpente. “Perché voglio sapere anche quello che non mi dici.” Soffocavo, in quei momenti, da quanto amore sentivo per te. In quel periodo in cui non c'eri stato più ho letto molto. Appena finivo un libro, lo appoggiavo sulla tua parte di comodino. Ma io sono sempre stata una pragmatica razionalista. Non mi è mai piaciuto crogiolarmi in false speranze. Conosco bene il dolore di quando vengono disattese, e da qualche anno ero sono più disposta a provarlo.
L'uomo che ho travolto alla fine della corsa era tuo padre. “Joe”, ho esalato senza fiato, eccedendo nelle vocali come se quello dovesse essere il mio ultimo respiro. Tuo padre aveva gli occhi accesi da un fuoco che a noi, atei e intellettuali, era una consolazione preclusa.
Due infermiere sensibilmente più basse di me mi stavano spiegando che non potevo entrare, ma io avevo le gambe lunghe. “Vieni a mettere quel chilometro di gambe qui sul divano insieme a me, forza.” Guardavamo film sui supereroi che ci facevano cagare. Scoppiai a ridere all'improvviso, nella sala d'attesa. Scavalcai le infermiere e mi buttai oltre le porte della tua stanza. Il medico che ti stava visitando sobbalzò e si voltò indignato a guardarmi, ma poi mi vide e la sua espressione si addolcì infinitamente. Non soltanto mi conosceva bene, ma aveva anche fatto un po' il cretino. Contavo di dirtelo, dopo. Contavo di dirtelo anche quando ero convinta che non avrei mai più potuto dirti nulla e guardare i tuoi occhi ricoprirsi di ghiaccio, cercando di trattenere la gelosia.
“Signorina.”, disse il medico con una punta di delusione, chiudendo con uno scatto la tua cartella clinica.
Non esisteva: in barba a tutta la letteratura mondiale, non mi sarei mai innamorata del tuo dottore. Non mi sarei mai più innamorata di nessuno, dopo di te.
Mi avvicinai al letto a passi lenti e una volta lì ti passai una mano tra i capelli, sentendoti rispondere leggermente al tocco con movimenti timidi del viso.
“Domani mattina avremmo staccato la spina.”, disse il Dottor Donovan, “Abbiamo ricevuto la grazia di un miracolo.”
Il tuo respiro appannava la mascherina. Lentamente, delicatamente apristi gli occhi e li puntasti su di me, strappandomi dal petto un sospiro frammentato di sollievo.
“Non lo affatichi.”, mi disse.
Io non avevo parole. Non mi veniva in mente nulla. Avevo provato a pensare a cosa avrei detto al tuo funerale, ma l'idea mi strappava la carne dalle ossa pezzo per pezzo. Scossi la testa, schiudendo le labbra. Mi guardavi. Volevo dirti che ti amavo, che ti amavo più della mia vita e che tutto quello che dicevano in tono melodrammatico nei libri che tanto mi piacevano era vero, che era vero l'horror vacui, il terrore del vuoto, che le persone che perdono qualcuno che amano marciscono lentamente dall'interno, che tutto perde colore, che mi ero sentita morire, che avevo desiderato morire con tutta me stessa, quando avevo creduto di averti perso.
“Non farlo mai più, cazzo.”, ti dissi invece. Provasti a ridere. Poggiai le mie labbra sulla tua fronte. Era tiepida. Di tutti i baci che ti ho dato, innumerevoli, quello è stato il più potente. Tutto quello che eri per me vibrava attraverso quel bacio, e tu lo sapevi. Chiudesti gli occhi, sospirando.
“E' meglio lasciarlo riposare. Potrà stare con lui domani mattina.”
Mi voltai verso il dottore, detestandolo. Non mi andava di lasciarti più, neanche per un secondo.
Il medico respirò lentamente. “Ce lo faccia almeno sistemare per la notte. Potrà stare con lui, se vuole.”
Ti guardai, con i tuoi capelli tra le dita.
“Torno tra poco.”
Mi portai i tuoi occhi azzurri con me, fuori dalla stanza. Il dottore mi aprì la porta e io mi voltai a guardarti: gli lanciasti la peggiore delle occhiatacce che riuscisti ad organizzare, vista la situazione. Sorrisi. Appena fuori, mia madre mi prese la testa tra le mani. “Abbiamo pregato tanto.”, disse, afferrando la mano di tua madre.
“Bravi. Grazie.”
Sempre sul divano, mai sopra un tavolo, a volte ricoprivi fogli di carta con quella tua sgangherata grafia da liceale ribelle che non ne aveva mai voluto sapere di consegnare i compiti in tempo. Ti chiedevo sempre cosa facessi, anche se lo sapevo già. “Butto giù qualche idea.”, rispondevi, senza distogliere lo sguardo dalle righe che cancellavi e riscrivevi con un ritmo tutto tuo. Mi tornò il mente il suono ovattato della tua batteria in garage, mentre io due piani più in alto cercavo di studiare per qualche noiosissimo esame. Quando non ne potevo più di quel sottofondo costante, scendevo in cucina a prendere da bere e ti raggiungevo di sotto. Non ti spaventavi mai, neanche quando ti stringevo abbracciandoti alle spalle, scostandoti i capelli sudati dal collo, passando le dita sulle manette tatuate, premendo il mio seno contro la tua schiena tesa. In un angolo del garage c'era il vecchio divano che dicevamo di dover buttare da secoli, soprattutto a tua madre, quando veniva in visita e si chiedeva sistematicamente perché fosse ancora lì. Ma in fondo lo sapeva lei e lo sapevamo noi il perché dell'ostinata permanenza di quel vecchio oggetto lì sotto. Non ti arrabbiavi mai quando spuntavo a interromperti mentre suonavi. Ti voltavi a baciarmi e le tue labbra sapevano di sale, poi ti alzavi in piedi e mi sollevavi tra le braccia come se fossi stata una piuma, e mi portavi su quel divano. Non sono più scesa in garage da quando non ci sei più stato. Ho chiuso la nostra casa con la vista sulla spiaggia e me ne sono andata nella mia vecchia casa in città, dove stavamo quando tutto era troppo e avevi bisogno di altro che non fosse l'odore dell'oceano e il suono dei clacson delle auto dei nostri amici. Non avrei mai potuto guardare quel divano, la stoffa rovinata dai graffi delle mie unghie, i cuscini deformati dal peso di tutti e due. Una sera, quando non c'eri, un'amica che aveva da poco perso il marito mi convinse a uscire con lei. La guardai passarsi un uomo dopo l'altro, nella penombra del locale. Beata lei, avevo pensato, beati quelli che riescono a mandare via in questo modo il dolore.
Travolsi Brian nel cortile. Brian stava pensando ad ogni volta che si era svegliato con la granitica certezza che aveva finito di vivere. Rotolammo nell'erba umida del praticello che delimitava le curve della passerella per le auto. Nella macchina di Matt la radio era accesa e noi cantammo, stonando tantissimo. I will love you baby, always... And I'll be there forever and a day, always. Ridemmo fino alle lacrime, abbracciati. Non lo avevo mai visto così, né lui aveva mai visto me. Eravamo uno scenario insolito per tutti gli amici assiepati nel cortile, in attesa. Presto ci saremmo alzati con i vestiti macchiati di verde, scuotendoci qualche fogliolina di dosso, e avremmo riacquisito le espressioni da statue con cui ci ricordavano tutti. Non so se lo sai, ma Brian ha odiato un po' tutte le tue fidanzate. Tutte, tranne quella a cui stavano ancora sbiadendo i lividi sulle braccia perché qualcuno aveva dovuto stringerla così forte da spezzarle i capillari per farla calmare, quando ci hanno detto che non ti saresti più svegliato. Quando ci alzammo dal prato, mi porse una mano per aiutarmi. Scoppiammo a piangere quasi all'unisono, mantenendoci a vicenda, l'uno nelle braccia dell'altra. Piangemmo in modo così cristallino e disperato che frotte di paramedici sciamavano fuori dall'unità del pronto soccorso, sbigottiti, a vedere cosa stesse succedendo.
“Devo risalire.”, dissi, accettando una sigaretta accesa dalle mani di qualcuno.
“Ti lasciano restare con lui?”, mi disse una voce.
“Ha sedotto il dottore.”, rispose Brian con una Marlboro tra i denti, “Non sono certo che Jim approverebbe.”
“Non ho sedotto nessuno, ha fatto tutto lui.”
“Stai zitta, love.”

Funziona così la fine della guerra; non te ne accorgi, niente la annuncia. Non c'è modo in cui tu possa renderti conto di essere fuori pericolo, lontano dalla trincea, via dalle bombe. La eco del suono dei cannoni ti accompagna per molto tempo dopo la fine di una guerra, nessuno è mai riuscito a dire con certezza quanto. Le scale erano gelide e inospitali, mentre tornavo da te in stanza. Tra il secondo e il terzo piano mi piombò addosso come una secchiata d'acqua tutto quello che era accaduto davvero; non ce l'avevo più dentro ma davanti, e lo guardavo in tutto il suo orrore. Ho immaginato che sarebbe stato così anche se avessimo dovuto staccare quelle spine. Dopo, mi sarei ritrovata davanti a un fatto inconfutabile e granitico, spesso come l'odio, pregnante come la paura: indipendentemente da come sarebbe finita, avrei dovuto fare i conti con quello che era accaduto.
Nella stanza d'ospedale tu dormivi, e io ribollivo di sottintesi, di pericoli scampati. Guardavo il vapore del tuo respiro appannare la mascherina, lo guardavo fisso come se fosse una palla di cristallo, una garanzia che saresti rimasto lì. Non ricordavo la prima volta che eravamo stati a letto insieme. La gente si inventa una marea di dettagli, dice di ricordare con esattezza i suoni, i colori, la sensazione delle mani... Non penso che qualcuno sulla Terra abbia mai amato un altro essere umano più di quanto io abbia amato te, quindi non ci credo. Sai cosa ricordavo io, invece? L'odore della nebbia del mattino. Non era neanche nebbia, era più un'aria che aveva acquisito la consistenza della rugiada. Tu dormivi. Tantissimo. Non sembravi un angelo, sembravi un batterista sfinito da una settimana di prove e da una notte di sesso. I capelli erano un tale disastro sul cuscino, gli occhiali erano finiti a terra, in mezzo ai miei vestiti, e la tua maglia ce l'avevo addosso io, alla finestra, pagando il dazio a una consolidata tradizione cinematografica di notti brave. Ti eri aggrovigliato nelle lenzuola in una maniera improponibile, che nessuno sarebbe mai riuscito a riprodurre neanche applicandosi severamente. Ah, la felicità... La guardavo respirare attaccata a un tubo, in una stanza d'ospedale, e aveva una cicatrice sul petto e gli occhi blu. Poi ti svegliasti per guardarmi, uno sguardo lungo, serio, appannato dal sonno. Da solo, staccasti la mascherina dal viso per parlare.
“Piccola. Come stai?”
La risata mi partì dal petto prima ancora che io potessi accorgermene. Baciare di nuovo le tue labbra, labbra vivide, labbra vive, labbra tiepide. Sentire la tua mano che giocava con i miei capelli. Vedevo le vele nere della guerra allontanarsi da noi, lacrime nella pioggia, aggrappati a una vita che non eravamo stati disposti a lasciar andare.
“Voglio portarti fuori di qui.”
Dopo aver vinto il cielo e battuto l'inferno.
Strinse la sua mano nella mia e il cielo riacquistò stralci di colore che fino a quel momento non avevo mai notato. Non avrei saputo dire quanto amassi vederlo sbuffare via i capelli dal viso, o sistemarseli dietro l'orecchio, quanto ogni singolo centimetro di lui mi fosse caro oltre l'immaginabile.
Brian ha bussato alla porta alle prime luci dell'alba con una solennità da chiesa. È entrato a passi lenti, misurati, avanzando verso il letto come se avesse paura di vederlo svanire davanti ai suoi occhi. Vi ho lasciati soli, perché ne avevate bisogno. Vi ho lasciati soli e sono andata a bere il caffè. Sapevo di non essere in grado di vivere senza ricordare, e l'idea della vita che mi attendeva se te ne fossi andato mi paralizzò tutti i pensieri. 

 

La vita disattende le speranze e divora i giorni in qualunque caso, e a qualunque latitudine. Noi non facevamo eccezione. Abbiamo sbagliato a pensare di essere un caso particolare, anche quando lo siamo stati davvero, e per il meglio. Preparati al peggio, guardavamo l’Universo scorrere da dietro una trincea, ma questo non ci ha certo risparmiato il dolore. Il dolore ha spire e non aghi, mio tesoro, a differenza della sofferenza; il dolore non è una creatura anguicrinita come la rabbia. È caldo, confortante, all’inizio, ti fa sentire in credito con Dio per quel che ti è stato tolto; più avanti, man mano che la sua morsa inizia a stringere, il tepore prima gradevole diventa soffocante, annullando per conseguenza tutto il resto. Perché c’è sempre un resto, vedi. Ci sarebbe stato anche per me, se ti avessi perduto. Ma a cosa sarebbe valso, quel resto? Avrebbe aggiunto giorni stanchi ad altri giorni stanchi, ed io avrei serrato gli occhi di fronte a tutto. Come quando mi dimenticavo di me stessa e finivo a fare cose che non mi davano alcuna gioia; come quando ho dovuto imparare, con fatica, a funzionare su più fronti per conservare quello che di me mi ero immaginata migliore di tutto quel che mi poteva capitare, e ho scoperto che quello significava crescere, e vivere - imparare a conservare. Ecco perché mia madre e mia nonna ci tenevano tanto al gesto metafisico che stava dietro quello banale di mettere una pentola sul fornello per bollire la frutta e trasformarla in marmellata; tutto questo era, silenziosamente, conservare

 

Quel giorno sono uscita in cortile. Pensavo a un libro che non ho mai avuto il coraggio di leggere, del genere che tu non hai mai apprezzato; troppo poco sangue, liriche troppo sottili. Si chiamava La schiuma dei giorni, di Boris Vian. Parlava di una storia d’amore e di lei, che lui non poteva salvare, perché aveva una malattia rara che le faceva crescere un fiore nei polmoni. Soltanto questo, io sapevo, di quel libro di cui non ho mai letto una riga. Accesi una sigaretta e mi coprii gli occhi con i palmi delle mani, sapendo che non avevo fatto altro che pensare e pensare a quel fiore nei polmoni per tutto il tempo che tu sei stato lontano. Mi chiedevo se, semmai fossi morto, aprendoti il torace avrebbero scoperto una rosa tra i ventricoli del tuo cuore; vedevo il corridoio bianco e asettico di un ospedale e un medico in piedi, tra i neon abbaglianti, darmi la notizia che l’amore della mia vita se n’era andato perché era così profondo, così pulito e così fertile che perfino i fiori volevano abitare in lui, così come lo volevo io. Che una rosa solitaria, rossa come il sangue e gialla come il sole, aveva scelto il suo cuore al posto di un qualunque prato per mettere radici. No, avrei detto alla rosa, guardandola in una teca sterile, c’ero prima io, ma sarebbe stato inutile. Ero crollata a sedere sul marmo scheggiato di uno scalino, pensando a quella mia amica che sognava le piazze delle città annegate in bagni di sangue, senza riuscire a versare una sola lacrima di sollievo per la grazia di aver potuto abdicare allo spavento profetico che quel pensiero del fiore di Vian di cui non riuscivo a liberarmi mentre tu stavi male mi piantava nel petto. Più cercavo di allontanare l’immagine della rosa nel tuo cuore da me, più quella tornava, prepotente, con una tale ostinazione da assumere i contorni chiaroscuri di una sentenza. Non era stato così, tu eri vivo, e gli unici fiori che avevamo nel cuore non ci precludevano il privilegio di restare vivi. I rami di un enorme sicomoro si allungavano maestosi verso le finestre della stanza di ospedale in cui c’eri tu, senza rose, ma insieme a Brian. Mentre, infine, piangevo e piangevo, la schiuma dei giorni si allontanava da me, sciabordando verso la vita di qualcun altro. 

 

fin 

   
 
Leggi le 4 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Fanfic su artisti musicali > Avenged Sevenfold / Vai alla pagina dell'autore: Queen of Superficial