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Autore: Sognatrice_2000    01/12/2016    1 recensioni
Due anime sole, due cuori che nella vita hanno amato troppo e per questo sono stati puniti.
Questi sono Sherlock e John, le cui strade si incroceranno nel momento più buio delle loro vite.
Saranno in grado di curare le reciproche ferite inflitte dalla vita, ma soprattutto saranno in grado di trovare il coraggio per vivere fino in fondo quello spaventoso e meraviglioso sentimento chiamato amore?
Storia partecipante al contest Give me love indetto da Starsfallinglikerain sul forum di EFP
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: John Watson, Lestrade, Sarah Sawyer, Sherlock Holmes
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
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John Watson aveva sempre amato i risvegli.

Quando doveva alzarsi dal letto per affrontare una nuova giornata, carica di novità belle o brutte, sul suo volto immancabilmente spuntava un sincero sorriso.

Ma da più di un anno, per John svegliarsi ogni mattina era diventata una sofferenza qutidiana a cui avrebbe volentieri rinunciato.

Precisamente, dalla gelida sera di gennaio in cui aveva risposto alla telefonata che aveva distrutto pe12r sempre la sua felicità.

Il cielo di Londra era gonfio di nuvole quella sera, John lo ricordava ancora. Un violento temporale si era abbattutto sulla città, e mentre stava preparando la cena, alle otto in punto, il telefono aveva squillato.

John aveva afferrato la cornetta, ma dopo pochi secondi gli era caduta dalle mani. C'era stato un incidente. Sua moglie Mary era morta sul colpo, mentre stava tornando a casa con la sua auto.

John Watson aveva sempre amato la vita. Ma dopo aver sentito quelle parole, dopo aver visto il mondo perdere i suoi colori, John aveva cominciato ad odiarla.

E più di tutto, odiava la sensazione che provava al mattino, quando, nell'esatto istante in cui le sue palpebre si sollevano, arrivava la consapevolezza che avrebbe trascorso un altro giorno, l'ennesimo, senza avere al suo fianco la persona che amava di più al mondo.

E quel freddo giorno di fine gennaio per John non faceva eccezione

Era una mattina come tutte le altre a Londra, la sveglia aveva suonato alle sei come al solito, e anche quel giorno John avrebbe dovuto presentarsi al lavoro alle otto in punto.

Davanti a lui si prospettava la solita, monotona routine. Avrebbe fatto una doccia veloce, sorseggiato un tè a colazione, sarebbe sceso a comprare il giornale e avrebbe preso la metropolitana.

Dopo venti minuti sarebbe sceso alla sua fermata, l'elegante quartiere di Baker Street, dove era situata anche la clinica privata, dove lui lavorava da quasi due anni, ormai.

E una volta arrivato in ospedale, vi sarebbe rimasto fino alle otto di sera, per pranzo avrebbe mangiato un panino al bar all'interno della struttura, poi sarebbe tornato a casa sfinito ma tutto sommato soddisfatto di se stesso, e si sarebbe addormentato in poltrona, nel vano tentativo di concentrare la sua attenzione sul televisore o sulla lettura di un libro.

La vita di John Watson si poteva definire una noiosa, interminabile routine, eppure lui amava il suo lavoro, amava i sorrisi che gli rivolgevano i pazienti che era riuscito ad aiutare, e non l'avrebbe cambiata per niente al mondo.

Un tempo John era un uomo felice, ma di quel ragazzo solare ed energico che amava godersi appieno ogni cosa bella non era rimasto che un uomo dallo sguardo spento, opaco, con il cuore indurito dal dolore e dalle troppe cicatrici che vi erano impresse sopra, indelebili come un marchio a fuoco.

Anche quella mattina, dopo aver afferrato il giaccone e le chiavi, John uscì dall'appartamento e si incamminò velocemente verso la stazione della metropolitana.

Dopo pochi passi però, un tuono squarciò il cielo già nuvoloso, e le prim gocce di pioggia cominciarono a cadere, trasformandosi presto in un violento temporale. John si bloccò sul marciapiede, ricordando improvvisamente di non avere nemmeno un ombrello con sè, maledicendosi per la propria distrazione.

Alzò il bavero della giaccia, cercando di coprirsi il viso il più possibile, mentre accellerava il passo. Sarebbe arrivato al lavoro bagnato fradicio, e non aveva nemmeno dei vestiti di ricambio con sè, constatò seccato.

John aveva sempre detestato la pioggia, fin da bambino.

Quando era piccolo, sua madre gli raccontava che la pioggia era il pianto del cielo, che si rattristava molto quando accadeva qualcosa di brutto agli abitanti della Terra.

E anche adesso che aveva trentacinque anni, John continuava ad odiare i temporali.

Quelle minuscole gocce d'acqua lui se le figurava come lacrime versate per una persona che, per qualsiasi motivo, stava soffrendo ingiustamente. Alla pioggia, non a caso, erano legati i ricordi più dolorosi della sua vita.

Pioveva, la mattina d'estate in cui suo padre era morto nel suo letto, dopo una lunga ed estenuante lotta contro il cancro che lo divorava da anni, e che, alla fine, era riuscito a strapparlo dalla sua famiglia.

Pioveva, il pomeriggio d'autunno in cui sua sorella Harriet lo aveva salutato con un bacio sulla guancia per dirgli che si sarebbe trasferita a New York con Clara, la sua fidanzata, lasciandolo solo a badare ad una madre sempre più anziana e sempre più sola.

Pioveva, la sera d'inverno in cui sua moglie Mary aveva perso il controllo dell'auto e non era mai più tornata a casa.

E pioveva anche quella mattina, pensò John con un sorriso amaro.

Forse quel giorno le lacrime del cielo non erano destinate a lui. Forse quel giorno sarebbe stato uguale a tutti gli altri, e lui si stava preoccupando inutilmente, continuando a credere scioccamente ad una favola per bambini.

Continuò a rimuginare su quelle assurde fantasie per tutta la giornata, osservando di tanto in tanto la pioggia che scrosciava rumorosamente fuori dall'ospedale, picchiettando incessantemente sui vetri del suo studio. Ogni tanto gli tornavano alla mente le immagini di quella sera, il fastidioso rumore della pioggia, la telefonata ricevuta dalla polizia, la corsa all'obitorio. Rivedeva il volto sfigurato di Mary, sentiva la consistenza delle lacrime che bagnavano le sue guance, il rumore martellante del temporale che risuonava nella sua mente, più forte, sempre più forte.

Tornava alla realtà boccheggiando, disperato e senza fiato, con la costante sensazione di essere sprofondato un incubo che non gli dava tregua.

Per fortuna fu una giornata relativamente tranquilla, con pochi pazienti da visitare e molto tempo a disposizione per aggiornare e riordinare alcune vecchie cartelle, e fare un po' di pulizia nel suo piccolo e caotico ufficio, attività che gli permetteva di non pensare e di accontare i brutti ricordi che ancora tornavano ad ossessionarlo.

Erano le sette di sera, John non aveva altri appuntamenti segnati sull'agenda, e si sentiva abbastanza rilassato, dimentico dei pensieri angoscianti che gli avevano riempito la mente per tutto il pomeriggio.

Una volta che ebbe ripulito la scrivania, decise di concedersi una piccola pausa per andare a bere un caffè.

Per fortuna il distributore automatico nel corridoio era stato riparato, e potè selezionare velocemente la bevanda che gli interessava.

Stava mescolando distrattamente il liquido marrone scuro nel suo bicchiere di carta, quando una voce femminile alle sue spalle lo colse di sorpresa, facendolo quasi sobbalzare.

"Giornata difficile, eh?" La dottoressa Sarah Sawyer gli rivolse un sorriso cordiale, selezionando un cappuccino dal distributore e mettendosi accanto a lui mentre aspettava l'arrivo della sua bevanda calda.

John arrossì un poco, imbarazzato. Era stato distratto e sovrappensiero per tutto il giorno, aveva persino prescritto del viagra ad un'anziana signora con problemi di insonnia, probabilmente Sarah stava pensando che avesse perso il senno o qualcosa del genere.

Sospirò, massaggiandosi le tempie doloranti. "Sono stato meglio."

"Problemi sentimentali?" Sarah pronunciò quelle parole con un sorriso cordiale, assolutamente disinvolta, poi improvvisamente le sue guance si colorarono di un rosso acceso e si portò una mano alla bocca, mortificata. "Oh, John, mi dispiace tanto... io non intendevo dire... beh, insomma, so che ti stai ancora riprendendo dalla perdita di Mary, non volevo essere invadente..."

"Non c'è problema, davvero." John sorrise appena, mettendole una mano sulla spalla in una stretta amichevole e leggera. "Ormai non ho più problemi a parlarne, d'altronde sono passati due anni." Stava mentendo, Sarah lo capiva. D'altronde era la sua migliore amica, l'unica che sapeva ascoltarlo, consolarlo e dargli sempre i consigli giusti quando si sentiva perso e non sapeva più come andare avanti.

Era quasi come una sorella per John, che non le poteva mai nascondere cosa provava veramente.

Davanti alle sopracciglia aggrottate della pediatra infatti, John cedette per l'ennesima volta, sbuffando rassegnato. "E va bene, la verità è che... la verità è che non riesco a smettere di pensare a lei. Ci penso ogni giorno, mi manca tantissimo. E la cosa che mi fa più paura è che a volte, non riesco più ricordare il suono della sua risata, o il colore dei suoi occhi, o il timbro della sua voce." La voce gli si incrinò improvvisamente, gli occhi divennero lucidi. Stava facendo uno sforzo immane per non piangere, odiava essere compatito. "Capisci? La sto già dimenticando, e io non voglio... non voglio che succeda..."

"John..." Sarah gli posò una mano sul braccio, in una stretta delicata che voleva essere rassicurante, ma John si ritrasse un poco, cercando di ricomporsi. Dio, quanto doveva apparire patetico.

"Scusami, scusami tanto... a volte ci sono giorni più difficili di altri. Tutti cotinuano a dirmi che devo dimenticare il passato e concentrarmi di più sul presente e sul futuro che ho davanti ... non so, forse hanno ragione, dopotutto è già passato molto tempo da quando... "

"Cazzate."Lo interruppe lei decisa. "Per certe cose di tempo non ne passa mai abbastanza. Ehi, John, guardarmi." Sarah gli posò una mano sulla guancia, sollevandogli un poco il viso. "Non ascoltarli, mi hai capita? Tu non devi, e soprattutto non puoi dimenticarla. Mary è qui, capito?" Gli posò un dito sul petto, all'altezza del cuore, e sorrise. "Quando una persona è qui dentro, non se ne va mai, neanche ci proviamo con tutte le nostre forze."

John si asciugò gli occhi, sentendosi improvvisamente più sereno, mentre i suoi leggeri singhiozzi si affievolivano poco a poco. Rivolse a Sarah uno sguardo carico di riconoscenza, e dopo un breve momento di esitazione, la abbracciò. "Grazie, Sarah." Mormorò, passandole una mano sui lunghi capelli castani in una dolce carezza appena accennata.

"Non so come farei senza di te, dico davvero."

"Lo so, lo so, sono insostituibile." Scherzò la giovane pediatra, dandogli un colpetto affettuoso sulla spalla. "Ehi, mi è venuta un'idea!" Esclamò, illuminandosi improvvisamente. "Stasera vieni a casa mia, e ci abbuffiamo di gelato guardando vecchi film in tv, che ne dici? Non c'è modo migliore per scacciare la tristezza." Sarah era appena uscita da una storia particolarmente importante, ricordò John.

Circa un mese prima era toccato a lui consolarla, quando non si era presentata al lavoro per una settimana, e lui l'aveva prelevata a forza dal suo appartamento, dove giaceva scarmigliata e in lacrime.

Il suo fidanzato, George, un musicista ancora sconosciuto, l'aveva lasciata da un giorno all'altro, dopo più di cinque anni che stavano insieme, perchè sosteneva di essersi improvvisamente innamorato della sua manager. Sarah e George avevano persino cominciato ad organizzare il matrimonio, per questo la pediatra aveva visto frantumarsi tutti i suoi sogni e le sue speranze così in fretta da rimanerne scioccata a distrutta.

Ovviamente, nonostante cercasse di apparire sempre di buon umore, non si era ancora ripresa completamente, e lo dimostrava il fatto che volesse passare una serata intera a sfogare la sua frustrazione nel buon cibo e nella visione di pellicole sdolcinate e strappalacrime in compagnia del suo migliore amico.

"Allora?" Sarah lo fissava speranzosa, ancora in attesa di una sua risposta, mentre John cercava disperatamente una scusa per rifiutare l'invito. L'ultima volta che avevano dato una specie di pigiama party nell'appartamento di Sarah, la sua migliore amica si era ubriacata talmente tanto che alla fine gli aveva vomitato addosso, costringendolo a buttare via il suo maglione preferito.

"Va bene." Si arrese comunque, rendendosi conto che doveva almeno ricambiare gli innumerevoli favori che Sarah gli aveva fatto in quei due anni. "Ma devi promettermi che non ci saranno alcolici."

"E smettila, devi sempre farmi sentire in colpa?" Sarah gli diede una gomitata ridendo, cogliendo al volo l'allusione. "Almeno ho fatto sparire quel tuo orribile maglione, dovresti ringraziarmi."

"Come sarebbe a dire? Era il mio preferito!" Protestò John scandalizzato, mentre Sarah rideva ormai talmente forte che aveva i crampi allo stomaco e le lacrime agli occhi.

Ecco, erano momenti come quello che mancavano a John. Attimi sereni, senza pensieri, senza brutti ricordi e preoccupazioni che lo tormentavano. Per un istante, gli sembrò di essere ringiovanito, di essere tornato indietro nel tempo, quando la vita era così semplice, quando riusciva ancora a sentirsi felice.

"John! John!" La voce preoccupata di Sarah efce capolino nelle sue orecchie, distraendolo da quei sogni ad occhi aperti.

"Che c'è?"

"Il tuo cellulare sta squillando da un sacco di tempo, non lo senti?" Solo in quel momento, John si accorse che la suoneria del suo telefonino stava risuonando insistentemente nel silenzio del corridoio deserto.

Confuso poichè non aspettava alcuna chiamata, portò il cellulare all'orecchio. "Pronto?"

"John, sono io." Riconobbe all'istante la voce di Mike Stamford, cardiochirurgo, suo collega di lavoro e amico di vecchia data.

"Ciao, Mike. Sono sorpreso, non mi aspettavo di sentirti. Non ti eri preso qualche giorno di ferie perchè avevi la febbre?"

"Infatti è così, ma ho un favore urgente da chiederti. Ho bisogno che tu ti occupi di un mio amico."

"Che vuoi dire?"

Mike riprese a parlare con foga, mangiandosi quasi le parole. "Mi ha chiamato venti minuti fa, a stento riusciva a parlare. A quanto pare è arrivato nel suo appartamento, si è accorto che qualcuno era entrato, probabilmente un ladro che voleva rubare qualcosa, e un uomo incappucciato gli ha buttato della benzina sul viso prima di fuggire via."

"Della... benzina sul viso?" John era confuso, e si stava allarmando di più ogni secondo che passava. Perchè mai un comune ladro avrebbe dovuto portarsi dietro della benzina? "Soltanto sul viso?" Indagò, sospettoso.

"Sul viso e su una mano, dato che ha cercato di coprirsi il volto. Il resto del corpo è illeso, o almeno così gli è sembrato.

Ma adesso ascoltami bene. Lui sa che lavoro in una clinica privata, ha chiamato me perchè non vuole che la sua famiglia nè nessun altro sappia ciò che è successo.

E' un avvocato famoso, se fosse ricoverato in ospedale in un attimo lo saprebbe chiunque.

E' svenuto prima di potermi raccontare tutto, e io ho chiamato subito un'ambulanza a casa sua, che lo porterà direttamente alla clinica."

John intuì doveva voleva andare a parere, e si passò stancamente una mano sugli occhi, sconfortato. "Mike, tra un quarto d'ora stacco, se ne occuperà qualcun altro."

"No, John, non potrebbe occuparsene nessun altro se non tu. Santo cielo, sei il miglior chirurgo estetico della clinica! Di te mi fido ciecamente, lo sai."

"Lo so, Mike, ma davvero, tra poco devo andare via, e sono distrutto..."

"John, te lo sto chiedendo da amico. Sei il migliore là dentro, mi sentirei veramente più tranquillo se fossi tu ad operarlo."

Il più grosso difetto di John, se così si poteva chiamare, era che non sapeva assolutamente negare il suo aiuto a qualcuno che era in difficoltà, men che meno ad un amico o un familiare.

Sospirò. "Va bene, ci penso io."

"Te ne sono davvero grato, John, ti ringrazio di cuore. Lo lascio nelle tue mani." Mike stava per riattaccare, ma John lo bloccò.

"Aspetta, un'ultima domanda. Come si chiama?"

"Sherlock Holmes, sicuramente ne avrai sentito parlare."

"A dire il vero no, ma non importa. Avrò presto l'occasione per conoscerlo meglio."

Chiuse la chiamata, e davanti allo sguardo interrogativo di Sarah, John abbozzò un lieve sorriso, arrotolandosi le maniche del camice.

"Scusa, il party di stasera è annullato. Ho un caso urgente di cui occuparmi."

 

 

 

**

 

 

 

Come aveva previsto Mike, cinque minuti dopo l'ambulanza aveva accostato nel parcheggio della clinica. I paramedici avevano trasportato all'interno della struttura una barella su cui era disteso un uomo con il volto coperto dalla mascherina per l'ossigeno e gli occhi socchiusi.

John corse fuori in tutta fretta, informandosi velocemente sulle sue condizioni, accompagnandolo personalmente dentro la sua camera, e adagiandolo sul letto con l'aiuto di Sarah.

"Sul serio è stato un ladro a fargli questo?" Volle sapere quest'ultima, osservando un po' impressionata il paziente che giaceva sul letto ancora privo di sensi.

John si strinse nelle spalle. "Mike dice che lui ha detto così. Ma qualcosa non quadra, è evidente che fosse tutto premeditato. Chiunque l'abbia aggredito, aveva il chiaro intento di sfigurarlo."

"Ma perchè fare una cosa del genere? Insomma, chi potrebbe essere stato a ridurlo in questo modo?"

"Ehi, io sono ancora nella stanza." John e Sarah sobbalzarono nel sentire una voce profonda e baritonale, rendendosi conto che Sherlock aveva aperto gli occhi, pronunciando quelle parole con tono sarcastico ma evidentemente debole e affaticato.

John si avvicinò lentamente per togliergli la mascherina dell'ossigeno, sia per consentirgli di parlare che per vedere la gravità delle lesioni.

Rimase in silenzio per parecchi secondi, senza sapere cosa dire.

L'uomo che aveva di fronte non doveva avere più di trent'anni, ma il suo volto, circondato da una voluminosa massa di ricci neri come l'inchiostro, era irriconoscibile. Spesse cicatrici segnavano la fronte, gli occhi e le guance, un taglio profondo gli attraversava le labbra spaccate, rendendo del tutto impossibile identificare con chiarezza i suoi lineamenti.

"Dal suo silenzio deduco che sono più spaventoso di quello che pensavo." Nel tono sarcastico e un po' incrinato di Holmes si potevano chiaramente percepire tracce di paura, ma John, nonostante nella sua carriera avesse visto molte lesioni di quel tipo, non riusciva proprio a trovare parole per rassicurarlo. Anzi, non riusciva proprio a spiccicare parola.

Sarah gli rifilò un pizzicotto sul fianco, riservandogli la sua migliore occhiata omicida. "Salve, io sono la dottoressa Sawyer, e lui è il mio collega John Watson, il miglior chirurgo estetico che abbiamo. Lo scusi, oggi ha avuto una giornataccia, ma le posso garantire è in ottime mani, non ha nulla di cui preoccuparsi."

"Sono sicuro che lei sarebbe più che preoccupata, signorina, se si trovasse al mio posto e avesse davanti due idioti che non si degnano neppure di informarmi sulle mie condizioni."

Il sorriso scomparve dalle labbra di Sarah, che fissò John mortificata e ammutolita, mentre quest'ultimo sentì la rabbia montare rapidamente dentro di lui. Non era mai stato un tipo paziente, ma almeno sul posto di lavoro doveva cercare di mantenere un certo controllo.

"I due idioti in questione non sono abituati a scenate di questo tipo da parte di pazienti arroganti e maleducati che stanno solo cercando di aiutare, perciò voglia scusarci se non siamo stati subito in grado di risponderle in modo adeguato." Sherlock rimase in silenzio, sollevando appena un angolo delle labbra in un leggero sorriso divertito, ma il suo viso fu subito attraversato da una smorfia di dolore e si lasciò sfuggire un piccolo gemito.

"Allora, signor Holmes..." John gli si fece più vicino, esaminandone attentamente il volto, già dimentico del piccolo battibecco di pochi secondi prima, improvvisamente assalito da una preoccupazione che non sapeva spiegarsi. L'istinto del medico, senza dubbio.

"Sherlock." Lo interruppe subito quello con voce insolitamente più morbida, e John annuì in riposta.

"Bene, Sherlock, adesso devo visitarla."

"Che strano, pensavo che avremmo fatto un pic nic insieme."

John lo ignorò, estraendo una piccola torcia dal taschino del camice e mettendogliela davanti agli occhi. Le pupille rimasero immobili.

"Riesce a vedermi?"

"Non vedo assolutamente niente, dovrebbe averlo capito dato che le mie cornee non hanno presentato alcun riflesso durante tutto l'arco di tempo che lei e la sua collega avete trascorso in questa stanza."

"Se ci tiene tanto a fare il saputello, allora risponda a questo: quale idiota senza cervello si mette ad insultare il dottore che ha cuore soltanto il suo benessere e la sua salute, e che si sta sforzando soltanto di farlo stare meglio?" Sbottò John, perdendo definitivamente la calma.

Con grande sorpresa di John, Sherlock non sembrò in alcun modo arrabbiato, anzi, il suo tono esprimeva calma rassegnazione, mista ad un turbamento che John non seppe identificare. "Mi sembra ovvio che non potrebbe guarirmi in alcun modo, neanche se lo desiderasse con tutte le sue forze. Ustioni di quarto grado su più del 95% dei tessuti molli, perdita totale della vista, probabilmente permanente, indebolimento permanente delle vie respiratorie... davvero devo continuare, John? Sia sincero, quanti casi di questo tipo è riuscito a curare? Non ho alcuna speranza, lo ammetta."

John avrebbe dovuto arrabbiarsi, ma c'era qualcosa nelle parole di quell'uomo tanto duro eppure fragile, qualcosa in quel tono che voleva essere insolente, ma che lui percepiva solanto come una velata supplica colma di disperazione, in quelle lacrime che si sforzava di trattenere, malgrado la voce fosse attraversata da un lieve tremito e gli occhi fossero stranamente lucidi, che fece soltanto aumentare in lui la determinazione ad aiutarlo e a cancellare quell'espressione sofferente che non riusciva più a sopportare.

"Lasci giudicare a me quale caso è senza speranza e per quale c'è ancora una possibilità. Adesso le dirò cosa faremo. Per prima cosa, dobbiamo bendarle il viso e assicurarci che non filtri nessun tipo di luce dall'esterno. Dopo due ore potremmo operarla, e più tardi l'oculasta le darà un'occhiata e sarà in grado di dire se la perdita della vista sarà permanente o temporanea. In ogni caso io sarò qui accanto a lei per tutto il tempo, e se ha bisogno di qualcosa, o vuole che risponda a qualche sua domanda, sono a sua disposizione."

Non avendo ottenuto risposta, John proseguì: "Io voglio aiutarla, ma lei deve mettersi in testa che il processo di guarigione sarà lungo e difficile. Deve lottare, Sherlock, deve lottare con tutte le sue forze, mi ha capito?"

Sherlock non rispose, mantenendo ostinatamente lo sguardo fisso davanti a sè, come se non stesse neppure ascoltando. Ma John sapeva che aveva sentito le sue parole, glielo leggeva negli occhi, quegli occhi dal particolare colore azzurro-verde che lo guardavano senza vederlo realmente. Fu un istante brevissimo, ma in quegli occhi John scorse il riflesso di un dolore bruciante, di un'anima ferita e delusa.

John era in grado di riconoscere quella tristezza, perchè era la stessa che vedeva impressa nei suoi occhi ogni mattina, quando aveva la pessima idea di guardarsi allo specchio e vedeva soltanto il guscio vuoto della persona che era stato un tempo.

In quel momento, si sentì vicino a Sherlock come non mai. Avrebbe vloluto dirgli che sarebbe andato tutto bene, che le cicatrici sarebbe scomparse e che il suo volto sarebbe tornato come prima, ma non era un ipocrita e sapeva che Sherlock non avrebbe mai creduto ad una consolazione così sciocca. Ma poteva dirgli che le cicatrici del cuore sono ben più dolorose di quelle che restano sulla pelle, che di quelle bisognava davvero avere paura.

Alla fine, sorrise incoraggiante anche se Sherlock non poteva vederlo, e disse soltanto: "Verrà subito un'infermiera con le bende e un antidolorifico, io tornerò più tardi." Si schiarì la voce, divenuta improvvisamente roca, e fece un cenno a Sarah, che lo seguì fuori dalla stanza mormorando un debole "si riposi."

John chiuse la porta alle sue spalle, liberando tutta la tensione accumulata con un pesante sospiro. "Che c'è?" Si accigliò, rendendosi improvvisamente conto dello sguardo insistente di Sarah.

La pediatra lo guardò completamente innocente. "Niente, niente."

"Avanti, so che vuoi dire qualcosa."

Sarah non si fece pregare due volte. "Credo che quel tipo ci stia nascondendo qualcosa. E credo anche che tu abbia capito di cosa si tratta."

"Anch'io credo che nella sua versione ci sia qualcosa che non quadra. Non ci ha nemmeno detto di chiamare la polizia, probabilmente non vuole neanche sporgere denuncia contro il suo aggressore." Convenne John, pensieroso. "Chiunque si fosse presentato a casa sua, non aveva intenzione di rubare proprio niente. Anzi, secondo me era tutto premeditato. Qualcuno che odiava Sherlock a tal punto da voler distruggere la sua immagine si è introdotto nel suo appartamento, aspettando che tornasse dal lavoro per aggredirlo. Chiunque fosse, sicuramente Sherlock lo conosce. Anzi, probabilmente lo ha persino visto in faccia prima che gli gettasse la benzina e lo accecasse. Ma allora perchè non ci ha detto il suo nome?"

"Caspita, il tuo ragionamento è perfetto! Non sapevo avessi doti investigative del genere!"

"Era piuttosto semplice da capire, in realtà." Si schermì John, di fronte all'entusiasmo di Sarah. "A dire la verità, non è detto che il mio ragionamento sia corretto. Sherlock non mi è parso arrabbiato con la persona che lo ha ridotto in quel modo, anzi, era così..."

"Stronzo?" Suggerì Sarah.

"Triste. Era triste. Non solo per quello che è successo al suo viso, anzi, sembrava perfettamente lucido riguardo alle sue condizioni. No, c'era qualcosa di più... è una sensazione, non so in che modo spiegartelo."

"Sei sicuro che stiamo parlando della stessa persona? Ci ha insultati e ci ha anche spiegato come dobbiamo svolgere il nostro lavoro!"

"Il suo atteggiamento ostile mi è sembrato soltanto una barriera per non consentirci di capire cosa prova veramente. Stava soffrendo, l'ho visto chiaramente."

"Bene, non solo sei un detective, ora nel tempo libero fai anche l'indovino."

"Non scherzare Sarah, io stavo parlando sul serio."

"D'accordo, d'accordo, come vuoi. Solo... non prendertela troppo a cuore, va bene? Sono convinta che quell'uomo non meriti poi così tanta compassione."

John annuì distrattamente. "Devo chiamare la polizia, questa storia deve essere assolutamente chiarita al più presto."

Sarah scosse la testa con divertita rassegnazione, rendendosi conto che non aveva ascoltato una sola parola di ciò che aveva detto. "Bene." Esclamò, stiracchiando le braccia. "Probabilmente l'operazione andrà per le lunghe. Avrai bisogno di qualcuno che ti tenga compagnia, no?"

 

 

 

**

 

 

Due ore e mezzo più tardi, John aveva già indossato camice, guanti di lattice e mascherina protettiva, ed era pronto ad entrare in sala operatoria. Sarah, acciambellata su una poltrona in sala d'attesa, con un bicchierone di caffellate in una mano e una rivista nell'altra, gli sorrise mostrandogli il pollice in su mentre lui stava varcando la soglia.

Emettendo un lungo sospiro, John avanzò fino al lettino su cui era seduto Sherlock, vestito soltanto con una leggera camicia da notte bianca a fiorellini, probabilmente fornita dal personale dell'ospedale.

Sembrava ancora più magro ed esile di quanto ricordasse, e ciò non fece altro che esaltarne l'aspetto fragile agli occhi di John.

La mano ustionata era già stata fasciata, almeno quella sarebbe guarita abbastanza in fretta.

Un'infermiera gli stava togliendo con cura le bende dal volto, e man mano che la stoffa bianca cedeva e una porzione di pelle restava scoperta, John sentiva crescere la rabbia verso chi aveva osato deturpare quei lineamenti.

"John?" La voce di Sherlock, incerta e sottile come quella di un bambino spaventato, lo colpì con la stessa violenza di uno schiaffo in pieno viso.

Deglutì, in gola gli si era formato uno strano nodo. "Ehi." Mormorò, cercando di far suonare la sua voce più rassicurante possibile, abbandonando il tono rigido e informale per rivolgersi a lui con rinnovata familiarità. Istintivamente, gli posò una mano sulla spalla, e lo sentì trattenere bruscamente il respiro, incavando la pancia. Doveva essere terrorizzato, e John ritrasse di scatto la mano, petendosi subito di quel gesto.

"Come hai fatto a capire che ero io?" Chiese per spezzare la tensione, e Sherlock sollevò un poco gli angoli della bocca.

"Ho riconosciuto il tuo passo." Seguì qualche secondo di silenzio, poi l'infermiera rimosse finalmente anche l'ultima benda, e il volto di Sherlock fu di nuovo ben visibile.

John scoprì di non sopportarne la vista un secondo di più, e si girò cautamente, sperando che Sherlock non percepisse lo spostamento d'aria che aveva creato con il suo movimento.

"Adesso... adesso dobbiamo rimuovere gli strati di pelle morta, poi domani ti operiamo di nuovo, prendiamo della pelle dall'interno coscia e la sostituiamo con quella che abbiamo tolto."

"Lo so, conosco la procedura."

"Bene... bene." John era un po' stupito, ma in fondo non era poi così meravigliato che un uomo intelligente come Sherlock fosse a conoscenza anche di come si sarebbe svolta l'operazione. Mike gli aveva detto che era un avvocato, e anche piuttosto famoso.

Doveva essere una persona veramente brillante, anche se non propriamente un asso ad incoraggiare i rapporti umani.

Forse il responsabile di tutto questo era una persona che lo odiava per il suo successo? Probabile, ma non era una certezza.

Decise che era giunto il momento di fare chiarezza. "Sherlock..." Cominciò un po' esitante. "Questa sera ti operiamo e avrai bisogno di riposare, ma domani verranno degli agenti di polizia ad interrogarti. Capisci, vogliono sapere cos'è successo nei dettagli, se intendi sporgere denuncia..."

"Un ladro si è introdotto a casa mia per rubare e io l'ho colto con le mani nel sacco. Nel panico, mi ha gettato addosso della benzina che aveva con sè per chissà quale motivo ed è fuggito. Non sono in grado di identificarlo nè di fornirne una descrizione, è successo tutto troppo in fretta. Una dinamica semplice, banale. Ecco qua, risolto."

"Non hai risolto proprio un bel niente. Perchè un ladro che vuole rubare a casa tua si porterebbe dietro della benzina, e perchè gettartela soltanto sul volto e non sul corpo? Nella colluttazione, poteva espandersi anche in altre zone, e invece no, la benzina è finita soltanto sul tuo viso e sulla tua mano destra, perchè hai cercato di proteggerti.

E' stato fatto tutto con troppa cura, capisci? La polizia non può non indagare."

"Che indaghino pure allora, ma da me non avranno alcuna collaborazione. Ho già detto che non sono in grado di identificare il colpevole."

"Sherlock, ti rendi conto che questa persona ti ha sfigurato?"

"Ottimo spirito di osservazione, dottore."

John l'avrebbe volentieri preso a sberle in quel momento. Ma prima che potesse mettere in pratica il suo proposito, un'altra infermiera di mezza età con le guance paffute afferrò Sherlock per un braccio, strattonandolo energicamente per posizionarlo sul tavolo operatorio.

"Bene, tesoro, adesso cominciamo." Disse, infilandogli l'ago della flebo nel braccio. Sherlock rimase immobile, senza protestare nè emettere un solo lamento. Sembrava impassibile, ma John poteva vedere chiaramente i tumulti che lo agitavano rispecchiarsi nei suoi occhi chiari.

"Andrà tutto bene. Non avere paura." Le parole gli uscirono dalle labbra prima che potesse rifletterci, e un attimo si morse la lingua, desiderando subito rimangiarsi quel tono dolce. Insomma, non era arrabbiato con lui fino a un minuto fa?

"La paura è saggezza di fronte al pericolo. Sarei stupido se non ne avessi." Inaspettatamente, la risposta tranquilla e scherzosa di Sherlock fece nascere un sincero sorriso sul suo volto. No, non riusciva ad essere arrabbiato con lui, non veramente.

L'infermiera mise la maschera con l'anestetico sul volto di Sherlock, che dopo un paio di respiri profondi, si addormentatò profondamente.

Non appena le sue palpebre si abbassarono, John sentì il suo coraggio venire meno.

Al volto di Sherlock si sovrappose quello di Mary dopo l'incidente, ricoperto di tumefazioni e completamente irriconoscibile.

Mary era morta, ma Sherlock era ancora vivo, e poteva ancora aiutarlo, realizzò improvvisamente.

Non si sarebbe arreso, di questo era sicuro. La mano sinistra, finalmente, smise di tremare. Afferrò il bisturi e cominciò ad incidere.

 

 

 

 

**

 

 

 

"E' andato tutto bene?"

Quando John uscì dalla sala operatoria, più di tre ore dopo, esausto ma soddisfatto, trovo Sarah ad accoglierlo con sguardo preoccupato.

"Tutto come previsto."

"Dalla tua faccia non si direbbe. Hai un aspetto orribile."

"Grazie tante. Non è stata una passeggiata, ma il primo passo l'abbiamo compiuto."

"Senti, hai provato a parlargli riguardo a quello che è successo? Non vuole sporgere denuncia?"

"Dice che non è in grado di identificare il colpevole, una denuncia sarebbe inutile. Secondo lui è stato solo un ladro maldestro che è stato colto dal panico, ma io non ci credo. Ha provocato lesioni soltanto al volto, la premeditazione è evidente."

"E perchè mai qualcuno avrebbe dovuto fargli una cosa del genere?"

"Magari qualcuno che lo odiava, o qualcuno invidioso nel suo successo, della sua ricchezza, della sua fama, altrimenti non saprei. Mike ha detto che è un avvocato piuttosto famoso, probabilmente aveva più di un nemico." John si fermò improvvisamente, guardando l'orologio che aveva al polso. "E' mezzanotte passata, non credi sia ora di andare a casa?"

"Eh no, non se ne parla, voglio vedere come si evolve questa storia."

"Allora temo che dovrai aspettare domani per sapere l'esito. Ho chiamato la polizia, verranno ad interrogarlo in mattinata, il pomeriggio lo operiamo di nuovo. Ma non farti illusioni, non credo abbia intenzione di collaborare."

Appena pronunciate queste parole, vide un'infermiera avviarsi con passo veloce proprio in direzione della stanza di Sherlock, e improvvisamente agitato, le corse dietro senza pensarci due volte.

Varcò la soglia, per poi bloccarsi come una statua di pietra, incapace di compiere il più piccolo movimento. Sherlock si dimenava inutilmente sul letto, emettendo mugolii di dolore di tanto in tanto.

"Che succede?" Urlò quasi, risvegliandosi dalla sua trance e avvicinandosi il più possibile, congedando l'infermiera con un cenno della mano.

"La faccia... mi fa male da impazzire. John... John, aiutami. Non ce la faccio, non ce la faccio..." Sherlock singhiozzava, e anche se non poteva vederlo in volto a causa delle bende che coprivano tutto tranne la bocca, John immaginava che le lacrime stessero correndo senza sosta sulle sue guance.

"Sherlock... Sherlock, non puoi piangere, l'acqua danneggerà tutto il nostro lavoro..." Mormorò debolmente, ma lui non lo stava ascoltando. Gli afferrò un lembo del camice, stringendolo con forza. "John, non ce la faccio... non ci riesco, non ci riesco, il dolore è troppo forte..."

"Sei già imbottito di morfina, non posso darti altro." Dio, si sarebbe cavato gli occhi pur di non dover sopportare la vista di Sherlock, così piccolo e così fragile, raggomitolato in quel letto d'ospedale che piangeva e implorava aiuto, completamente perso, completamente solo e abbandonato a se stesso.

Un medico professionale l'avrebbe incoraggiato a tenere duro e l'avrebbe lasciato a sopportare la sua sofferenza, ma con sorpresa e turbamento, John si rese conto che quando si trattava di Sherlock non riusciva più a ragionare lucidamente.

In un gesto quasi automatico, si sedette al suo fianco sul letto, gli prese la testa con entrambe le mani e se la posò sul letto, cullandolo in una stretta delicata ma salda.

"Sshh... va tutto bene, va tutto bene." Ripetè come una litania, forse più a se stesso che a lui, mormorando parole incoraggianti tra i suoi capelli.

"Va tutto bene, ci sono io. Ci sono io, non ti lascio. Non ti lascio."

Sherlock si aggrappò alla sua schiena, stringendolo con una forza di cui non lo credeva capace, come se volesse fondere i loro corpi, ma dopo poco si abbandonò tra le sue braccia con la stessa fiducia di un bambino che sprofonda nell'abbraccio della madre.

Poco a poco, il petto di Sherlock smise di tremare sotto i violenti singhiozzi, e il suo respiro si regolarizzò.

Si era addormentato, realizzò John. Mentre continuava a tenerlo stretto, sentì nascere il desiderio di proteggere quella creatura indifesa da qualsiasi cosa che avrebbe potuto fargli male.

Era un pensiero ridicolo, se ne rendeva conto, ma finchè ci sarebbe stato lui, Sherlock non poteva soffrire, non lo avrebbe permesso.

Con delicatezza, si sciolse dall'abbraccio e appoggiò la sua testa sul cuscino, sistemandogli le coperte sotto il mento.

Avrebbe trovato il colpevole, promise John a se stesso, lo avrebbe trovato a tutti i costi, e gli avrebbe inflitto la stessa pena.

Con una mano già sulla maniglia della porta, si bloccò improvvisamente. Sherlock si era girato su un fianco e aveva borbottato qualcosa nel sonno.

Un nome... sì, aveva pronunciato un nome, prima di abbandonarsi completamente al mondo dei sogni, o forse degli incubi. "James..."

 

 

 

**

 

 

La mattina successiva, John fu svegliato di soprassalto dalla voce della dottoressa Sawyer. "John, svegliati... John, sono le otto del mattino..." Sarah lo scosse delicatamente per una spalla, ma vedendo che non accennava ad aprire gli occhi, estrasse il cellulare dalla borsa, digitò qualcosa e qualche secondo dopo la suoneria del telefonino del chirurgo, con il volume impostato al massimo, invase la stanza.

John si alzò di scatto in piedi, come spinto da una molla, guardandosi attorno confuso. "Ho ricevuto un messaggio..." Borbottò assonnato tra sè e sè, guadagnandosi la risata di Sarah.

"Sono stata io, non ti svegliavi neanche con le cannonate! A quanto pare hai avuto la brillante idea di dormire nel tuo studio..."

John lanciò un'occhiata alla stanza, rendendosi conto di essersi proprio addormentato alla sua scrivania. "Devo essere crollato ieri sera..." Mormorò trattenendo a fatica uno sbadiglio.

"Lo vedo. Comunque sono venuta a dirti che nella stanza del tuo paziente preferito sta avendo luogo una riunione di famiglia un po' movimentata."

"Il mio paziente preferito?" John aggrottò le sopracciglia senza capire, guadagnandosi l'occhiata esasperata di Sarah.

"Sì, Mister Simpatia."

"Sherlock Holmes?" Lo sguardo di John mutò immediatamente, divenendo il ritratto stesso dell'angoscia. " Sta bene? E che intendi dire con riunione di famiglia?"

Sarah alzò le spalle con noncuranza, ma sotto sotto sembrava divertita.

"Non so come, suo fratello è venuto a sapere che è ricoverato qui per delle gravi ustioni al volto, e ovviamente ha pensato bene di avvisare anche i genitori. Non sai che scena ti sei perso... John, dove vai?"

"Sherlock ha bisogno di riposo, non può vedere nessuno. Vado nella sua stanza, devo dire ai suoi genitori di venire a trovarlo soltanto durante l'orario delle visite... ah, e tanto per mettere le cose in chiaro, io non ho pazienti preferiti, cercò solo di fare bene il mio lavoro."

"Certo, certo..." Mormorò Sarah con un sorriso quasi intenerito, anche se ormai John aveva già sbattuto la porta alle sue spalle.

Alla pediatra tornò in mente la scena della sera prima. Mentre stava passando per il corridoio, attraverso il vetro della stanza aveva visto John abbracciato a Sherlock come se fosse la sua unica ancora di salvezza. E quella mattina, nonostante avesse dormito pochissimo, John aveva il volto più disteso che gli avesse mai visto, ed era animato da una determinazione nuova.

Non sapeva cosa stesse succedendo esattamente al suo amico, ma aveva un buon presentimento.

 

 

 

**

 

 

"Povero bambino, chi ha potuto fare questo a mio figlio?" Violet Holmes si appoggiò alla spalla del marito, senza sforzarsi minimamente di contenere i singhiozzi. Siger la strinse a sè nel tentativo di calmarla, ma lei proprio non voleva saperne di smetterla di agitarsi.

"Oh, tesoro, ma com'è potuto succedere? Adesso stai meglio? Cosa dicono i dottori? Sei sicuro di non aver visto chi è stato? Oh, mio Dio, com'è possibile, non riesco a crederci..."

Sherlock sbuffò esasperato, spostandosi da un lato appena in tempo per evitare l'ennesimo abbraccio stritolante della madre.

Non poteva vedere i suoi genitori, ma il tono irritante di Violet gli aveva già fatto venire un principio di mal di testa. Era lì dentro solo da un quarto d'ora e non aveva smesso per un attimo di subissarlo di inutili domande.

"Suppongo sarai contento, Mycroft." Sibilò Sherlock rivolto al fratello maggiore, con tono carico di astio, mentre nel frattempo la madre era scoppiata a piangere per l'ennesima volta e Siger tentava in tutti i modi di calmarla.

L'interpellato non perse la calma, abbozzò addirittura un sorrisetto sardonico. "Non era certo mia intenzione provocare un infarto alla nostra povera mamma. Anzi, mi azzerderei ad ipotizzare che rientrasse invece nei tuoi progetti. Perchè non ci hai chiamati subito?" Aggiunse, improvvisamente più serio.

"Perchè immaginavo quello che sarebbe successo. Che stupido, tu sai sempre tutto, è impossibile tenerti nascosto qualcosa."

"E' il mio lavoro, Sherlock. Dovresti ringraziarmi per il mio intervento. " Il tono accondiscendente e compassionevole di Mycroft non fece altro che far evaporare la già scarsa pazienza di Sherlock.

"Il tuo lavoro non prevede di piazzare una telecamera nel mio appartamento per spiare quello che faccio."

"Non c'era una sola telecamera. E il mio lavoro è tenere d'occhio-" Mycroft accentuò con tono perentorio le ultime parole. "-tutti i cittadini di Londra, in particolar modo quelli che possono rapprsentare una minaccia per se stessi e per gli altri. Ad ogni modo i miei metodi si sono rivelati utili. Abbiamo identificato subito l'uomo che si è introdotto a casa tua, e l'abbiamo fermato mentre cercava di fuggire. E' un dilettante, non è riuscito a percorrere nemmeno venti chilometri prima di essere arrestato. Non ringraziarmi." Concluse sarcastico, ma inaspettatamente, Sherlock non ebbe alcuna reazione, non chiese nemmeno il nome del suo aggressore.

Mycroft proseguì. "Si chiama Sebastian Moran, è già stato arrestato diverse volte in passato per possesso e spaccio di eroina, rapina a mano armata e tentato omicidio. Purtroppo non c'erano mai prove sufficienti, e la polizia è stata costretta a rilasciarlo.

Lo hanno interrogato per tutta la notte, ero presente anch'io, ma si rifiuta di collaborare.

Adesso devi dirmi la verità, Sherlock: lo conoscevi? E' stato l'irresistibile richiamo del vizio, o un conto in sospeso tra lo spacciatore e il consumatore?"

"Non sono un consumatore, ne faccio uso occasionalmente, e sono io a calcolare le dosi."

"Come preferisci, se non vuoi dirmi la verità lo scoprirò da solo."

"Ragazzi, smettetela!" Tuonò Violet asciugandosi gli occhi e prendendo il volto di Sherlock tra le mani. "Qualcuno ha fatto questo al mio bambino, e se scoprirò chi è stato mi trasformerò in un mostro orrendo."

"Mamma, ti prego..." Mugugnò Sherlock infastidito, nel tentativo di scrollarsela di dosso.

Non c'era niente di peggio che essere bloccato nella stessa stanza con Mycfrot e i suoi genitori, senza alcuna via di fuga.

Fortunatamente, in quell'esatto istante entrò il dottor Watson. Sherlock aveva riconosciuto il suo passo leggermente strascicato, e lottò per reprimere un sorriso. "Buongiorno, John." Lo salutò, ancora prima che lui parlasse. Seguì qualche attimo di silenzio, ma prima che John potesse rispondergli, Violet lo aggredì letteralmente.

"E' lei il medico di mio figlio? Come sta? E' vero che oggi lo operate di nuovo? Tornerà come prima, vero?"

"Non posso rispondere alle sue domande con assoluta certezza, mi dispiace. Le ustioni sono molto gravi, ma stiamo facendo del nostro meglio per rimediare."

"Come sarebbe a dire?"

"Signora, si calmi. Per adesso posso soltanto dirle che Sherlock ha bisogno di riposo, e che nel pomeriggio lo opereremo di nuovo.

Perciò adesso dovete uscire, tornerete a fargli visita nell'orario apposito.

Fino a domani, comunque, sarebbe meglio che restasse solo."

"Sentito, mamma? Ordini del dottore." Replicò trionfante Sherlock, prima che Violet potesse obbiettare qualcosa.

"Su, andiamo cara." Siger le circondò le spalle con un braccio, e lei annuì tremante, dopo un attimo di esitazione. "Riguardati, tesoro." Mormorò con voce tremula prima di uscire.

John fissò l'uomo in giacca e cravatta con un elegante ombrello in mano, al fianco del letto, che gli restituì uno sguardo imperscrutabile, apparentemente privo di qualsiasi emozione. "Deve uscire anche lei, sono desolato."

"Sei ancora qui?" Sbottò Sherlock, incapace di contenere il fastidio.

Mycroft lo guardò per un'ultima volta, poi scosse la testa in segno di disapprovazione, e in silenzio si allontanò, senza aggiungere altro.

Prima di uscire dalla stanza però si avvicinò a John. "Lo tenga d'occhio, dottore. Ha bisogno di qualcuno che vegli su di lui." Sussurrò prima di lasciare la stanza.

"Finalmente se ne sono andati tutti. Il tuo intervento è stato davvero tempestivo, John." Esclamò Sherlock appena il medico ebbe chiuso la porta alle sue spalle, con un sospiro liberatorio.

"Guarda che non era mia intenzione farti un favore, in questo orario le visite non sono ammesse, tutto qui. Allora, come va?"

"Ho avuto giorni migliori." Si limitò a rispondere Sherlock, ma questa volta non c'era traccia di sarcasmo nella sua voce, sembrava solo profondamente stanco. All'improvviso, a John tornarono in mente le immagini della sera prima, e dovette fare uno sforzo enorme per scacciarle. Non doveva farne parola con Sherlock, che dal canto suo sembrava non ricordare assolutamente nulla di quanto era avvenuto.

"Mi spieghi come ha fatto tuo fratello a sapere che eri ricverato qui?" S'informò, giusto per rompere il ghiaccio e riempire il silenzio teso che era sceso tra loro.

"Lui sa sempre tutto."

"Non è una risposta molto precisa."

"Ha un piccolo impiego nel Governo Inglese, sei soddisfatto ora?"

John rimase a bocca aperta qualche secondo, poi rise, incredulo. "Stai scherzando, vero?"

"Non amo gli scherzi. Mycfort è un amico intimo della Regina, anche se non me l'ha ancora presentata. Oh no, mi correggo, una volta voleva presentarmi un membro della famiglia reale coinvolto in uno scandalo sessuale, e un paio dei suoi gorilla sono venuti a prelevarmi nel mio appartamento per portarmi a Buckingam Palace. Ero coperto soltanto da un lenzuolo."

"O mio Dio." John si portò una mano alla bocca per trattenere una risata. "Non posso crederci. Tu sei completamente matto!"

Anche le labbra di Sherlock si piegarono in un sorriso divertito, contagiato dall'ilarità del dottore. "Vorrei che mio fratello avesse il tuo stesso senso dell'umorismo. Invece quando mi ha visto è diventato quasi verde di rabbia, avresti dovuto vederlo."

"Mi sarebbe piaciuto esserci." Confessò John di getto, sorridente ma con tono improvvisamente più serio.

Il tono della conversazione sembrava essersi fatto improvvisamente più familiare, quasi intimo, e se Sherlock sembrò non prestarvi alcuna attenzione, John pensò che in quel momento, in cui erano entrambi più rilassati e Sherlock sembrava essere più a suo agio, avrebbe potuto chiedergli una cosa che gli ronzava nella mente fin dalla sera prima, un pensiero martellante che non riusciva proprio a scacciare.

"Sherlock..." Iniziò, cauto. "Tu ricordi qualcosa... ricordi qualcosa di quello che è successo ieri?"

"Credo che ricorderò quella giornata per tutta la mia vita, John."

Rendendosi conto dell'errore appena commesso, John si diede mentalmente dello stupido. "No, no... io non intendevo... dopo l'operazione, ecco. Ti ricordi cosa è successo dopo l'operazione?"

"Dovrei ricordarmi qualcosa in particolare?" Il tono di Sherlock era leggermente stizzito, ma John si rese conto che era genuinamente confuso e dunque non ricordava assolutamente niente di ciò che aveva fatto o detto.

"Stavi molto male. Dicevi di sentire dolore dappertutto, e deliravi." Cercò di restare sul vago, evitando i dettagli imbarazzanti sull'abbraccio che si erano scambiati. "Ad un certo punto hai anche detto un nome... James, mi pare. Se non sono indiscreto, posso sapere chi è?" Ecco, l'aveva detto.

Non si aspettava una risposta particolarmente esauriente, aveva capito che Sherlock era un tipo piuttosto riservato e diffidente, e che d'altro canto la sua curiosità era piuttosto immotivata, ma chissà perchè, era convinto che quel particolare fosse collegato all'aggressione.

Sorprendentemente, Sherlock rispose in fretta, con un tono duro che non gli aveva mai sentito prima di quel momento. "Non credo ti riguardi, John, ma se proprio ci tieni tanto, è mio collega di lavoro. Un mio vecchio amico, se vogliamo essere precisi."

John avrebbe voluto chiedergli perchè mai avrebbe dovuto invocare il nome di questo James mentre stava così male, in una situazione così disperata, quando scorse un uomo e una donna in divisa che stavano attraversando il corridoio, e sembravano diretti proprio verso la la stanza di Sherlock.

"Dannazione!" Imprecò a mezza voce, rendendosi conto che si era completamente scordato della visita della polizia.

"John, che succede?"

"Okay, Sherlock, non ti arrabbiare, ma stanno arrivando..." Due colpetti decisi risuonarono sulla porta, e John si prese la testa tra le mani, preparandosi ad una scenata da parte del suo paziente.

"Avanti." Disse piano, e la porta si aprì, lasciando entrare una donna di colore con una folta massa di ricci scuri e un uomo con i capelli brizzolanti e lo sguardo stranamente cupo.

"Salve, sono Gregory Lestrade, ispettore di Scotland Yard." Si presentò quello, porgendo la mano a John. Il medico la strinse con calore, avvertendo un'istantanea simpatia per quell'uomo dai modi gentili.

"John Watson, lieto di conoscerla."

"E così sei già al corrente dell'accaduto. E' stato mio fratello a parlartene?" Intervenne Sherlock, improvvisamente scostante. "Non ho bisogno della tua pietà, puoi anche andartene, tanto qui non c'è niente di interessante da vedere."

"Veramente non sono qui per una visita di cortesia... è stato il tuo dottore è chiamarmi."

"John, che significa?"

John guardò prima l'uno poi l'altro, spaesato, infine si arrese. "Non ci sto capendo niente, qualcuno vuole spiegarmi la situazione?"

"Conosco Lestrade da cinque anni, lui mi forniva materiale riservato della polizia e io risolvevo più in fretta le mie cause. Bene, se vuoi sapere altro, adesso puoi dirmi cosa ci fa lui qui?" Rispose in fretta Sherlock, evidentemente stizzito.

"Ieri sera ti ho detto di aver chiamato la polizia che sarebbe venuta ad interrogarti, non immaginavo conoscessi l'ispettore."

"Bene, adesso lo sai. E sai anche che il colpevole è già stato arrestato, quindi non c'è alcun motivo per cui lui debba restare qui."

"Sherlock, capisco che tu non voglia rispondere a nessuna domanda in questo momento, ma noi abbiamo il dovere di indagare comunque, e prima o poi avremmo bisogno della tua deposizione. Tanto vale farlo subito, no?"

"Anche se rispondessi alle vostre domande non vi sarei di alcun aiuto. Siete così incompetenti che non riconoscereste in colpevole nemmeno se ce l'avesse scritto in fronte."

"Ehi, strambo, adesso smettila, stiamo soltanto facendo il nostro lavoro!" Intervenne la donna che fino ad allora era rimasta in disparte.

Sherlock arricciò le labbra, disgustato. "Perfetto, ci mancavi soltanto tu. John, ti presento una vecchia amica, il sergente Sally Donovan."

"Se lo conoscesse meglio capirebbe che lui non ha amici." Sussurrò Sally all'orecchio del medico, e a John non piacque per niente il suo tono perfido e compiaciuto.

"Sally, mi piace il profumo del tuo deodorante." John guardò Sherlock sbigottito, e anche Sally lo fissò sconcertata. Ma che stava dicendo?

"Puoi dirmi dove lo hai acquistato? Ne vorrei anch'io uno uguale."

"Non... non me lo ricordo."

"Certo che non te lo ricordi, è lo stesso che aveva Anderson due giorni fa, probabilmente ti si è appiccicato ai vestiti quando sei andata a trovarlo a casa sua. In questi giorni sua moglie è fuori casa per un viaggio di lavoro, vero?"

"Okay, senti, non so che idee tu ti sia messo in testa, ma hai frainteso tutto." Sally cercò di fermarlo, evidentemente nel panico, mentre John si mordeva il labbro inferiore nel tentativo di trattenere una risata.

Con la coda dell'occhio, vide Greg mettersi discretamente una mano davanti alla bocca e ridacchiare sotto i baffi. Evidentemente anche lui non nutriva una grande simpatia per Sally.

"Ti prego, Sally, non aggiungere altro, stai abbassando il quoziente intellettivo di tutto il quartiere."

Sally gonfiò le guance, livida di rabbia, poi si voltò con passo deciso e raggiunse la porta, facendo risuonare con rabbia i tacchi sul piastrelle del pavimento prima di sbatterla con violenza dietro di sè.

"Ti conviene seguirla, Gavin." Rise Sherlock, senza nemmeno avere la decenza di mostrare segni di dispiacere.

"Greg!" Lo contraddisse l'ispettore contrariato.

"Fa lo stesso. Ti conviene seguirla, prima che chiami Anderson per farsi consolare."

Greg si grattò la testa, lanciandogli un'occhiata dubbiosa, poi annuì. "Torneremo quando starai meglio. Sherlock... mi dispiace tanto, sul serio. Spero che tu ti rimetta presto." Mormorò prima di congedarsi, sinceramente addolorato.

Una volta uscito, John potè finalmente scoppiare a ridere, seguito a ruota da Sherlock.

"Ma come hai fatto a capire che...?"

"Oh, quella è stata una cosa da niente. Se potessi vedere, avrei anche potuto dedurre quante volte erano stati a letto insieme." Improvvisamente la voce di Sherlock si fece scura. "Sono sempre riuscito a capire tutto di ogni persona, mi bastava una sola occhiata. Adesso devo accontentarmi delle voci e degli odori."

"Non dire sciocchezze, quello che hai fatto è stato incredibile... anzi, straordinario." Dichiarò John assolutamente convinto, guardandolo con occhi colmi di ammirazione, quasi estasiato. Ed era sincero.

"Non è quello che la gente dice di solito." Mormorò Sherlock qualche secondo dopo, leggermente spiazzato.

"Perchè, cosa dice la gente di solito?"

"Fuori dai piedi."

John scoppiò a ridere di cuore. "Non mi stupisce. Probabilmente ti avrei detto la stessa cosa, se tu avessi capito tutti i dettagli della mia vita privata in mezzo secondo, soltanto guardandomi."

"Perchè, hai qualche oscuro segreto che non vuoi che si sappia in giro, dottore?"

"E tu?" Ribattè John in tono di sfida. "Tu hai qualche segreto che non vuoi che io sappia?"

L'atmosfera, fino a quel momento rilassata e scherzosa, divenne improvvisamente tesa.

Sherlock rimase in silenzio parecchi secondi, poi sospirò. "Ognuno di noi ha un passato, John. Un passato pieno di demoni, di fantasmi, ombre che definiscono ogni nostro giorno di sole. Nè tu nè io facciamo eccezione."

John rimase interdetto. Non poteva negare che Sherlock avesse ragione, lui stesso doveva convivere ogni giorno con il dolore per la perdita di Mary, lui era costretto ad affronatre ogni giorno i lati oscuri del suo passato. Ma non riusciva proprio ad immaginare con quali fantasmi potesse convivere Sherlock, e inspiegabilmente, avvertiva il bisogno di saperlo.

"Sono un po' stanco." Mormorò Holmes, e John si riscosse da quegli strani pensieri.

"Bene, allora ti lascio riposare. Devi essere in forze per l'intervento." Stava per allontanarsi, ma la voce profonda di Sherlock lo richiamò. "John?"

"Sì?"

"Io voglio lottare. Voglio lottare, dico davvero, solo che... non da solo, ecco."

John si sentì invadere dalla tenerezza appena udì quelle parole e il tono insicuro con cui erano state pronunciate. "Non sei solo, sciocco. Ci sono i tuoi genitori, tuo fratello..." Finse di non notare il suo sbuffo divertito. "C'è l'ispettore Lestrade... mi è sembrato veramente dispiaciuto per quanto ti è successo. Ci sono tante persone che ti vogliono bene, Sherlock, e si preoccupano per te."

"John... in questo momento c'è una sola persona che vorrei al mio fianco."

John non sapeva perchè il tono di Sherlock fosse diventato improvvisamente triste, non sapeva chi era la persona di cui parlava, ed era consapevole che non lo riguardasse affatto, tuttavia non potè esimersi dal chiedergli: "E' una persona... speciale? La tua fidanzata?"

"Fidanzata? No, le ragazze non sono esattamente il mio campo."

"Oh." Ci volle qualche secondo perchè John potesse realizzare appieno il significato della frase, e questa volta non potè nascondere il suo stupore. "Oh, certo, capisco. Un fidanzato allora?" Si era accorto di essere diventato troppo insistente, invadente quasi, ma ormai la curiosità era troppa. "Non ci sarebbe nulla di male." Ci tenne a sottolinearlo: non sapeva se Sherlock non volesse ammettere la sua omosessualità perchè aveva paura dei pregiudizi altrui, o perchè era semplicemente timido riguardo a certi argomenti.

"Lo so che non c'è nulla di male." Ribattè infatti l'interessato, seccato, ma non aggiunse altro.

John non demorse. "Bene, hai un fidanzato?"

"No, non ce l'ho."

Chissà per quale misteriosa ragione, la risposta lo rincuorò un poco. "Bene, okay. Sei solo, senza legami... proprio come me."

Non si era accorto di aver espresso quei pensieri ad alta voce, per questo accolse la risposta di Sherlock con una certa dose di sorpresa.

"John, sono lusingato, ma devi sapere che mi considero sposato con il mio lavoro e non..."

"Cosa?" Per poco John non si strozzò con la sua stessa saliva. Tossicchiò in evidente imbarazzo. "No, no, ti assicuro che non ci stavo provando."

Si affrettò a chiarire, paonazzo. La situazione aveva preso una piega inaspettata e decisamente surreale.

"Oh... okay." Mormorò Sherlock, con tono quasi... deluso?

Doveva essere impazzito. Sì, si rese conto John, questa volta aveva completamente perso il senno. O forse era colpa del troppo caffè bevuto la sera prima.

Con la scusa di altri pazienti da visitare, John sgattaiolò fuori dalla stanza, le guance in fiamme e il cuore che non la smetteva di palpitare a ritmo forsennato.

Era talmente preso a smaltire l'imbarazzo, che badò al fatto che, alla fine, non fosse riuscito a scoprire il nome dell'unica persona che Sherlock avrebbe voluto avere accanto a sè.

 

 

 

**

 

 

La seconda operazione fu meno complessa della prima, ma non per questo meno faticosa. Certo la convalescenza sarebbe stata ancora molto lunga per Sherlock, ma John ci aveva messo tutto l'impegno di cui era capace, e con la nuova pelle, il volto di Sherlock era un poco più presentabile. C'erano ancora molte cicatrici da coprire e molto lavoro da fare, eppure John possedeva l'ottimistica convinzione che sarebbe riuscito a far tornare Sherlock come prima, che gli avrebbe restituito il suo vecchio aspetto, anche se non aveva ancora avuto modo di conoscere qual'era.

Con la terza operazione e la quarta operazione, nel giro di tre settimane, le condizioni del suo paziente erano notevolmente migliorate.

Doveva ancora passare tutto il suo tempo con il volto coperto dalle bende in una stanza buia, dove non poteva entrare nemmeno il più piccolo spiraglio di luce, doveva ancora essere aiutato per mangiare e andare in bagno, ma stava migliorando rapidamente, giorno dopo giorno.

Unico problema sembrava essere quello relativo alla vista: l'oculista aveva detto che le lesioni di Sherlock erano molto gravi, ed era pertanto altamente improbabile che riacquistasse la capacità di vedere, anche parziale.

Sherlock si era rifiutato di mangiare per tre giorni interi, dopo aver appreso la notizia, e non aveva permesso a nessuno, tra medici e infermieri, di avvicinarsi a lui.

John non si era dato per vinto, nonostante tutto. Ogni sera veniva a trovarlo con una zuppa o una vaschetta di gelato-dato che poteva mangiare solo cibi liquidi-, che puntualmente rimanevano intatti.

Parlava con lui, gli raccontava qualsiasi cosa gli passasse per la mente, nonostante il più delle volte Holmes non rispondesse o non ascoltasse affatto.

Gli aveva raccontato che Harriet, sua sorella, era nata cieca, e per anni non aveva mai potuto vedere i volti di suo padre, di sua madre e di suo fratello, nè di Clara, la ragazza di cui si era innamorata e con cui aveva deciso di sposarsi. Se l'era sempre cavata senza problemi, e aveva imparato a convivere con il dolore di non poter vedere il mondo che la circondava. Ma Clara le aveva fatto vedere tutto da un altro punto di vista, e alla fine l'aveva convinta a tentare un'operazione con un famoso specialista svizzero, anche se non c'erano molte probabilità di successo.

Per amore, Harriet si era sottoposta all'intervento, e accadde il miracolo: quando aprì gli occhi, riusciva a percepire contorni, ombre, colori.

Sherlock era rimasto totalmente indifferente al suo racconto, e persino John dubitava che simili sciocchezze lacrimevoli potessero risollevargli il morale. Ma inaspettatamente, la sera successiva Sherlock non lo accolse con la solita freddezza, e John si sentì stupidamente, incontenibilmente felice, quando Sherlock gli confessò che aveva i crampi allo stomaco per la fame, e che non avrebbe resistito un altro giorno senza assaggiare quelle prelibatezze che John gli portava ogni giorno.

John non sapeva se Sherlock avesse intuito che gli aveva raccontato una bugia su sua sorella, ma anche se se n'era accorto, non lo aveva mai dato a vedere.

Dopo il secondo intervento, John aveva preso l'abitudine di passare da lui ogni mattina ed ogni sera, prima dell'inizio e alla fine del suo turno, per controllare se avesse bisogno di qualcosa, ma sopratutto per vederlo e parlare un po' con lui.

Anche se c'erano giornate in cui Sherlock era intrattabile e scontroso e altre in cui si lasciava travolgere dalla tristezza e dallo sconforto, anche se a volte non gli rivolgeva la parola per ore intere, anche se lo insultava quando era annoiato-il che accdeva molto spesso- e avrebbe voluto uscire da quella prigione, come la definiva lui, John amava la sua compagnia.

Sherlock era un uomo incredibilmente intelligente, divertente e brillante, al di là delle sue maniere apparentemente brusche e scortese. Certo aveva anche lui i suoi difetti, era egoista, impaziente, saccente, presuntuoso e si considerava superiore a qualsiasi altro essere umano che non possedeva la sua genialità, ma agli occhi di John quei difetti erano quasi irrilevanti, sostuiti subito dalle qualità che dimostrava di possedere quell'uomo che si rivelava ogni giorno più straordinario.

A volte John gli chiedeva di raccontargli qualcosa della sua vecchia vita, della persona che era stata prima che si conoscessero, e Sherlock, lentamente, lo rendeva partecipe del suo passato, un pezzettino per volta. In realtà John sapeva molto poco di lui: Sherlock gli parlava della sua famiglia, qualche volta della sua infanzia se era lui a chiederglielo, ma il dottore si sentiva escluso da una parte importante della sua vita.

Sapeva che Sherlock, prima dell'aggressione, era un avvocato di grande successo. Aveva vinto quasi tutte le sue cause, senza mai commettere un errore, la sua fotografia era comparsa spesso sui quotidiani e in televisione, la sua fama e il suo denaro crescevano ogni giorno di più.

A dire il vero John si era documentato a fondo su di lui in quelle settimane, leggendo innumerevoli articoli su quell'uomo apparentemente infallibile si era guadagnato tanta ammirazione e tanto successo in così poco tempo nonostante la sua giovane età.

I giornalisti elogiavano la sua intelligenza, la sua parlantina brillante e sagace, le sue strategie in tribunale, astute e sempre ben studiate, fin nei minimi dettagli.

Ad ogni parola John sentiva crescere la sua meraviglia e la sua stima per Holmes, e a volte stentava a credere alla fortuna che aveva avuto nel conoscerlo e diventare suo amico, anche se forse era ancora troppo presto per definirlo tale.

La cosa che però i giornali non riportavano, e che Sherlock stesso gli aveva confidato, era che a lui non interessava nè il denaro nè possedeva uno spiccato senso per la giustizia.

"Gli eroi non esistono, John, non ti illudere, e se esistessero io non sarei certo uno di loro.", così gli aveva detto. A lui interessava soltanto il brivido della caccia e della vittoria, la soddisfazione per aver smascherato il colpevole e risolto il mistero, che tanto più era intricato, più attirava la sua attenzione e alimentava il desiderio di sfidare se stesso, per migliorarsi sempre di più.

John aveva capito di averlo idealizzato troppo, e adesso lo vedeva per com'era realmente. Un uomo incredibilmente solo, dedito unicamente al suo lavoro, che non aveva altri interessi nella vita eccetto se stesso e la propria carriera.

Continuava comunque ad essergli affezionato e ad occuparsi di lui come sempre, solo aveva capito che Sherlock era un essere umano esattamente come lui, anche se al suo paziente piaceva apparire quasi come una macchina, fredda e calcolatrice, incapace di provare qualsivoglia emozione.

Non che a causa di questa rivelazione avesse perso fascino ai suoi occhi, anzi, l'ammirazione e l'affetto che provava per Sherlock sembravano crescere giorno dopo giorno, inesorabili.

Era passato appena un mese da quando lo aveva conosciuto, e con un certo sgomento John si era reso conto che Sherlock era ormai diventato una presenza fissa nella sua vita, e che adesso lui non riusciva più a concepire un solo giorno senza di lui.

 

 

 

**

 

 

Due interi mesi erano scivolati via con incredibile facilità per John, che dall'incidente in cui Mary aveva perso la vita contava le ore di quei giorni che sembravano sempre più interminabili e sempre più faticosi da affrontare.

Sherlock aveva acceso una nuova sete di vita in lui, nel tempo che avevano trascorso insieme. Gli raccontava delle innumerevoli cause che aveva vinto, dei colpevoli assicurati alla giustizia, delle folli avventure che aveva vissuto, e John non si stancava mai di ascoltarlo.

A volte si immaginava al suo fianco, come un fedele assistente che lo seguiva dappertutto, che girava la città insieme a lui, a caccia di indizi o di prove che potessero aiutare Sherlock a vincere la sua causa.

Immaginava di vivere con lui nel suo elegante appartamento di Baker Street- Sherlock glielo aveva descritto così bene che gli sembrava di conoscere ogni stanza, ogni angolo segreto di quella casa-, di arrabbiarsi per il disordine nel soggiorno o per il latte che mancava sempre nel frigo, di guardare la televisione insieme, mentre Sherlock si lamentava che i programmi trasmessi erano uno più idiota dell'altro, di fare colazione insieme con una tazza di the sfogliando il giornale alla ricerca di interessanti casi di cronaca nera.

John fantasticava su una vita che non aveva mai vissuto, ma che assumeva una forma più concreta grazie alle parole di Sherlock.

Si chiedeva come sarebbe potuto essere, si chiedeva come sarebbe stato conoscere Sherlock prima dell'aggressione che gli aveva rovinato la vita, e quando si rendeva conto che probabilmente non avrebbe mai avuto la possibilità di vedere all'opera quell'uomo sempre dinamico e pieno di risorse, che non avrebbe mai ascoltato le sue geniali deduzioni nell'aula di un tribunale, sorridendo orgoglioso tra sè e sè, allora lo assalivano emozioni contrastanti. La rabbia per chi aveva portato via a Sherlock ogni cosa, il suo lavoro, la sua bellezza, i suoi occhi, il suo sorriso. E il rimpianto per una felicità che non avrebbe mai potuto vivere con Sherlock al suo fianco, per quei sentimenti che crescevano e crescevano senza che lui potesse fare niente per fermare, e che lui non avrebbe mai potuto rivelare nemmeno a se stesso.

 

 

 

**

 

 

"Allora, cosa dovevi dirmi di tanto importante?"

Queste furono le parole che accolsero John non appena ebbe raggiunto Sarah all'interno del ristorante cinese, piazzandosi davanti al tavolo dove era seduta.

Quella domenica di primavera John aveva approfittato della pausa lavorativa per riflettere e fare chiarezza sui suoi sentimenti per Sherlock.

L'idea di passare un giorno intero senza vederlo era diventata insopportabile, tanto che aveva pensato di fare un salto in clinica per vedere come stava, salvo poi rendersi conto che avrebbe fatto una figura ridicola e che lui stesso non aveva il coraggio di presentarsi da Sherlock nelle vesti di un amico.

Nascondersi dietro la facciata del medico premuroso che ha a cuore la salute dei suoi pazienti per adesso gli sembrava la scelta migliore, perchè non lo costringeva ad interrogarsi troppo sulla natura del rapporto con Sherlock.

Ma d'altro canto sapeva bene che i suoi sentimenti erano divenuti troppo profondi e radicati per essere ignorati in quel modo vergognoso, così aveva deciso di chiamare Sarah, e le aveva dato appuntamento per pranzo in un ristorante a pochi passi da casa sua.

Adesso che era arrivato il momento di confessarle tutto, però, non si sentiva più tanto sicuro di sè.

Si sedette di fronte a lei schiarendosi la gola, a disagio.

"Allora, tutto bene?" Lo incalzò Sarah, incuriosita. "Al telefono hai detto che dovevi parlarmi di una cosa importante. Di che si tratta?"

Accidenti, era arrivata dritta al punto senza perdere tempo.

"E' una questione... un po' imbarazzante." Tentennò John, ancora incerto se confidarsi o meno con lei. Alla fine sospirò pesantemente, come se si fosse appena tolto di dosso un peso schiacciante.

"Al diavolo, devo dirlo a qualcuno o impazzirò. Sarah..." John si guardò attorno cautamente per verificare che nessuno stesse ascoltando la loro conversazione, poi si sporse verso il suo orecchio con l'aria di una persona che ha un segreto succulento da rivelare. "Credo di essermi innamorato."

Sarah sbattè le ciglia perplessa, ma dopo pochi istanti scoppiò a ridere, sinceramente felice. "John, ma è meraviglioso! E io che pensavo volessi dirmi chissà che cosa, invece è una splendida notizia!"

"Tu dici?" John non sembrava condividere il suo stesso entusiasmo. "Dici sul serio?"

"Ma certo, finalmente sei riuscito a capire che al mondo ci sono altre persone che possono renderti felice oltre a Mary... adesso sono troppo curiosa di sapere chi è la fortunata! La conosco?"

"Ehm... sì, direi di sì."

"Janeatte? L'infermiera del terzo piano che ti fa gli occhi dolci? Oddio, John, non dirmi che ti sei messo insieme a lei! Ha avuto tre fidanzati contemporaneamente, non lo sai?"

"Janeatte mi fa gli occhi dolci?" John guardò Sarah stranito, scrollando il capo. "No, non è lei."

"L'avevo intuito. Insomma, devo tirarti fuori questo nome con la forza?"

"Sherlock Holmes." Sputò fuori John tutto d'un fiato, trattenendo il respiro in attesa della sua reazione.

"Lo sapevo!" Sarah gli puntò contro l'unghia smaltata dell'indice, ridendo come se nulla fosse. "Lo sapevo che c'era qualcosa tra voi, si vedeva lontano un miglio! Anzi, sai che alla macchinetta del caffè si accettano scommesse su quando ti dichiarerai a Sherlock? Mike ha perso venti dollari, aveva scommesso che gliel'avresti confessato entro un mese, e invece ne sono passati due. Era ora che ti accorgessi di cosa provi di lui! Allora, gliel'hai già detto o no?"

"Sarah, non è così semplice..." John si agitò sulla sedia, evidentemente sulle spine. "Non credo che tu abbia capito... mi sono innamorato di un uomo." Sussurrò scandendo bene le parole, e se John non fosse stato così serio, Sarah avrebbe trovato incredibilmente comico il tono grave con cui aveva pronunciato quell'ultima frase, come se gli avesse detto che aveva appena contratto una rara malattia contagiosa.

"E allora, che problema c'è? Sei attratto da un altro uomo, tutto qua."

"Io non sono gay, Sarah!" Si alterò John, come se lei lo avesse appena insultato.

"Che c'entra? Mica ho detto questo, calmati! Prima o poi tutti ci siamo sentiti attratti da persone del nostro stesso sesso. Me compresa."

John la fissò incredulo. "No... vuoi dire che...?"

Sarah sorrise, e annuì decisa. "Sì, ero al secondo anno di college. Lei si chiamava Hannah, e aveva un anno più di me. Eravamo compagne di stanza, ma soprattutto migliori amiche. Tutti ci dicevano che eravamo inseparabili, una coppia veramente affiatata. Ed era proprio così.

Avevamo instaurato un legame unico, ci capivamo come nessuno aveva mai capito noi, trascorrevamo insieme tutto il tempo che potevamo.

L'ho amata come non ho mai amato nessun altro, nemmeno George, ma tra noi non è andata come speravo. Forse eravamo entrambe troppo immature per capire ciò che provavamo davvero, ma la nostra storia finì ancora prima di cominciare.

La famiglia di Hannah si trasferì in un'altra città, e da allora non l'ho mai più rivista.

Insomma, quello che sto cercando di dirti è che io provavo attrazione per lei, anche sessuale ovviamente, ma prima e dopo di lei non ho mai desiderato nessun'altra donna.

Non sono mai stata lesbica, semplicemente mi ero innamorata di Hannah, e solo di lei. Di lei come donna, ma non solo.

Del modo mi sfiorava timidamente la mano per passarmi un libro dagli scaffali della biblioteca. Del sorriso impacciato che mi rivolgeva quando le facevo un complimento, e lei era troppo felice e troppo imbarazzata al tempo stesso. Del profumo di fiori freschi che emanavano i suoi capelli, meravigliosi ricci castani incredibilmente lucidi che le accarezzavano di spalle.

Tu cosa ami di Sherlock, che lo rende diverso da tutti gli altri uomini che hai conosciuto finora? Quali sono i dettagli di lui che rendono la tua giornata più bella e degna di essere vissuta?"

John ci pensò per qualche istante, poi sorrise. "Sherlock è una persona speciale. Con lui ogni giorno è una nuova, incredibile avventura da vivere. In un certo senso è come un enigma indecifrabile: ogni volta che mi sembra di essere riuscito a capirlo, mi sfugge di nuovo."

"Forse ti piace proprio per questo." Gli fece notare Sarah. "Non sai mai che sorprese può riservarti un giorno accanto a lui, ma questo non ti spaventa, anzi, direi che è più uno stimolo."

"Da quando l'ho incontrato, ogni risveglio è sempre meno faticoso." Confessò John, e non gli importava di apparire sdolcinato, era la pura verità. "Ha ridato un senso alla mia vita, quel senso che avevo perso dopo la morte di Mary."

"Sono davvero felice per te, John. Ti meriti questa seconda occasione." Sarah posò una mano sulla sua, stringendola affettuosamente, ma in quel momento John si incupì all'improvviso. "Non è tutto così semplice, Sarah... Vedi, ho sempre la sensazione che lui mi nasconda qualcosa, che ci sia una parte del suo passato che non vuole rivelare a nessuno, neanche a me. Una volta mi ha detto che i sentimenti sono un difetto chimico della parte che perde. Capisci? Lui dice che è disgustato da tutte le emozione, dice che non è in grado di provarne.

Eppure io lo vedo, Sarah, vedo che un uomo con grande cuore, generoso, che si preoccupa sinceramente per gli altri, che è capace di affezionarsi a qualcuno e volergli bene.

Vedo la sua fragilità, i suoi timori, le sue ansie e le sue insicurezze."

"Quindi pensi che sia soltanto una facciata? Magari in passato ha avuto una delusione amorosa, può capitare a tutti. Devi solo rispettare i suoi tempi, vedrai che alla fine imparerà a fidarsi di te."

"E se quel momento non dovesse mai arrivare? Ho paura, Sarah." Riuscì finalmente a dirle. "Ho paura che non mi amerà mai abbastanza. Ho paura di amarlo troppo." Si prese la testa fra le mani, disperato, come in preda ad una indicibile sofferenza fisica. "Il fatto che è dopo... dopo Mary, non c'è più stato nessuno. E poi è arrivato Sherlock, e tutto è cambiato da un giorno all'altro. Non so se sono in grado di affrontare di nuovo questo sentimento, non so se sono pronto a soffrire di nuovo."

"Avere paura di innamorarsi di qualcuno ogni tanto è già un po' amore silenzioso." John alzò lo sguardo di scatto, colpito dalle parole della sua migliore amica. "Se pensi che ne valga la pena, John, non avere paura di metterti in gioco. Soffrire è inevitabile, ma se pensi che lui sia la persona giusta per cui soffrire, fai un tentativo."

John si alzò in piedi bruscamente, rovesciando la sedia a terra. "Hai ragione, Sarah, devo andare da lui e dirgli quello che provo." Le sorrise quasi raggiante, chinandosi per scoccarle un bacio sulla guancia.

"Grazie di tutto." Mormorò prima di sgrattaiolare via dal ristorante, veloce come un fulmine.

Sarah rimase a guardarlo mentre si allontanava, attraverso la vetrata del locale, e sospirò con aria sognante.

Non aveva mai visto John così felice prima d'ora. Sperò vivamente che un giorno sarebbe arrivata anche per lei una persona che le avrebbe fatto desiderare di vivere sempre un giorno in più, solo per passarlo al suo fianco, proprio come era successo al suo migliore amico.

 

 

 

**

 

 

John era arrivato in clinica dieci minuti dopo, con il cuore in gola e senza fiato per la corsa. Con la metropolitana non sarebbe mai arrivato in fretta come avrebbe voluto, e aveva il timore che se avesse riflettuto troppo sulla sua decisione avrebbe finito per cambiare idea, così aveva preso un taxi e aveva percorso correndo l'ultimo tratto di strada che lo separava dalla struttura, chiuso al traffico a causa di alcuni lavori in corso.

Arrivato nella sala d'aspetto all'ingresso fu costretto a fermarsi un momento per riprendere fiato e recuperare le energie. Doveva avere un aspetto orribile, perchè una delle impiegate al banco accettazione gli lanciò uno sguardo incuriosito e leggermente inorridito.

Ma in quel momento John decise che non gli importava, non gli importava altro se non di raggiungere Sherlock e rivelargli quei sentimenti troppo a lungo taciuti, che premevano sul suo petto schiacciati in una morsa opprimente.

Non aveva la pazienza necessaria per aspettare l'ascensore, perciò percorse a piedi i tre piani che lo separavano da lui, salendo le scale due gradini alla volta.

Davanti alla porta della stanza di Sherlock, si fermò emozionato. Come lo avrebbe accolto, quale sarebbe stata la sua prima reazione?

Che parole avrebbe dovuto usare per dichiarargli il suo amore? Doveva essere cauto o arrivare dritto al punto senza tanti preamboli?

Dio, come si sentiva stupido, sembrava un adolescente alla prese con la sua prima cotta. Al diavolo tutto, si sarebbe comportato come gli veniva più naturale.

Spalancò la porta senza ulteriori indugi, ma appena vide il letto di Sherlock vuoto e disfatto si gelò sul posto.

Dove poteva essere andato? Controllò il bagno adiacente alla camera per sicurezza. La scena che gli presentò davanti fece perdere gli qualche battito: Sherlock era riverso sul pavimento, le bende che gli coprivano il viso a terra e il viso sanguinante, probabilmente perchè se le era strappate con rabbia, e nelle mani aveva una siringa ormai vuota.

John sentì lo stomaco attorcigliarsi su se stesso, in una morsa di nausea e di panico. "Sherlock!" Urlò dopo qualche attimo di pura angoscia, la voce terrorizzata. Si inginocchiò sul pavimento, scuotendogli un braccio nel tentativo di svegliarlo, ma non ottenne alcuna reazione.

"Sherlock!" Gridò nuovamente. "Rispondimi, dannazione! Cosa hai fatto? Cosa volevi fare?"

Un debole mugolio si espanse nell'aria, e Sherlock si mosse impercettibilmente, continuando a tenere gli occhi socchiusi.

"John..." Sussurrò con un filo di voce, con evidente sforzo.

"Sherlock, che diamine è successo?" La sua voce era ancora colma di rimprovero e di ansia, ma visibilmente più sollevata adesso che il suo paziente aveva ripreso conoscenza. "Che cosa hai preso?" Gli indicò le siringa che ancora teneva tra le dita. "Devi dirmi che cosa hai preso, Sherlock, e subito."

"No, no, vattenne via, lasciami in pace..." Protestò lui debolmente, rannicchiandosi ancora di più su se stesso. "Lasciami morire..."

"Piantala di dire stronzate, non ti permetterò di lasciarmi così." Con decisione lo prese in braccio e lo sollevò letteralmente da terra, uscendo in corridoio. Sherlock non oppose resistenza, probabilmente era svenuto di nuovo.

"Mi serve aiuto, è un'emergenza!" Gridò John per farsi sentire, e in breve tempo accorsero altri due dottori con una barella su cui adagiarlo.

"Si è iniettato qualcosa, probabilmente della morfina, la sacca della sua flebo è vuota. E' andato in overdose, gli serve una lavanda gastrica d'urgenza." Spiegò in fretta, e i due medici annuirono, trasportandolo via con passo veloce. John pretese di seguirlo fino in sala operatoria, ma non lo fecero entrare e fu costretto ad aspettare nella sala d'attesa riservata ai familiari.

Non riusciva a stare fermo, continuava a lanciare occhiate nervose all'orologio, continuava a ripetersi che doveva andare tutto bene, Sherlock doveva farcela a tutti i costi.

Cosa voleva fare quel colossale imbecille?

Appena si fosse svegliato, John lo avrebbe preso a pugni e gli avrebbe urlato contro tutta la sua rabbia, di questo era sicuro.

Davanti agli occhi continuavano a passargli di fronte quelle immagini orribili, rivedeva il corpo esanime di Sherlock a terra privo a sensi, riascoltava la sua supplica disperata.

Perchè, perchè aveva fatto una cosa del genere? Come poteva essere stato così stupido da non accorgersi che John teneva a lui, che lo amava come non aveva mai amato nessun altro, che non avrebbe mai potuto lasciarlo solo?

John non aveva mai creduto in un potere superiore, in una divinità che potesse intervenire concretamente nella vita dei comuni mortali, eppure trascorse le due ore successive pregando incessantemente, nell'attesa di vedere Sherlock uscire dalla sala operatoria.

Pregò un Dio in cui non credeva, nella speranza di essere ascoltato almeno questa volta. "Non portarmi via anche lui, ti supplico... non portamelo via..."

 

 

 

**

 

 

Su Londra era ormai calata la notte, ma John era ancora ben sveglio, seduto su una sedia accanto al letto di Sherlock, immerso in un sonno profondo causato dai sedativi che gli erano stati somministrati.

Teneva gli occhi fissi sul suo volto attraversato da cicatrici ben visibili, domandandosi incessantemente perchè, perchè, dannazione, aveva commesso una simile sciocchezza?

Con qualche altra operazione la faccia di Sherlock sarebbe tornata a posto, magari non esattamente come prima, ma le cicatrici sarebbero state coperte e lui avrebbe potuto essere dimesso.

Ci sarebbe voluto un po' di tempo, ma alla fine avrebbe potuto riprendere la sua vita esattamente come prima, senza impedimenti di alcun tipo. L'oculista aveva persino ammesso che Sherlock avrebbe potuto recuperare parzialmente la vista, e un paio di occhiali speciali l'avrebbe aiutato ulteriormente.

Allora perchè aveva tentato di togliersi la vita? Qual era il tormento che continuava a divorarlo, giorno dopo giorno, e che gli impediva di essere sereno? John non era abbastanza per lui, non era abbastanza per desiderare di continuare a vivere?

Un lieve movimento della mano di Sherlock lo strappò bruscamente da quei tristi pensieri, e con grande sollievo John lo vide sollevare piano le palpebre, anche i suoi occhi continuavano a fissare il vuoto davanti a sè.

"Sherlock." Lo chiamò a bassa voce, avvicinandosi un poco. "Come ti senti?"

"Drogato." Borbottò lui stancamente, la faccia affondata nel cuscino. "Ma non sarebbe la prima volta."

"Cosa? Che intendi dire?" Purtroppo John aveva capito fin troppo bene cosa intendesse dire Sherlock, ma non riusciva a capacitarsene.

Era deluso, arrabbiato e amareggiato. Non ottenendo risposta, scrollò il capo con una leggera risata amara. "Capisco, quindi sei un tossico. Ecco cosa intendevo dire tuo fratello, quando mi ha chiesto di tenerti d'occhio."

"Non sono un tossico, ne faccio uso. Anzi, ne facevo uso in passato per alleviare la noia e migliorare i miei processi mentali." Ribattè Sherlock, sorprendemente vigile per essersi appena svegliato dall'anestesia.

A quelle parole John perse definitivamente il controllo. "Ma ti senti quando parli?" Gridò, del tutto incurante che qualcuno potesse sentirlo.

"Ti droghi per non annoiarti? Hai la mente più brillante che abbia mai conosciuto, e non sei in grado di capire che un giorno potresti morire, se continui così?"

"John..."

"Zitto! Sta' zitto Sherlock, non una parola di più." La voce di John si affievolì progressivamente. "Sono stato uno stupido a preoccuparmi per te in questo modo. Credevo... mi ero illuso che tu fossi diverso. Ma mi sbagliavo." Mosse la sedia per alzarsi, ma la mano di Sherlock si sollevò per cercarlo, e inaspettatamente riuscì ad afferrargli un braccio.

"John, aspetta. Devo dirti una cosa."

John avrebbe voluto liberarsi dalla sua presa e andarsene senza più prestargli attenzione, dopo aver sfogato tutta la sua rabbia, ma sarebbe stato un comportamento puerile. Doveva ascoltare le ragioni di Sherlock, qualunque esse fossero.

"Sentiamo." La voce gli uscì inaspettatamente dura, ma Sherlock sembrò calmarsi un poco. Lentamente lasciò il suo braccio e cominciò a parlare ad occhi chiusi.

"Non ho mai capito perchè ti interessassi tanto a me, non ho mai compreso a fondo le motivazioni che ti spingevano a passare tanto tempo qui e la tua ostinazione di volermi curare a tutti i costi.

Ora ho finalmente trovato la mia risposta: sei un uomo buono, John, sei altruista e hai un cuore generoso. Le tue intenzioni sono state nobili fin dall'inizio, volevi aiutarmi e in parte l'hai fatto, lo ammetto.

Ma forse è meglio se la smetti di perdere il tuo tempo con uno come me."

"Perchè dici così?" La rabbia di John si era dissolta, lasciando spazio ad un affetto talmente forte che minacciava di sopraffarlo.

"Tu non mi conosci, John. Non sai chi ero prima di incontrarti. Tu sei sempre stato sincero con me, perciò adesso ricambierò la tua cortesia.

Di solito le dosi di cocaina che mi iniettavo erano sempre calcolate scrupolosamente in modo da non causare alcun danno.

Oggi le mie intenzioni erano altre. Il dolore era troppo forte, e non c'era altro modo per farlo tacere. Non mi aspettavo questa tua reazione esagerata, e me ne rammarico. Perdonami, John, mi dispiace per tutta la sofferenza che ti ho causato."

"Oh, Sherlock..." Gli occhi di John si fecero lucidi di commozione. "Tu mi hai detto che ognuno di noi ha un passato pieno di fantasmi e di dolori segreti. Non posso obbligarti a dirti cosa ti tormenta, ma voglio sinceramente aiutarti. Voglio essere io a far tacere il tuo dolore."

Seguì qualche minuto di silenzio incerto, e John capì che se voleva la verità, prima doveva essere onesto con lui fino in fondo.

"D'accordo, sarò io a raccontarti per primo il mio passato. C'è una cosa che non ti ho mai detto, quindi, come vedi, anch'io non sono stato del tutto sincero con te. Fino a due anni fa ero sposato. Mia moglie si chiamava Mary. Ho avuto tante ragazze prima di lei, ma fin dall'istante in cui ho visto i suoi occhi color nocciola, ho capito che lei era speciale, che con lei avrei passato il resto della mia vita, una vita lunga, serena e senza rimpianti. Lo so, può apparire sciocco, ma è andata proprio così.

Mary era davvero speciale, dolce, ironica, anche se quando si arrabbiava diventava una iena. Se l'avessi conosciuta, sono sicuro che sareste andati subito d'accordo.

Sono già passati due anni da quando non c'è più, e finalmente ho capito che devo lasciarla andare, anche se non è così facile, purtroppo.

Non posso fare a meno di aggrapparmi ai ricordi dei momenti trascorsi insieme, soprattutto quando sono triste. C'è un episodio, in particolare, che mi torna sempre in mente.

Quando ho invitato Mary a cena per farle la proposta di matrimonio, ero così agitato che non ero riuscito nemmeno a fare un discorso decente, e lei ad un certo punto si era lasciata sfuggire una risata, intenerita dai quei goffi tentativi di chiedere la sua mano.

"Sei la cosa più bella che potesse succedermi." Le dissi alla fine. Mary non rimase minimamente impressionata dalle mie parole. Anzi, sai cosa mi rispose?

"Lo so." Aveva ribattuto ridendo. "Lo so che sono la cosa migliore che potesse succederti. Per questo vuoi chiedermi di sposarti."

E io rimasi lì impalato, soncertato, con la possibilità di stupirla con un discorso straordinariamente galante e romantico completamente sfumata. E poi tutte le mie ansie svanirono, e ci mettemmo a ridere insieme.

Ecco, sono quei momenti che mi mancano maggiormente. Ma adesso ho trovato qualcuno che può restituirmi quella stessa felicità.

E non ho intenzione di abbandonare questa persona, mai, per nessun motivo al mondo." John deglutì, per ricacciare indietro il tremolio che si era impossessato delle sue ultime parole. "Ecco, adesso sai davvero tutto di me."

Sherlock rimase in silenzio per lunghi istanti, poi, quando finalmente si decise a parlare, la sua voce fu inaspettatamente calma e decisa. "John, chiama Lestrade. Digli che ho bisogno di parlare con lui con molta urgenza."

 

 

**

 

 

Per John Watson quella fu la notte più lunga della sua vita. Accanto al letto di Sherlock, mentre l'ispettore ascoltava la sua testimonianza sull'aggressione, John assistette con sgomento alla rivelazione di un passato crudele che Sherlock non aveva mai condiviso con nessuno.

Ascoltò la storia di un giovane ragazzo, ancora ingenuo e inesperto, che si era innamorato di un collega di lavoro che aveva pochi anni più di lui. James, il famoso James che Sherlock aveva nominato soltanto una volta da quando era ricoverato in ospedale. O Jim, come lo chiamava lui.

All'inizio era tutto perfetto, dolce e romantico come in uno di quegli insulsi romanzi rosa che tanto piacevano al pubblico femminile.

Jim lo riempiva di regali e di complimenti, era tenero e affettuoso, si prendeva cura di lui come nessun altro aveva mai fatto prima di quel momento.

Poi, poco a poco, il suo lato oscuro si era manifestato.

E per quasi dieci anni Sherlock aveva sopportato in silenzio gli schiaffi, gli insulti e la gelosia ossessiva di quell'uomo, incapace di mettere fine a quell'amore malato e morboso che aveva succhiato ogni goccia della sua innocenza e della sua libertà.

Finchè, circa un mese prima dell'aggressione, Jim lo aveva picchiato con un tale violenza da rompergli un paio di costole, e mentre era ricoverato in ospedale, Sherlock si rese conto che avrebbe dovuto fare a meno di lui, che avrebbe dovuto fare a meno dell'amore.

Jim non aveva preso bene la notizia: lo seguiva quando usciva per andare al lavoro la mattina presto e quando rincasava la sera, gli diceva di essere pentito, gli diceva che lo amava, non poteva vivere senza di lui e voleva che tornasse tutto come prima.

Ma qualcosa dentro Sherlock si era spezzato definitivamente, e il ragazzino innamorato di una volta era stato sostuito da un uomo che per proteggersi dal dolore era divenuto freddo e spietato.

Non sarebbe caduto nella sua trappola, mai più, si era ripromesso.

Quando, tornando a casa dal lavoro, un uomo gli aveva gettato in faccia una tanica di benzina, Sherlock aveva capito immediatamente chi era stato il mandante.

Aveva capito che Jim voleva infliggergli una pena più dura della morte stessa, voleva distruggere la sua identità, per fare in modo che mai più nessuno potesse desiderarlo. "Se non sei mio, non sarai mai di nessun altro." Gli aveva detto una volta, e adesso Sherlock aveva compreso fino in fondo il significato di quelle parole.

Non aveva mai avuto il coraggio necessario per raccontarlo a qualcuno, almeno non fino a quella sera, quando un dottore gentile gli aveva aperto il suo cuore con cieca fiducia, facendogli credere che per tutti esisteva una seconda possibilità.

Sherlock adesso non aveva più paura di ricordare e di rivivere quei momenti. La sua voce non tremò, quando confessò a Lestrade il nome del colpevole: Jim Moriarty, la creatura più infima che avesse mai aveva la sfortuna di incontrare.

Sorrideva Sherlock, mentre abbandonava i panni di quel giovane pieno di dubbi e insicurezze, che subiva ogni sorta di violenza senza mai reagire, ma anzi con la convinzione di meritarla, e diede il benvenuto ad un uomo più forte e consapevole, che aveva avuto modo di nascere soltanto grazie a John Watson.

 

 

**

 

 

Sebastian Moran aveva confessato che Jim Moriarty lo aveva pagato per sfregiare il volto del noto avvocato Sherlock Holmes.

Avrebbe dovuto attendere che tornasse a casa dal lavoro e coglierlo di sorpresa, come da sue precise istruzioni.

Moriarty era stato arrestato quella stessa notte. Convinto di essere al sicuro, non si sarebbe mai aspettato che due poliziotti irrompessero nel suo appartamento alle tre del mattino per trascinarlo in centrale con l'accusa di aggressione e di tentato omicidio.

Per la sentenza definitiva era necessario attendere il processo, a cui Sherlock doveva presentarsi come testimone.

Secondo John era una crudeltà inutile che quei due fossero costretti ad incontrarsi nuovamente, d'altronde non c'era ragione per aspettare così tanto ad emmettere una condanna.

John avrebbe ucciso con le sue mani quell'essere diabolico che aveva osato approfittarsi di Sherlock in quel modo vergognoso, e che non contento del risultato ottenuto, aveva anche tentato di distruggere per sempre il suo futuro.

Ma no, non avrebbe mai potuto riuscirci.

John era pronto a fare di tutto per dimostrare a Sherlock che l'amore non doveva per forza fare così male, John era pronto ad accettare i demoni del suo passato e a farsene carico.

John era pronto a donargli tutto se stesso, senza chiedere niente in cambio.

 

 

**

 

 

Le giornate a Londra erano improvvisamente divenute più calde e luminose, in un'esplosione d'estate ancora prematura per il mese di Maggio.

A John l'estate era sempre piaciuta, ma adesso aveva imparato ad amarla, perchè in uno di quei giorni di Maggio il rapporto tra lui e Sherlock aveva preso una piega diversa e assolutamente inaspettata.

Sherlock era stato dimesso da qualche settimana, e finalmente poteva esporre il suo volto alla luce del sole senza alcuna maschera protettiva.

John era andato a trovarlo nel suo appartamento di Baker Street, come faceva abitualmente ogni settimana per controllare il suo stato di salute.

Trascorreva molte ore lì dentro, ormai quel posto era la sua seconda casa. Si assicurava che Sherlock mangiasse e dormisse regolmente, chiacchierava con lui, leggeva ad alta voce qualche pagina di un libro e cercava di inventarsi passatempi stimolanti per non farlo annoiare durante la convalescenza.

A volte temeva di risultare troppo assillante per Sherlock, invece scoprì con sorpresa che il suo migliore amico sembrava gradire la sua compagnia, o perlomeno non la disprezzava come quella di tutti gli altri, familiari compresi.

"John." Gli aveva detto quell'indimenticabile giorno di Maggio. "Ormai passi più tempo qui che al lavoro."

"Vuoi che me ne vada?" Aveva chiesto John, una punta di panico nella voce.

"No, intendevo dire che sarebbe più comodo per te trasferirti qui. C'è una camera da letto in più al piano di sopra, puoi dormire lì se vuoi."

In quel momento John era rimasto senza parole. Sicuramente per Sherlock quella era la scelta più logica, non doveva neanche averci riflettuto più di tanto, ma per lui fu come toccare il cielo con un dito.

"Certo." Si era affrettato a rispondere con un sorriso raggiante. "Passo nel mio appartamento a prendere qualche vestito e torno subito. Posso restare tutto il tempo che vuoi."

John aveva immaginato che Sherlock avesse bisogno della sua vicinanza per qualche giorno, per ambientarsi dopo essere stato per mesi lontano dal suo appartamento, e che una volta ritrovato il suo equilibrio non avrebbe avuto più bisogno di lui.

Non era importante, anche se non avrebbe mai ricambiato i suoi sentimenti, John era felice di poterlo aiutare in qualsiasi modo gli era possibile. Gli bastava essere suo amico, essere presente nella sua vita in qualche modo, non importava come.

E poi quei pochi giorni erano divenuti settimane, le settimane si trasformarono mesi, e avevano trascorso l'intera estate vivendo insieme.

Finchè una sera di autunno, seduti sul divano l'uno accanto all'altro a guardare un film, Sherlock gli si fece improvvisamente più vicino, e lentamente, quasi con timidezza, posò la testa sulla sua spalla.

"Resta." Aveva sussurrato, e John non ricordava di aver mai provato una felicità più grande prima di quel momento.

 

 

**

 

Se John ci riflette bene, c'è stato un momento, mesi prima, in cui Sherlock gli aveva chiesto, velatamente, se sarebbe stato capace di amarlo nonostante il suo aspetto fisico, e John si era reso conto che sì, l'avrebbe amato comunque e in qualunque circostanza.

Era successo ad Aprile, poco prima che Sherlock fosse dimesso dal suo soggiorno forzato in clinica.

"Ero bello, sai?" Gli aveva Sherlock, sul lettino che l'avrebbe condotto in sala operatoria per la sesta volta. "Prima che succedesse tutto questo, ero bello." Aveva sussurrato con voce tremula e un p.o' imbarazzata.

E John aveva sentito qualcosa spezzarsi dentro di sè, mentre fissava quella pelle ricoperta di cicatrici e paragonava il suo volto a quello che aveva visto sui giornali e su Internet, nelle numerose fotografie che lo ritraevano.

Pensava ai suoi occhi dal colore indefinibile, penetranti e affilati come pugnali, che sembravano leggere nell'anima delle persone. Pensava alla sua carnagione lattea e priva di imperfezioni, ai suoi lineamenti spigolosi ma delicati, il naso leggermente aquilino e gli zigomi alti, la bocca rosse a forma di cuore, con una deliziosa fossetta sul labbro superiore.

Pensava alla maschera informe in cui si era trasformata quella bellezza unica al mondo, e si rendeva conto che amava quel volto nonostante tutto, che lo amava più di quello privo di difetti che Sherlock aveva nelle vecchie fotografie.

Non aveva avuto il coraggio di dirglielo, perciò si era limitato ad annuire, cercando di trattenere le lacrime che minacciavano di uscire senza preavviso. "Lo intuisco dai tuoi lineamenti."

"Riesci a vedere solo questo, di me?" Gli aveva mormorato Sherlock, gli occhi grandi e tristi fissi su di lui anche se non poteva vederlo.

John avrebbe voluto dirgli che no, il suo aspetto fisico non contava niente, non avrebbe mai contato niente per lui.

Voleva dirgli che in quel volto sfigurato vedeva molto più di quanto avesse mai visto chiunque altro. Vedeva l'amore nel volto di Sherlock, l'amore in tutte le sue possibili sfumature.

Allungò una mano e la strinse tra le sue con forza. "No." Disse, sorridendo tra le lacrime che gli scorrevano silenziose sulle guance. "No, vedo sopratutto un uomo straordinario, il migliore che abbia mai conosciuto. Un uomo che non avrebbe mai meritato tutta questa sofferenza." E ci credeva davvero, in quelle parole.

 

 

 

**

 

 

"John... John!"

John si avvicinò preoccupato al suo amico, che continuava a chiamarlo insistentemente in tono allarmato, e si sedette sul bordo del letto.

Quella era la terza operazione consecutiva a cui si sottoponeva da quando vivevano insieme, la decima in totale, e anche se secondo John il suo viso ormai non aveva più bisogno di ulteriori ritocchi, non c'era stato modo di dissuaderlo.

Adesso però che Sherlock si era svegliato dall'anestesia e sembrava fuori di sè, agitandosi confusamente nel groviglio di coperte, John stava cominciando a preoccuparsi.

"Sherlock, che c'è? Sherlock!" Lo afferrò per un braccio, vedendo che era completamente immobile, la bocca spalancata in un'espressione di assoluta sorpresa. "Ti senti bene? Sherlock, mi stai facendo preoccupare."

Improvvisamente, le mani di Sherlock scattarono in avanti, e le sue mani gli circondarono saldamente le guance. "Ma cosa...?" John era frastornato, incapace di compiere anche il più piccolo movimento, mentre le lunghe dita di Sherlock saggiavano le sue guance con infinita delicatezza, assaporandone lentamente ogni ruga, ogni neo, ogni imperfezione.

"Sherlock?" Mormorò stordito, cercando di frenare le pulsazioni del cuore, che parevano improvvisamente impazzite e incontrollabili.

"Riesco a vederti, John. Riesco a vederti." Sussurrò lui dopo qualche istante, la voce carica di gioia e incredulità.

Per parecchi secondi John rimase perfettamente immboile come una statua di cera, poi, poco a poco, un ampio sorriso nacque sul suo volto e gli occhi gli divennero improvvisamente lucidi.

John non aveva mai creduto ai miracoli, almeno non fino a quel momento, in cui rideva e piangeva, e teneva i palmi di Sherlock premuti sul suo volto mentre osservava i suoi occhi saettare vigili da una parte all'altra della stanza, come a voler assorbire ogni singolo dettaglio dell'ambiente circostante in pochissimi secondi.

Poi gli occhi di Sherlock si posarono sul suo volto, e lo fissarono intensamente, carpendone ogni sfumatura.

John aveva pregato così tanto che quel momento arrivasse, che Sherlock potesse finalmente vedere il suo volto, conoscere il colore dei suoi capelli, la sfumatura blu cobalto dei suoi occhi, la piega sottile delle sue labbra. Aveva pregato così tanto che i suoi occhi riuscissero a vedere l'amore che John provava nei suoi confronti, senza bisogno di esprimerlo a parole.

E adesso il suo miracolo era stato esaudito, e Sherlock lo guardava come se avesse di fronte la creatura più interessante e più bella del mondo. John tremò di emozione sotto il peso del suo sguardo, sorridendo commosso.

"Sei esattamente come ti immaginavo." Fu Sherlock a parlare, dopo qualche minuto in cui il tempo sembrava essersi dilatato a dismisura.

"Sei bello." Disse di slancio, e John temette di essere arrossito visibilmente a quel complimento.

"Beh, allora possiamo dire che la vista c'è, ma deve ancora migliorare parecchio." Ironizzò con un sorriso, anche se la voce gli tremava leggermente. "Sul serio riesci a vedermi?" Non potè trattenersi dal domandare, ancora sopraffatto da quella rivelazione così inaspettata.

Sherlock sorrise, sorrise come non aveva mai sorriso prima, la bocca che si piegava in un'espressione dolce e radiosa, i lineamenti che si distendevano e gli occhi che brillavano, donandogli l'aria spensierata di un ragazzino. "Riesco a vedere tutto, John." Mormorò, tirandosi a sedere e trascinandosi vicino al suo volto, così vicino da poter toccare la sua fronte con la propria, mentre il suo respiro gli accarezzava le labbra e i palmi delle mani erano ancorati alle sue guance umide.

"Riesco a vedere l'uomo che mi ha salvato, in ogni modo in cui una persona può essere salvata. E tu, John riesci a vedermi?"

John capì cosa intendeva dire, e annuì con un lieve cenno del capo. "Vedo l'uomo oltre queste cicatrici. Vedo il volto dell'amore."

E non servirono altre parole, mentre le loro labbra si univano in un bacio dolce e impacciato, senza più alcun timore.

 

 

 

**

 

"Sherlock, è arrivata della posta!"

John entrò nell'appartamento posando i sacchetti della spesa e le lettere trovate nella cassetta sul tavolo della cucina, dove Sherlock era chino sul suo microscopio ad analizzare chissà quale campione di tessuto.

Il suo compagno-John ancora arrossiva a definirlo tale- non alzò nemmeno gli occhi su di lui nè lo degnò di un misero saluto, ma John non se la prese.

Sherlock amava moltissimo il suo nuovo lavoro, e vi spendeva tutte le sue energie, dedicandovisi giorno e notte.

Aveva deciso di abbandonare la sua carriera di avvocato, e adesso era un consulente investigativo, mestiere che diceva di aver inventato lui stesso.

Quando la polizia brancolava nel buio, ovvero sempre, si rivolgeva a Sherlock, che davanti ad un caso complesso si entusiasmava come un bambino a cui è conesso di incontrare Babbo Natale.

L'ispettore Lestrade gli forniva la maggior dei casi, e la giovane patologa Molly Hooper gli faceva esaminare i corpi all'obitorio del Bart's, ospedale proprio due passi dal loro appartamento.

John era ormai divenuto il fedele assistente di Sherlock, e ogni giorno viveva con lui avventure diverse, tutte assolutamente folli, ridicole e meravigliose, che raccontava addirittura su un blog che aveva aperto online. Sherlock aveva trasformato la città in un entusiasmante campo di battaglia, e John aveva scoperto di non poter più fare a meno del brivido dell'adrenalina che il consulente investigativo gli aveva trasmesso. Così si era licenziato dal suo vecchio impiego, per seguire Sherlock in giro per la città a caccia di criminali.

La sera però la trascorrevano sempre insieme, a gustare i piatti squisiti che la signora Hudson, la loro anziana padrona di casa, preparava con tanto affetto per entrambi, o con Sherlock sdraiato sul divano immerso nella lettura di uno di quegli incomprensibili testi scientifici che lui amava tanto, e John seduto sulla sua poltrona ad aggiornare il suo blog, mentre il camino acceso regalava loro un confortante ed intimo tepore.

Certo era una vita entusiasmante sotto molti punti di vista, ma tra loro non mancavano gli screzi quotidiani, come quando John aveva trovato una testa umana nel frigorifero e dei bubli oculari nel microonde e non l'aveva finita di sbaitare per tutto il giorno, ricordando a Sherlock che non poteva condurre esperimenti ai limiti della legalità nella stessa stanza in cui preparavano da mangiare.

Sherlock ribatteva che di solito mangiavano pasti da asporto in salotto o scendevano al piano di sotto nella cucina della signora Hudson, e allora John sbuffava esasperato, consapevole di non poter mai avere l'ultima parola con lui. E poi sorrideva, e dopo il litigio facevano sempre pace con un bacio.

John Watson amava la sua vita con Sherlock Holmes, anche se i primi tempi della loro convivenza erano stato difficili per entrambi, per Sherlock soprattutto, che ogni notte si svegliava urlando, rivivendo la scena dell'aggressione.

Gli incubi si erano attenuati soltanto negli ultimi tempi, dove che il processo di Moriarty si era concluso. Venti anni di prigione a John sembravano pochi, per quell'essere infame che aveva arrecato tanto dolore all'uomo che amava, ma per Sherlock evidentemente era un compromesso abbastanza decente.

Poco a poco aveva ritrovato la sua serenità, la sicurezza e la fiducia in se stesso, anche se agli occhi di John continuava sempre ad essere un po' troppo saccente e decisamente insopportabile.

Come in quel momento, quando, tra la posta, John scorse una busta rosa e la aprì con una certa curiosità. "Sherlock, qui dice che siamo invitati al matrimonio di Sarah! Non sapevo avesse intenzione di sposarsi... oh." Aggrottò le sopracciglia, stupito. Il matrimonio tra Sarah e Hannah si sarebbe tenuto il quattordici frebbraio, proprio il giorno di San Valentino, così era scritto. Hannah... dove aveva già sentito quel nome? Ma certo, che stupido, Hannah era la ragazza di cui era innamorata Sarah ai tempi del college. Chissà come si erano ritrovate.

In quel momento John si sentì invadere da una grande felicità, non solo per la sua migliore amica, ma anche perchè, finalmente, aveva avuto la prova che l'amore, quello vero, non conosce limiti, nè pregiudizi, nè paure.

"Mi hai sentito, Sherlock? Non trovi che sia una notizia meravigliosa?"

"Non capisco perchè ti agiti tanto, John. Due persone che già stanno insieme entrano in una chiesa, danno una cerimonia, fanno un viaggio e poi continuano a vivere insieme. Che c'è di tanto di stupefacente in tutto questo?"

Senza badare ai suoi commenti acidi, John lo raggiunse e si chinò per dargli un bacio sulla tempia. "E' il matrimonio della mia migliore amica, deve essere straordinario per forza. E poi dovresti ringraziarla, è grazie a lei se ho trovato il coraggio di vivere il mio amore per te."

"Credi sia una cosa positiva?"

"Certo che sì, sciocco. Sai come lo so, sai quando sono sicuro di aver compiuto la scelta più giusta della mia vita? Lo so perchè ogni mattina, quando mi sveglio e vedo il tuo viso, non vedo le cicatrici e le imperfezioni, non vedo il dolore e la sofferenza. Vedo solo il volto dell'uomo che amo. Vedo il volto dell'amore."

 

 
  
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