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Autore: Giuu13    30/11/2016    1 recensioni
Una scommessa porterà una piccola nazione scorbutica a conoscere una dolce e solare ragazza (molto umana) e a scontrarsi con la vita che gli uomini sono costretti a vivere, nel bene e nel male.
Dal testo:
«Vi troverò un italiano che preferisca l’Italia a voi, che non vi ami proprio, che vi detesti. Poi dovrete baciarmi il culo, idioti!»
Genere: Commedia, Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Sud Italia/Lovino Vargas, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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«Non dire cazzate»
«È inutile negarlo, Italia» disse ridendo l’inglese, la schiena ben appoggiata al morbido schienale.
«Smettila di dire sciocchezze, razza di idiota» rispose Romano stizzito. Era steso sul tavolo, proteso verso il biondo seduto davanti a lui in caffetteria.
«Italy, ha ragione il piccoletto. Tutti voi siete ossessionati da noi, indossate le nostre bandiere» disse Alfred masticando una ciambella ripiena. Arthur gli lanciò un’occhiataccia infastidito dal parlare a bocca piena dell’altro e dall’epiteto con cui lo aveva chiamato.
«Non mettertici anche tu, ok? Noi italiani non mettiamo le vostre stupide ed esibizioniste bandiere»
«Visto? Visto?» l’americano rideva e saltellava indicando il moretto seduto. «Hai detto “ok” e sei italiano, usi il nostro linguaggio»
Romano, silenzioso, lo fissava pensando a diversi insulti in italiano, tutti quelli che conosceva.
«Il mondo ci ama» disse Arthur passandosi una mano tra i capelli, facendo la finta star.
«Mi ama, vorrai dire. Tu sei abbastanza vecchio e antiquato, sono io quello che piace» disse Alfred facendo le bollicine nel bicchiere di Coca ormai sgasata. Arthur lo guardò scandalizzato. Come osava dargli del vecchio? Lui era la grande Inghilterra, la mitica. Stava già per urlargli contro, lanciargli qualcosa addosso, di appuntito magari; venne fermato da Romano che si era alzato in piedi con sguardo furente e aveva battuto un pugno sul tavolo facendo traballare i bicchieri posati sopra.
«Vi troverò un italiano che preferisca l’Italia a voi, che non vi ami proprio, che vi detesti. Poi dovrete baciarmi il culo, idioti!»
Uscì dalla stanza sbattendo la porta, molti occhi lo seguirono, altri si posarono sugli altri due ragazzi.
«Be’, che c’è da guardare? Abbiamo semplicemente fatto una scommessa» disse Arthur bevendo un sorso di quel tè annacquato preso alle macchinette.
 
Romano camminava a passo di marcia per il grande edificio, attraversava corridoi urtando persone e mobili, insultando tutto quello che si metteva sul suo cammino. Quei due anglosassoni erano riusciti a rovinargli una giornata iniziata decentemente.
«Lovinito» si sentì chiamare da una voce familiare, fin troppo familiare. Aumentò il passo, stava pensando di cominciare a correre, ma una mano gli prese la spalla trattenendolo.
«Cosa vuoi anche tu? Dirmi che la Spagna è migliore dell’Italia? Perché se è così stai pronto a ricevere una testata» disse voltandosi e guardando il soffitto.
«È per questo che discutevi con Alfred e Arthur? Che stupidi» disse Antonio sorridendo, l’espressione di un angioletto dipinta in faccia. Romano trattenne un ringhio che proveniva dalle profondità dell’Inferno; non voleva essere la causa della scomparsa della Spagna dalle cartine, non ancora almeno.
«Lasciami andare, devo cercare un ragazzo da presentare a quelle due teste di ca-»
«Cavolfiore» finì per lui Antonio. Non gli piacevano le parolacce e men che meno il modo scurrile di parlare di Lovino. «Sul serio? Non stavi scherzando allora» continuò seguendo l’italiano che aveva ripreso a camminare; non avrebbe sorpreso nessuno se delle nuvole di vapore fossero uscite dalle sue orecchie, era incredibilmente furioso.
«Mmph» soffiò lui in risposta senza girarsi.
Stavano camminando a vuoto e ad un certo punto Romano si fermò così all’improvviso che Antonio sbatté contro la sua schiena: erano già passati da lì, quel tavolo bianco e appuntito lo aveva visto almeno due volte ed aveva già calpestato quel tappeto sottile.
«Dove diavolo è l’uscita?» allargò le braccia e si voltò in tutte le direzioni in cerca di qualche cartello illuminato da lampadine al neon colorate che dicesse EXIT. Se lo sarebbe aspettato dagli americani.
«Questo posto è indecifrabile e confusionario come Alfred, e non c’è nulla dentro! Proprio come la sua testa. Il progetto di questo edificio poteva essere partorito solo da una testa vuota come lui» scattò sbuffando.
Antonio prese sottobraccio l’italiano che non cercò di liberarsi dalla stretta, era così confuso che non se ne accorse neanche, e lo accompagnò verso la grande uscita al piano terra. Loro erano al terzo.
«Nervoso, nervoso, mal di testa, nervoso» ripeteva il ragazzo, mentre camminava al fianco dello spagnolo che sorrideva felice.
Davanti alla porta a vetri, custodita da due uomini grandi e grossi e, cosa più importante, armati, Antonio lasciò andare l’altro che sembrò accorgersi di quello che aveva davanti: gli si illuminarono gli occhi e un ghigno gli si stampò sul viso.
«Grazie, bastardo» disse e gli diede una pacca sulla spalla.
«Vai direttamente all’aereo. Dormi durante il viaggio: dall’America all’Italia è lunga, riposati un po’. Ti copro io con Ludwig, tanto non dobbiamo discutere di nient’altro, abbiamo finito questa mattina»
«Sì, sì, smettila di fare la mamma apprensiva» disse Romano scocciato da tutte quelle raccomandazioni. Stava per uscire da quell’edificio labirintico quando venne fermato da una voce.
«Sei ancora qui?»
Si voltò e vide Alfred con alcuni sacchetti tra le braccia attraversare il grande atrio illuminato. «Pensavo fossi già in viaggio, mi eri sembrato così deciso»
«Sto andando, stai tranquillo. Sarà facile trovare un italiano che ami l’Italia, ne siamo pieni» disse lui scuotendo una mano.
L’altro lo guardò a lungo, sorrise.
«Sai di indossare dei miei pantaloni, vero?» disse inclinando la testa e osservando i pantaloni scuri dell’altro. Romano abbassò lo sguardo sulle sue gambe. Impossibile. Lui non indossava niente che non fosse italiano, anche i pannolini che aveva messo erano italiani.
«Non scherziamo, io indosso solo capi miei e di mio fratello e non metterei mai-» si bloccò, lo sguardo fisso avanti a sé. Suo fratello. Quelli erano un regalo di suo fratello di ritorno da una vacanza con il crucco e il giapponese rachitico. Oh no. No no no no. Si contorse, prese il retro dei pantaloni e tirò fuori l’etichetta. Americani. Quei pantaloni erano indubbiamente americani, c’era la firma di quell’idiota biondo mangia hamburger.
«Alla fine dici tanto, ma ti piacciono i miei articoli. Lo dico sempre a Francia che sono io il vero paese della moda»
Antonio guardò Lovino irrigidirsi e pensò al peggio.
Qui ci scappa il morto.
Francis e Lovino erano sempre in lotta su molte cose: il miglior vino, il miglior cibo, i migliori amanti, le città più romantiche, la patria della moda. Lovino odiava pensare che il vinofilo si credesse migliore di lui in queste cose, ma odiava ancora di più sentire quelle parole uscire dalla bocca dell’americano; era come sentire Arthur affermare la sua supremazia in campo culinario. Assurdo. Preferiva urlare al mondo che il mondo della moda era in mano ai francesi che agli americani.
Si tolse la cintura che cadde a terra tintinnando, cominciò a sbottonarsi i pantaloni con rabbia mal celata verso il fratello, verso l’americano che aveva notato i pantaloni e verso se stesso per  non aver controllato prima l’etichetta. Antonio si era avvicinato e cercava di togliere le mani di Romano dai pantaloni.
«Cosa stai facendo? Non puoi andare in giro in mutande»  disse allarmato.
«Via!» Romano cacciò il ragazzo e in unico movimento sgusciò fuori da quella stoffa americana, rimanendo in mutande rosso fuoco. Sventolò i pantaloni sopra la testa.
«Sta tranquillo che non me li vedrai più indosso» disse già deciso a rispedirli a casa di Veneziano, con tanto di bigliettino minatorio in caso gli venisse in mente di fargli un altro regalo.
«Addio» disse solo e uscì lasciando Antonio e Alfred allibiti, ancora lì in piedi a seguire la figura in mutande attraversare la strada.
 
Aveva fatto il viaggio in aereo con dei pantaloni comprati in un negozio rigorosamente italiano prima di andare all’aereo porto. Era andato alle poste il giorno dopo essere arrivato, aveva consegnato il pacco contenente i pantaloni ed era tornato a casa.
Si sedette sul divano sprofondando nei morbidi cuscini, accese la televisione dove apparve un servizio sul paese più popolare: l’America. Cambiò canale e le immagine della famiglia reale inglese occuparono lo schermo del televisore.
«Sarà maschio o femmina il figlio del principe William e della bella Kate?»
«Cosa me ne può fregare? Non mi interessa se concepiscono o meno, quei due» era in piedi e teneva le mani a stringere lo schermo; urlava contro la voce della giornalista che parlava dei pettegolezzi di corte.
«Anche noi abbiamo una famiglia reale, ma nessuno se la caga» disse prima di spegnere e andare a cucinarsi qualcosa. Preparò degli ottimi spaghetti al sugo, li accompagnò a del buon vino francese (quel giorno poteva permetterselo) e infine uscì per una passeggiata serale tra le vie di Roma.
Si fermò ad una pasticceria a comprare dei dolcetti, si fece riempire un sacchetto da cui spilucchiò lungo la strada. Roma era proprio bella la sera, con le luci che illuminavano le strade, le moto colorate parcheggiate davanti ai locali, giovani e vecchi a chiacchierare e giocare nei bar, gente fuori che fumava e sorrideva; c’erano coppiette, che accortesi di quest’aria romantica e un po’ malinconica, passeggiavano proprio come lui. Solo che loro tenevano la bocca occupata in un modo e lui in un altro. Guardò il sacchetto ormai vuoto e lo gettò in un cestino.
«Devo trovarmi una ragazza»
Tornato a casa fece una doccia veloce, buttò i vestiti in un angolo del bagno e andò a letto. Si sistemò sotto un lenzuolo leggero; nonostante fosse solo primavera già soffriva il caldo.
Hai sangue caliente nelle vene, proprio come me
Sentì la fastidiosa voce di Antonio rimbombargli nella testa.
«Stai zitto» sussurrò al soffitto.
Si grattò il petto nudo, scalciò le lenzuola per scoprirsi un po’ di più. Guardò la parte vuota del letto accanto a sé, pensò davvero di doversi procurare compagnia.
«No, prima qualcuno da presentare a quei due idioti al prossimo meeting»
Si voltò a pancia in giù, le mani sotto al cuscino che spostò in cerca della parte ancora fresca; diede un’occhiata all’orologio. Era mezzanotte appena passata, una debole luce illuminava le lancette e la porta socchiusa. Si addormentò con il sorriso sulle labbra, l’immagine di Alfred e Arthur di fronte al suo italiano amante della propria cultura in primis lo mandava su di giri.
 
Si alzò da letto sudato e con l’impronta del cuscino stampata in faccia, aveva il solito broncio, le sopracciglia corrugate; la mattina non era proprio il momento preferito della giornata, in realtà non aveva un momento preferito. Stava bene solo a letto.
Uscì di casa un oretta dopo, lavato e profumato, per far colazione al suo bar preferito. Ci metteva sempre un’ora a prepararsi, e pensare che si faceva solo la doccia, poi dicono tanto delle donne.
«Perché sono una persona ordinata, io» diceva in sua difesa ai commenti degli altri: ad Antonio che aveva sempre i ricci sparati per aria, a Veneziano che aveva sempre mezza camicia nei pantaloni e l’altra metà volante; Ludwig era molto curato, era l’unica cosa che apprezzava del crucco pela patate.
«Romano, buongiorno» sorrise cordiale il barista, un uomo sulla quarantina con una grossa pancia e dei folti baffi neri.
«Il solito?» chiese prima di preparare un cappuccino e scaldare una brioche vuota. Il ragazzo annuì e si sedette al solito tavolo all’angolo vicino alla vetrata che dava sulla strada, ad osservare il solito via vai di gente per il corso.
Fece colazione lentamente, lesse alcune notizie della Gazzetta e si concentrò, più per dovere che per piacere, su tutte le pagine del Corriere e altri giornali di cronaca. Doveva farlo, era il suo mestiere, doveva sapere quello che succedeva nel mondo, tanto che riceveva aggiornamenti  sul cellulare, gli arrivavano messaggi ogni ora.
Pagò e uscì, doveva cominciare a cercare la persona che avrebbe poi umiliato quei due pezzi di nazione. Si guardò intorno, doveva cercare tra i giovani, erano loro il punto focale della scommessa: per Alfred erano i giovani ad essere ossessionati da loro. Vedeva cose che non gli piacevano: ragazzi che indossavano tute americane con il marchio sul culo, scarpe e sciarpine e maglie a stelle e strisce, con la croce britannica. Ovunque rosso, bianco e blu.
«Dannazione» ringhiò lui, sarebbe stato più difficile di quanto avesse immaginato.
Vide una ragazza in un grazioso vestito a fiori, aveva un cappellino a tesa larga ed era voltata di spalle.
«Se è carina possiamo anche fare qualcosa» rise fra sé sapendo che non avrebbero fatto un bel niente. Non avrebbe mai avuto rapporti con gli umani, erano mortali e lui no. A meno che una qualche guerra o carestia lo avrebbe ucciso, ma per il resto avrebbe vissuto a lungo, troppo; aveva visto Veneziano affezionarsi a umani, lo aveva visto rimanere giovane e uguale mentre gli altri erano invecchiati e morti, aveva visto la tristezza, la disperazione del fratello in ogni amico andato, perduto per sempre. Non voleva soffrire allo stesso modo.
Si era avvicinato alla ragazza che non si era accorta della sua presenza.
«Scusami» disse con voce dolce e bassa.
La ragazza si voltò, i lunghi capelli biondi frusciarono e comparvero due grandi occhi azzurro cielo. Romano sorrise cordiale, come non faceva con nessuno, se non in casi di estrema necessità e quello era uno di quei casi. Poi inorridì. La ragazza aveva tra le mani un iPhone che aveva come cover la stramaledetta bandiera americana.
«No! Ma vaffanculo» urlò al telefono, alzò il medio e se ne andò lasciando la ragazza interdetta e scandalizzata.
Occupò tutta la mattinata e il primo pomeriggio con la sua ricerca e ormai disperato rallentò il passo, aveva preso ad aggirarsi per le strade in modo frenetico. La gente lo osservava sospetta, le madri allontanavano i figli al suo passaggio. Con le mani nelle tasche guardava il cielo azzurro, un aereo aveva lasciato una scia bianca che divideva in due parti il cielo altrimenti perfetto; calciò una lattina dimenticata, la raccolse e con uno sguardò omicida si guardò intorno. Buttò la lattina nel cestino proprio accanto a lui.
E poi si lamentano della spazzatura per strada. Cominciate a fare le piccole cose. Si disse.
Una Vespa rossa gli sfrecciò accanto e si fermò poco più avanti, frenò di colpo emettendo un rumore stridente. In sella c’era una ragazza con il casco tricolore, verde, bianco e rosso e Romano perse un battito. L’aveva trovata. La ragazza alzò un braccio per salutare qualcuno nel bar di fronte. Solo quando sparì oltre la porta, Romano si accorse dei suoi vestiti: aveva delle Superga rosse, dei pantaloncini bianchi e una maglietta larga e leggera verde. Gli venne quasi da piangere per la commozione. La sua giornata di totale vagare era valsa qualcosa, alla fine.
Si avvicinò alla Vespa che accarezzò con amore, era la sua moto preferita, ne aveva avute di Vespe. Ne aveva avute di tutti i colori, ma la sua preferita era quella verde. Si appoggiò al sellino perso nei suoi ricordi, ripensò a tutti i viaggi che aveva fatto da solo e con il fratello; tutti i posti che avevano visitato.
Non si rese conto che la ragazza era uscita ed ora era dietro di lui, non si era reso conto che era passata mezz’ora dall’inizio del suo tuffo nei ricordi.
La ragazza si schiarì la voce. «Vuoi fare un giro?»
Romano si risvegliò, si voltò e la vide. Stava facendo roteare le chiavi intorno a un dito. Non ricevendo risposta lei si sedette e accese la moto per partire, allacciò il casco sopra i lunghi capelli rosso scuro e abbassò la visiera. Salutò il ragazzo con lo sguardo strano con due dita in fronte, tipo saluto militare.
«No, aspetta» disse lui prendendo il manubrio. Non l’avrebbe lasciata andare adesso che l’aveva trovata.
«Ho bisogno di un favore»
«Non faccio favori alle persone che conosco, perché dovrei farli ad uno sconosciuto?» chiese lei alzando un sopracciglio.
«Perché… Perché…» non gli veniva niente da dire, non sapeva come spiegarle quello che voleva. Si guardò intorno e vide tre ragazze fissarli curiose da dietro il vetro di una finestra del bar dove era entrata prima la ragazza.
«Cosa c’è da guardare?» chiese infastidito. «Sono amiche tue?»
«Quando capita, dipende dalle volte» disse lei.
Rimasero in silenzio a guardare il bar, le tre ragazze salutavano e ridevano, si tiravano le gomitate e parlavano coprendosi la bocca.
«Mi chiamo Chiara» disse la ragazza scendendo dalla moto e aprendo la sella. Tirò fuori un secondo casco che tese a Romano. «Romano»
«Andiamo da qualche altra parte a parlare» disse Chiara tornando alla guida della moto.
Romano si mise dietro di lei e indossò il casco rosso, si aggrappò alla moto.
«Cosa aspetti a partire?» chiese.
«Che ti aggrappi a me, non voglio vederti morire, non ti conosco ancora»
«Mi tengo alla moto»
Chiara si girò appena e a Romano sembrò che sorridesse mentre diceva «Certo»; diede gas e partì.
Se fossero esistite le marce, quella sarebbe stata una partenza in ottava.
Dopo la prima curva, in cui le loro ginocchia avevano sfiorato terra, Romano circondò Chiara con le braccia.
Sentì che il corpo della ragazza era attraversato da piccole scosse, stava ridendo di gusto.
«“Mi tengo alla moto”» urlò lei facendogli il verso.
Quel viaggio, che durò meno di un quarto d’ora, fu il peggiore, il più pericoloso e il più veloce che avesse mai fatto Romano; aveva visto la sua vita passargli davanti almeno un paio di volte.
Kiku a quest’ora si sarebbe buttato giù anche con la moto in corsa. Pensò dopo un’altra curva a gomito superata non si sa come.
Non è che Chiara non sapesse guidare, anzi, rispettava tutti i cartelli e le velocità, ma il modo di muoversi era così instabile e azzardato che faceva sembrare la ragazza la protagonista di Fast and furious.
Arrivarono a un parco dove frenarono di colpo, Romano sbatté la testa protetta dal casco contro quella di Chiara, si sentì un rumore sordo e poi arrivò il mal di testa, come se insieme a lui anche il cervello fosse andato a sbattere contro la scatola cranica.
«Tu sei pazza. Tu non sai guidare, non ci verrò mai più con te in moto» disse Romano lanciandole il casco.
«Alla patente sono stata promossa con tanto di complimenti» disse lei mettendo via il casco e mettendo la sicura alla moto.
Entrarono al parco, non c’era nessuno in giro e passeggiarono senza essere disturbati da grida e giochi altrui.
«Allora? Che favore vorresti?»
Non poteva certo dirle che voleva umiliare due nazioni. O forse sì?
«Due ragazzi, uno inglese e uno americano, credono che non esistano italiani che preferiscano l’Italia alle loro nazioni. Così ho scommesso con loro che avrei trovato qualcuno pronto a smentirli»
«Perché io?» chiese guardandolo con la coda dell’occhio.
«Ho visto come sei vestita, ho visto il tuo casco, la tua moto. Più italiana di te ci sono solo io» disse lui, triste che nessuno potesse capire a cosa alludeva con la seconda frase. Era triste essere una nazione in mezzo agli umani, nessuno poteva capire le sue battute.
Chiara guardò i propri vestiti e sorrise. «E io cosa ricevo in cambio?»
Romano la guardò, non aveva pensato di dover dare qualcosa in cambio, credeva che umiliare degli anglofoni sarebbe bastata come ricompensa.
«Sto scherzando, lo faccio» disse lei sbuffando.
«Meglio, perché non ti avrei dato niente»
«Ho cambiato idea, non lo faccio più. Mi stai antipatico»
«Aspetta, non puoi cambiare idea così» disse lui fermandosi.
«Posso, l’ho appena fatto» Chiara continuò a camminare, non si era nemmeno girata per rispondergli.
Romano le corse dietro, di solito era lui quello inseguito dagli altri, era lui che si faceva desiderare. Non era lui che correva dietro alla gente.
«Cosa diavolo vuoi in cambio?» chiese Romano esasperato, la prese per un polso costringendola a voltarsi.
Lei alzò le spalle.
«Quando dovremmo vederci?»
«Tra un mese ci incontriamo, siamo tutti… ragazzi, un grande gruppo di amici, più o meno» disse Romano cercando una storia plausibile.
«Va bene. In cambio del mio super favore voglio che tu sia, in questo mesetto, il mio amichetto» lo disse come se fosse la cosa più dolce del mondo, con un grande sorriso e gli occhi luminosi, ma a Romano suonò tanto come ricatto. Stava per rifiutare quando un gruppo di ragazzine gli passò accanto, avevano tutte la bandiera inglese al collo; pensò a quanto sarebbe stato difficile trovare un’altra ragazza come Chiara.
Chiara aveva seguito il suo sguardo su quelle ragazze e quando Romano la fissò arrabbiato lei sorrise sornione.
«Va bene» disse lui.
«Bene. Andiamo a prenderci un gelato, amico?» disse Chiara prendendolo sotto braccio e ridendo come il cattivo di un film.
Romano cercò di liberarsi dalla morsa, ma era salda, peggio di quando Antonio lo abbracciava.
Dopo aver pagato il gelato per entrambi, Romano riuscì a staccarsi da Chiara, troppo presa a mangiare il gelato, e le rimase a un passo di distanza pronto a scattare lontano nel caso lei avesse voluto riprenderlo vicino a sé.
«I’m on top of the world, ‘ay, I’m on top of the world, ‘ay» Chiara canticchiava quella canzoncina da un po’.
«Non puoi cantare altro? Ormai l’ho imparata a memoria» disse Romano esasperato sedendosi a una panchina.
«Allora cantala con me. Non mi piace la musica italiana, non il pop almeno e di rock, be’ c’è ben poco»
«E allora cosa ti piace di italiano?» disse lui facendole spazio, si era prepotentemente seduta al suo fianco facendoli segno di spostarsi.
«La lirica. Amo il personaggio di Figaro ne “Il barbiere di Siviglia”, quando canta Largo al factotum della città. Mai sentita?» chiese voltandosi verso di lui. Romano rimase sorpreso, non aveva mai conosciuto qualcuno a cui piacesse la musica classica, era tutti convinti fosse una cosa da vecchi, una cosa ormai obsoleta. Rimase zitto a fissarla.
«No, eh? Non piace a nessuno, preferiscono la musica moderna. Piace anche a me, sai?» disse cambiando argomento e sgranocchiando l’ultima parte del cono.
«Personalmente preferisco “Turandot”, è più intrigante come trama» disse in un soffio Romano. Non era abituato a parlare di queste cose, sentiva sempre e solo politica e problemi mondiali.
«Non ci credo, oggi mi sono fatta un nuovo amico a cui piace la musica classica. Questa me la segno sul calendario» Chiara rise e mise il fazzolettino di carta del gelato in tasca.
«Devo tornare a casa. Vuoi che ti accompagni fino a-»
«NO» Romano scattò in piedi e salutò con una mano; si diresse verso l’uscita del parco. Non ci sarebbe più salito su quella Vespa, non per quel giorno.
«Domani? Ci vediamo al bar di oggi? La mattina magari»
Romano alzò il pollice, aveva trovato la ragazza italiana, ma in cambio doveva fare l’amico. Niente di più difficile.
   
 
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