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Autore: Hi Fis    24/11/2016    2 recensioni
Seguito spirituale della mia precedente "Cronache Licantropiche" e "La Seconda Guerra Elfica" questo breve racconto può essere letto da solo senza difficoltà. Descrive un'iniziazione particolare, offrendo punti di vista che spero troverete interessanti, così come del resto faceva anche Cronache Licantropiche.
Genere: Avventura, Dark, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Dovahkiin
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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“Nulla di fertile può mai essere creato da un Daedra.”
Così come nessuna lezione era mai stata tenuta in quel modo: perché nonostante il luogo e l’oggetto in esame, o l’iniziato seduto sulla nuda pietra, quello era più di ogni altra cosa un insegnamento. Ovvero, la trasmissione di un sapere antico in un nuovo ricettacolo:
“…Ed è da questa differenza, più di ogni altra, che è data forma a questo mondo, composto dai frammenti donati dagli dei diminuendo sé stessi. Per questa ragione ogni parte del tutto chiamato mondo continua ad essere indissolubilmente legata al suo creatore-sacrificio: il respiro di Kynereth, la benevolenza di Arkay… ognuna di queste cose, ed altre simili ad esse, non sono semplici parole da recitarsi vuotamente. Verità è contenuta in esse: così come potere.”
“…Perché mi stai dicendo tutto questo, zio?”
“Perché tu sia preparata a comprendere la natura del demone che sarà accolto nel tuo corpo e nella tua mente. Perché la sua natura non venga mai dimenticata e perché un giorno, con un po’ di fortuna, tu non ne sia più impaurita.”
“Io non …!” ma il palmo alzato le impose il silenzio: non un gesto magico, piuttosto un cenno fatto con vera autorità.
Il suo oscuro maestro non riprese fino a quando non fu certo che nel silenzio della sua allieva fosse almeno germogliato anche il dubbio:
“Se quelle parole avessero lasciato la tua bocca, sarebbero state ancora una bugia. Io, mio figlio, tua madre… ognuno di noi è stato visto dai tuoi occhi in più di un’occasione. E in giorni d’inverno così freddi da gelare il sangue stesso, il tuo arco è già stato fratello di zanne e artigli.”
Luminosi ricordi attraversarono la mente della fanciulla a quelle parole: memorie di giorni di una felicità che uomini e donne comuni non avrebbero mai potuto sperimentare, e che come tali lei non avrebbe mai potuto condividere con estranei. Giorni di una libertà assoluta e di gioia completa, in una solitudine condivisa solo con mostri e belve: le privazioni che li avevano accompagnati erano stati quasi niente al confronto. Molte meno dello scotto necessario a compensare simili privilegi:
“La nostra Lucia.” sorrise indulgente il suo maestro, indovinando i suoi pensieri: “…Pronta da sempre, ma ancora ignorante di quanto vasta sia la linea da cui sono separate la conoscenza nata dallo studio e quella frutto dall’esperienza.”
“Non così ignorante...” ribatté testarda la giovane, che per quanto non una Nord, era stata educata come tale.
“Si vedrà.” rispose quieto suo zio sedendosi di fronte a lei sulla fredda roccia.
Per quanto tra di loro non ci fosse il benché minimo legame di sangue, per quanto fossero perfino di razze diverse, l’affetto che c’era tra loro era sincero e innegabile. E come avrebbe potuto essere altrimenti, quando era stato lui per primo a trovarla per le strade di Whiterun, mendicante e orfana di appena sei anni? Ed era sempre stato lui a trovarle una famiglia che potesse occuparsi di lei: non lui stesso, ma solamente perché in quel periodo troppi pericoli minacciavano ancora i suoi giorni.
Così, per la gentilezza di un estraneo che nel tempo sarebbe diventato il suo caro zio; la vita di Lucia era cambiata così tanto in meglio che dieci anni più tardi la fanciulla, quasi una donna ormai, non aveva rimpianti: dopotutto, ora la sua famiglia era la più valorosa di tutta Skyrim, mentre sulla sua seconda madre nessuno che avesse un minimo di senno avrebbe mai osato dire nulla. Era stata una sorpresa per tutti però, Lucia compresa, quando le era stato offerto il suo nuovo cognome da portare…
Ma a detta di suo zio, gli indizi a proposito erano stati evidenti sin dal primo giorno: chi in fondo le aveva insegnato a tirare con l’arco, a muoversi come invisibile nella foresta, a inseguire la preda e a spellare un cervo prima che il sangue finisse di coagulare? Non certo lui.
Lucia però aveva compreso tanto tempo fa che quel suo zio vedeva sempre più lontano di tutti, e che i segreti più reconditi del mondo e di coloro che lo abitano erano sempre chiari e semplici per lui. Ecco perché quando parlava, tutti lo ascoltavano sempre con attenzione:
“…Ne sarai cambiata, Lucia. Dentro di te questo è già noto, e da questo sei spaventa. Non si può nascondere la verità: si deve accettarla.”
Un singhiozzo minacciò di risalirle dalla gola, ma Lucia si fece forza perché morisse nel silenzio e i suoi occhi restassero asciutti: ancora una volta, e come sempre, suo zio le vedeva dritto nel cuore.
“Avrei voluto mia madre… Come te, zio.”
La mano che la confortò scompigliandole i capelli non riusciva più a coprirle tutta la testa, ma il suo calore e peso erano ancora quelli che Lucia ricordava dalla sua infanzia: come una coperta di pelliccia d’orso nel più gelido inverno.
“Non credere sia freddezza quella di tua madre, Lucia. Tutto l’opposto: avrebbe voluto, ma noi condividiamo il fardello. E non è bene quando i legami condivisi in queste forme sono imposti anche in altre: per questo mi è stato chiesto di essere il tuo, così come tua madre è stata il mio e quella di mio figlio. Inoltre…”
“Inoltre…?”
“…I misteri della nostra condizione sono noti, sia a tua madre che a me: sono stati spesi lunghi anni nel loro studio. Ma da tua madre è stato quasi dimenticato il tempo in cui possedeva una sola forma: comprendere ed accettare questo è stato forse l’inizio della nostra amicizia.”
Il che spiegava molto, pensò Lucia… e forse, dopo la sua iniziazione, sarebbe perfino venuto il giorno in cui ne avrebbe compreso ogni implicazione:
“E tu invece?” suo zio sorrise alla domanda:
“C’è una parte di me che resta… inesperta. Forse per questo mi è stato chiesto di iniziarti: perché ricordo ancora la mia notte come questa.”
“Credevo perché fossi…?”
“Più forte?” Lucia annuì:
“Dimentica ciò che credi di conoscere, Lucia. La stessa coppa è bevuta diversamente da ciascuno di noi: ci sono alcuni più forti di me… nella forma sotto le lune, almeno. E ciò che hanno non sarà mai eguagliato.”
“Davvero?”
“Sì: se lo volesse, in una giornata di buon vento tua madre saprebbe contare i conigli sull’altro versante della Gola del Mondo. Per il vecchio Yama del clan dell’ovest invece, perfino il granito più duro è come argilla: nessuno può essere forte quanto lui… Così come nessuno può essere più veloce di tuo zio.”
“Quanto veloce?” sussurrò Lucia, che non l’aveva mai visto attingere nemmeno ad un terzo della vera forza della sua altra forma.
“Si dice quanto la folgore ed il fulmine... Ma a me, basta arrivare sempre dove voglio essere.”
“Mamma una volta ha detto che potresti partire al tramonto da Skuldafn e arrivare a Markarth in tempo per il mezzogiorno precedente.”
Il sorriso enigmatico ed obliquo del suo maestro fu tutta la risposta che Lucia ottenne, cosa che comprensibilmente la fece sbiancare: naturalmente avrebbe scoperto che suo zio si stava burlando di lei in quel momento. Anche se poi non così tanto:
“E chissà cosa tu invece porterai in questo mondo, Lucia… nessun Daedra può creare qualcosa di fertile, in ogni senso: carne, spirito o mente.” salmodiò pensieroso suo zio: “Ne consegue che ogni demone, anche i nostri, ha un proprio ed unico creatore. Plasmati dal potere più informe secondo i desideri di un Principe dell’Oblivion, essi si scontrano sempre con le leggi di questo mondo, specie quando lo visitano per la prima volta… nel nostro caso, in modo perfino peggiore del solito.”
“Che cosa vuoi dire?”
“…Di solito la nostra natura non è considerata simile a quella dell’evocatore. Eppure non lo siamo forse? Dopotutto, anche i nostri demoni sono tratti a questo mondo dalla stregoneria: stregoneria del sangue e della carne certo, ma pur sempre stregoneria. I nostri corpi sono come varchi, che sono consumati per permettere ad un demone dell’Oblivion di manifestarsi mentre il nostro io si dissolve, diventando in lui ciò che esso è in queste forme. Si potrebbe affermare insomma che siamo come stregoni con un solo trucco, per quanto particolare.”
“…Non l’avevo mai pensata in questo modo.”
“Certo che no: non ancora. Ma ci si aspetta che tu lo faccia, prima o poi. È il nostro retaggio e sarà il tuo come membro del clan delle pianure: esplorare la nostra condizione con occhi e mente ben aperti, affinché i suoi stessi confini siano ridefiniti.”
“Cioè… dovrò studiare?” chiese quasi scandalizzata Lucia.
Una domanda che fece sorridere di nuovo quel suo zio:
“Lo vorrai. E per quanto nel tuo caso si preferisca il valore alla conoscenza, hai già avuto un’educazione che può essere solo sognata da molti dei tuoi coetanei.”
Alchimia, medicina, un pizzico di taumaturgia, lingue, metallurgia, come lavorare la pelle abbastanza per farne armature leggere quanto resistenti e il piacere segreto quanto colpevole di Lucia: evocazione, dalla quale era attratta nonostante non vi eccellesse in alcun modo e a cui era stata iniziata da suo cugino. Fingersi ignorante con le persone comuni era quindi spesso una necessità per lei, tanto che nel tempo Lucia aveva dovuto imparare a saper tenere celati molti segreti:
“…Noi dobbiamo confrontarci col sapere che ci riguarda Lucia, quello degli uomini e quello di coloro che come noi non lo sono più del tutto.” ripeté suo zio facendosi serio.
“Perché?”
“Perché specialmente noi percorriamo entrambe le vie: uomo e demone. Spirito e mortale. Quando si rinuncia ad una parte di questa verità, si rifiuta sé stessi. E da questo si è sempre sminuiti, Lucia. Per esempio…” le spiegò suo zio “…Leggerai degli studi di un erudito che considera la nostra dualità come quella del demone e del posseduto. Non è proprio così, nessuno di noi è mai così innocente, ma troverai una parte della verità in quegli scritti.”
“E il resto?” di nuovo, il suo maestro sorrise: Lucia conosceva le domande giuste.
Tanto che era quasi un peccato essere costretti a metterla in guardia così severamente:
“Il resto sarà appreso col tempo e l’esperienza… Ma solo fino a quando resterai cosciente del tuo cambiamento. Diverrai fame Lucia, tale da poter divorare montagne di prede: non sarai mai saziata. Diverrai sete, tale da poter prosciugare il sangue di mille cervi: non sarai mai dissetata. Diverrai forza e artigli tali da trasformare gli eserciti in bambole di stoppa: ti vergognerai di quella debolezza, che è solo quella dell’uomo. Potrai giacere sul ghiaccio e non congelare, ma il calore degli uomini ti diverrà indifferente. E se sarai sopraffatta dal demone, se lascerai che la tua mente diventi la sua preda, allora non avrai solamente fallito, ma sarò obbligato ad estirparlo da te. Qualcosa che non mi verrebbe mai perdonato da tua madre.”
Lucia sentì in bocca il gusto amaro del terrore a quelle parole: l’ira di sua madre poteva essere terribile. Ma nessuno sotto il cielo di Tamriel poteva minacciare suo zio: l’esito non avrebbe potuto che essere uno solamente.
Piuttosto che restare di nuovo orfana, Lucia avrebbe preferito la morte:
“Ora sai perché questo passo non può essere compiuto con leggerezza.”
“Sì.” sussurrò Lucia e suo zio annuì gravemente, alzandosi in piedi in un unico gesto fluido.
La squadrò molto a lungo e Lucia ne sostenne lo sguardo: poi la fece alzare e quando parlò di nuovo, la sua voce era solenne e ferma. La voce del destino stesso, che parlava attraverso la sua bocca:
“Ora ti si chiede di decidere Lucia, figlia di colei che è una sorella per me. In questa notte e in questo luogo, in questa forgia della carne e dello spirito, alla presenza dei tre sacri totem: il sistro, il teschio e il tamburo. Ora che non sei più ignorante, ora che sei pronta: ti disseterai col mio sangue, così che il nostro branco possa accoglierti? Accoglierai in te la prole del crudele padre Hircine, rinnovando il nostro sangue?”
“Sì.” rispose una voce tra le pareti della caverna: flebile forse, ma la voce di qualcuno che aveva scelto liberamente.
Suo zio la condusse al bacile sulla colonna di pietra posta al centro della grotta: un oggetto antico quanto mondano. Perché era il suo contenuto, rinnovato durante le generazioni, ad essere arcano: era nel sangue il prodigio, lo stesso che presto sarebbe scorso in lei.
Suo zio aveva cominciato ad accompagnarla in una forma, ma per quando arrivarono al centro della caverna, che pure era piuttosto piccola, in verità appena dieci passi di diametro; aveva già completato il cambiamento. Era stato rapido, e quasi totalmente silenzioso: solo il rumore della pelle e della carne che si strappava, e delle ossa che si spezzavano per adattarsi, aveva tradito il suo cambiamento. In fin dei conti, egli era un Alfa Vargh nel pieno delle sue forze e dunque in totale sintonia con entrambe le sue forme.
Ora, Lucia era al cospetto di una creatura più grande di un orso di montagna, dalla pelliccia nera come lo spazio tra le stelle e dagli occhi azzurri come il cielo dopo una tempesta. Sempre in un silenzio irreale, quella creatura terribile, creata per cacciare e terrorizzare gli uomini, snudò artigli che potevano fendere corazze, lacerando la sua carne e lasciando colare libero e copioso il suo sangue nel bacile. Per quando fu riempito, la ferita si era già rimarginata.
L’odore di quel liquido vischioso aveva impregnato subito l’aria, facendo venire le vertigini a Lucia: tanto, che nei suoi vapori e sulla sua superficie alla giovane donna sembrò perfino di vedere lupi di bruma e nebbia rossa inseguirsi a vicenda in una caccia che non poteva avere fine.
Un ultimo istante, in cui occhi umani incontrarono quelli di lupo, nel più intenso degli sguardi…
E poi Lucia tuffò il volto nel bacile.
  
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