Un pomeriggio sdraiate a fissare il soffitto insieme, cullate nella noia viscosa che ci aveva fatte scivolare in un pantano di ozio, mi raccontò un suo sogno.
Lo definì il suo incubo peggiore, me lo raccontò con un nodo allo stomaco e gli occhi lucidi. Aveva spesso gli occhi lucidi e sembrava quasi troppo fragile per questo mondo e tutto ciò che la circondava. 
Ed io pensavo solo che dovevo trovare una campana di vetro abbastanza grande per proteggerla senza soffocarla, perché questo era l’affetto che nutrivo per lei.
Ricordo quel sogno come lo avessi sognato io, eravamo adulte e lei mi incrociava per strada. 
Aveva capito subito chi ero, aveva detto, per il cappello buffo e la goffaggine intrinseca, ma io al contrario non la riconoscevo e mi allontanavo senza notarla.
È triste sapere che inganniamo più noi stessi che gli altri e ci promettiamo realtà che non possono esistere. Pronunciamo con incrollabile certezza parole che nella vita non hanno valore, non davvero, e non importa quanto lottiamo per persuadere noi stessi, la verità non può mutare, le promesse sì.
E, nonostante lo sapessi, ho promesso, più a me che a lei, che non sarebbe mai capitato.
Saremmo sempre state noi, sarebbe sempre stata mia sorella.
Ho mentito.
Sono trascorsi meno di dieci anni da quel giorno, pochi nella media del tempo condiviso insieme, eppure ti ho incrociata per strada e non ti ho riconosciuta.




Mi sei tanto estranea quanto ancora so volerti bene e, se penso a te, penso alla mia infanzia.
Anche da sconosciute, anche se non desidero parlarti più, resterai sempre una parte fondante del mio essere.