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Autore: little_psycho    28/11/2016    2 recensioni
Magnus si ritrovò a sbattere la testa contro la parete del salotto vuoto.
Tutta la casa era vuota: vuota come si sentiva lui, vuota come sarebbe stata la sua esistenza senza Alec.
Genere: Angst | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Magnus Bane
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Like glass

 

Humans like glass, we break and don’t get fixed.
   American Horror Story

 
I raggi di sole filtravano dalle tapparelle abbassate, illuminando il viso del ragazzo seduto per terra . Aveva la schiena appoggiata al muro e gli occhi chiusi, cercando di metabolizzare i giorni appena trascorsi.
“Alexander Gideon Lightwood  è deceduto.”
 Ecco quello che avevano detto i Fratelli Silenti.
 Senza giri di parole, come se gli avessero  comunicato che il gatto dei vicino aveva tirato le cuoia.
Magnus se lo ricordava bene il funerale.
 Avrebbe voluto rimuoverlo dalla propria mente, cancellarlo con un incantesimo.
 Ma non poteva farlo, non poteva  cancellare un solo ricordo in cui c’era anche Alec, vivo o morto che fosse.
Morto.
Quella parola gli lasciava l’amaro in bocca.
 Semplicemente non riusciva ad accettare un mondo senza di lui. Avevano affrontato tante volte quei discorsi, in più di un’occasione gli aveva detto che sarebbe sopravvissuto alla sua morte, che tante persone amate se n’erano andate e lui alla fine se ne faceva una ragione, continuando la sua vita.
Ma aveva torto.
 Dopo aver visto il corpo di Alec, del suo Alec, bruciare, si era reso conto che una parte di lui se ne stava andando.
Il funerale gli aveva dato l’impressione di  una parata di cuori infranti.
 Un Jace ottantenne si aggrappava disperato ad Isabelle, entrambi avendo perso rispettivamente Clary e Simon, cercavano di consolarsi a vicenda. Il viso fiero e segnato di rughe della Lightwood, si era contratto in una smorfia e poi aveva urlato a squarciagola –per quanto glielo permettessero i suoi polmoni ormai stremati dai tanti anni trascorsi – il nome del fratello, come se la sua disperazione e quella di Jace, potessero avere il potere di riportarlo in vita.
Max e Rafe si tenevano abbracciati, ognuno l’ancora di salvezza dell’altro. La carnagione dello stregone era di un blu slavato –come Catarina la sua pelle cambiava colore a seconda dell’ umore – e accarezzava la testa mora del fratello adottivo, scosso dai singhiozzi.
Magnus si ritrovò a sbattere la testa contro la parete del salotto vuoto. Tutta la casa era vuota: vuota come si sentiva lui, vuota come sarebbe stata la sua esistenza senza Alec.
I suoi lunghi capelli erano raccolti in una crocchia disordinata, i glitter viola erano sparsi a macchie d’olio per tutta la faccia, e le  profonde occhiaie erano  in netto contrasto con gli occhi dorati.
Aveva provato a non pesarci, ma in realtà Alec lo aveva preso in giro, come tutto, del resto. L’universo lo aveva prendendo in giro, dandogli un assaggio di paradiso, per poi strapparglielo dalle mani.
L’orologio che faceva passare la vita era così falso e lui non era stato attento.
Lacrime calde iniziarono a scendere sulle sue guance, mentre soffocava un grido mordendosi la mano stretta a pugno.
Gli balenarono nella mente le immagini degli ultimi giorni di vita di suo marito: Alec seduto su una poltrona vittoriana nel salotto, mentre rideva a qualcosa che aveva detto Isabelle; lui che guardava il petto del Lightwood alzarsi e abbassarsi nel buio della notte, chiedendosi quanti altri respiri avrebbe sopportato il suo cuore; i suoi meravigliosi occhi blu brillare per l’ultima volta, prima di spegnersi per sempre.
Era sempre stato dell’idea che il dolore non fosse per lui.
 Lui che passava da un amante all’altro come le api in fiore; lui che aveva imparato a non piangersi addosso, fin dalla tenera età; lui che aveva visitato tutti i luoghi possibili ed immaginabili, alla ricerca dell’avventura; lui che si considerava un ribelle, un anticonformista.
Rise amaramente a quel pensiero. Si era sempre  comportato da nomade per quello: per non mettere radici, per scappare dal dolore che comportava ogni morte.
Ma erano bastati un paio di occhi azzurri a farlo ricapitolare. Occhi da cui fuoriuscivano gioia di vivere, voglia di donare amore e riceverne, curiosità verso luoghi nuovi. Quegli occhi l’avevano ipnotizzato. Era uscito da se stesso e si era tuffato in quel blu.
 Accarezzò l’orlo di perline rosse e bianche del cuscino accanto a sé. All’inizio se l’era voluto mettere dietro la schiena, perché non si facesse male contro il muro. Poi aveva lasciato perdere, la posizione era troppo comoda per il suo stato d’animo.
 Notò distrattamente che il sole era tramontato,o almeno sembrava così, da dietro la tapparella abbassata.  Decise che doveva fare  assolutamente  qualcosa, stare seduto tutta la sera non lo avrebbe aiutato in quel momento.
Prese un lungo respiro e si diresse verso il frigo, sperando che ci fosse qualcosa da sgranocchiare. Ovviamente trovò solo due carote ammuffite, delle uova che ricordavano vagamente  un’insalata e una bottiglia di acqua vuota.
 Con un gesto della mano fece apparire una bottiglia di vodka liscia ghiacciata, mentre le schifezze dal frigo andavano nei bidoni della spazzatura dall’altro lato della strada.
Si buttò a peso morto sul divano rosso e bianco, in tinta con i cuscini, mentre tendeva l’orecchio per sentire la musica che di solito proveniva dal locale vicino.
Era la musica che ascoltavano i giovani, orribile, a suo parere.
Non era quella di prima, non ti faceva venire voglia di ballare.
 Più che altro ti veniva l’orticaria.
Era spenta, senza vita.
 I ragazzi l’ascoltavano a tutte le ore a volume altissimo, come se alzarne la voce la rendesse orecchiabile. Quel genere di musica ti faceva chiedere dov’era finito il buon gusto, o i bravi musicisti, o persone che pensavano con la propria testa, senza seguire la massa.
Era in quel momento che capivi di essere diventato vecchio, quando te ne stavi seduto a chiederti dov’era finito tutto.
Si sentiva strano, esposto.
Come se qualcuno avesse aperto il suo corpo per mostrare a tutti suoi organi e poi  l’avesse ricucito senza successo.
Ne aveva visti di mortali soffrire, aveva sempre trovato affascinanti le loro reazioni di fronte ad una morte.
 Qualcuno mostrava contegno, altri si disperavano, altri  ancora si guardavano intorno attoniti, come se non credessero alla notizia.
Per lui gli umani erano qualcosa di fragile, tipo il vetro, si spezzavano, e i cocci rotti non si  potevano più incollare fra loro.
Il quel momento si rese conto con profondo orrore di essere diventato come i mondani.
Come il vetro.
 
  Notes
Questa One–shot è stata scritta da me circa due mesi, o poco meno.
Questa è la mia prima storia nel fandom, viva me!
La pelle di Max che cambia colore come quella di Catarina, è un mio Headcanon.
(Se poi Cassie l’ha detto nelle Cronache dell’Accademia, libro che non ho ancora letto, ignorate il commento sopra)
 “L’orologio che faceva passare la vita era così falso e lui non era stato attento”,è una frase della canzone “In the End” dei Linkin Park.
“Quegli occhi l’avevano ipnotizzato. Era uscito da se stesso e si era tuffato in quel blu”è una citazione di Charles Bukowski.
“Era in quel momento che capivi di essere diventato vecchio, quando te ne stavi seduto a chiederti dov’era finito tutto.”è un’altra citazione di Charles Bukowski.
Okay, potrei essere leggermente in fissa con Bukowski in questo periodo.  :)
Fatemi sapere che ne pensate di questo esperimento!
Alla prossima!
Con affetto
little_psycho.
 
 
 
 
   
 
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