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Autore: The Writer Of The Stars    05/12/2016    2 recensioni
"Sakura era la disperazione con indosso un paio di calze rotte e Converse bucate. Sakura aveva la pelle perlacea come la superficie della luna sopra di lei, ma era emaciata e livida e aveva anch' ella, come la luna, i suoi crateri profondi nascosti malamente sotto le maniche della felpa consunta. Sakura era un nome che gli piaceva, che gli dava l’idea di purezza, che gli ricordava Kyoto nel periodo della fioritura dei ciliegi, il tempio Sannoh dove si recava con i suoi genitori per le celebrazioni durante le vacanze di primavera, l’odore degli okonomiyaki e le risate di Itachi, quelle vere, quelle di pancia e rumorose, quelle belle e che facevano ridere anche lui. La ragazza che si trovava a pochi metri da lui non era pura, ma la scrutò talmente a lungo che non gli venne in mente altro nome da attribuirle. Si passò la parola “Sakura” sulla lingua per un minuto infinito, arrotolandola particolarmente sulla r, saggiando la consistenza agrodolce delle lettere, assaporando ogni consonante; Sa- Ku- Ra e suonò meravigliosamente nelle sue orecchie, quasi come la risata di Itachi."
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Titolo tratto dal brano "Candy" di Paolo Nutini. |Sasusaku AU!|
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Sakura Haruno, Sasuke Uchiha | Coppie: Sasuke/Sakura
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Nessun contesto
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Darling, I'll bathe your skin
 
Sasuke contemplava la luna perché quella notte gli appariva più bella. Di certo si trattava solo di una sciocca impressione, seppur, in effetti, il satellite si trovava più vicino ai loro volti di quanto non fosse mai stato e il vedere i crateri solcare la roccia perlacea così dettagliatamente, doveva aver contribuito a creare una sorta di misticismo intrinseco nell’aria che aveva finito per coinvolgere anche lui. Ricordava di una vecchia canzone di Christopher Cross che faceva più o meno così: “Quando ti trovi incastrato tra la luna e New York city, la cosa migliore che possa accaderti è innamorarti.” E rimuginò sul fatto che America o Giappone non aveva alcuna importanza, in fondo; la luna c’era anche lì ed innamorarsi non era nelle sue intenzioni. Non sarebbe di certo accaduto e Cross era un cantautore un po’ troppo romantico per i suoi gusti. D’altra parte lui stesso, dall’alto dei suoi ventidue anni, si riconosceva miseramente in quel ragazzo al lato di un marciapiede semi affollato, con la schiena ingobbita a causa della chitarra acustica celata nella custodia e la consapevolezza di dover correre a casa e mettersi a studiare per quel dannato esame di diritto che avrebbe dovuto sostenere tra una settimana. Si era detestato perché, un’altra volta, quella dannata Musa che era la Musica aveva preso voce attraverso le corde della sua chitarra, invitandolo a mollare i libri e seguire quello scapestrato del suo coinquilino a cui, a differenza sua, dell’università importava in maniera relativa e, soprattutto, non nella sua stessa maniera spasmodica. Ora però, ora che poteva andarsene via e tornare a sbattere la testa sul codice penale, non gli riusciva proprio di staccare gli occhi da quella dannata luce e gli veniva stupidamente da parlarle, da chiederle cosa faceva lì in cielo, così sola eppure così amata, per chi splendeva tutta la notte, perché perseverava nell’ammaliare l’animo di tutte quelle stupide persone, lui compreso.

“Sasuke!” sobbalzò violentemente, trattenendo a malapena un sussulto. La luna, maledetta bastarda, aveva assunto le sembianze di una mera incantatrice, una subdola Circe che si era divertita a rievocare pensieri controproducenti e aforismi d’estrazione filosofica e lui, come i compagni del multiforme Odisseo, era caduto nella sua trappola, scivolando nell’oblio di quell’ingannevole tela intessuta di trucchi.

“Cosa vuoi, Naruto?” Rispose, staccando con dolore lo sguardo dalla sua nuova amata, perché è vero, aveva detto che non voleva innamorarsi, ma forse per la luna poteva fare un’eccezione.

“Sei ancora tra noi?” gli chiese, con quel tono canzonatorio capace di instillare in lui un fastidio che rasentava l’insopportabile. Aveva conosciuto Naruto anni prima, in concomitanza con il suo arrivo a Tokyo. La prima volta che lo aveva trovato in giro per il suo appartamento in accappatoio e ciabatte era stato colto da un improvviso istinto omicida e ci era mancato davvero poco che gli spaccasse il primo vaso di fiori capitatogli tra le mani contro quella testa bionda.  Però lui lo aveva fermato prontamente, spiegandogli, con le pupille cerule tremanti, che era solo il nuovo coinquilino e non un maniaco pronto a stuprarlo. Sebbene inizialmente riluttante, aveva comunque accettato Naruto come compagno d’appartamento, anche perché il proprietario non aveva voluto sentire discussioni, e col tempo aveva scoperto che in fondo, per quanto petulante, logorroico e insopportabile, un po’ di compagnia non gli avrebbe nociuto così gravemente; anche perché l’uomo è sì un animale politico, come diceva Aristotele, ma necessitava anche di altre forme di vita per poter sopravvivere. Quest’idea, in realtà, non l’aveva pensata lui, ma gli era capitata sotto gli occhi mentre sfogliava un trattato di filosofia qualche tempo prima, in una libreria vicino ai grandi magazzini. Per quanto non riuscisse a ritrovarsi in quell’espressione, gli era comunque sembrata una riflessione carina ed aveva finito per comperare il suddetto libro, che poi era stato gettato sotto i volumi universitari e abbandonato a se stesso, in attesa di essere letto in una vita futura. Ad ogni modo, per quanto non lo avrebbe mai ammesso ad anima viva, nemmeno sotto tortura medievale, Naruto era una bella persona e, di certo, quanto di più simile ad un amico potesse considerare. Perciò lo disprezzava, sì, ma non così tanto.

“Così pare, purtroppo.”

“Mi preoccupi quando fai così.” Disse, per poi sorridere apertamente, come sempre, e Sasuke ricambiò con una smorfia che inglobava in sé una tacita intimazione ad andarsene a quel paese.

“Comunque, hai finito di distribuire i volantini?” il moro annuì, lanciando un’occhiata alla mano vuota. Naruto, oltre ad essere completamente pazzo e frequentante la facoltà di psicologia saltuariamente, preferiva la pratica alla teoria e faceva perciò parte di un gruppo di volontari in aiuto di tossicodipendenti che tentavano di prevenire l’uso di sostanze e quant’altro con consigli e un minimo di sostegno umano che a volte manca negli studi psichiatrici. Una di cricca di Freud dei poveri, insomma. Sasuke non si era mai interessato più di tanto alla loro attività ma Naruto, due giorni prima, lo aveva supplicato di aiutarlo per un concerto di beneficenza organizzato in un pub in centro per raccogliere fondi per la loro associazione. Aveva sbuffato, rifiutato almeno dodici volte e mandatolo a quel paese altrettanto numerosamente ma Naruto, che se voleva sapeva diventare l’essere più irritante dell’intero universo, aveva insistito così tanto che aveva finito per accettare esasperato pur di non sentire più il suo belare incessante. Suonava, tra i vari strumenti, la chitarra e perciò si era ritrovato circondato da un gruppo di esaltati che lo avevano osannato come un dio non appena lo avevano visto arrivare con lo strumento in spalla e l’avevano condotto verso il locale in processione religiosa, facendolo pentire ogni secondo di più di aver accettato “l’ invito” di quel branco di cerebrolesi. Erano loro ad aver bisogno d’aiuto, come potevano pretendere di darlo a qualcun altro? Il pub era stranamente pieno, e a dire il vero non sapeva se considerarlo o meno un successo, dal momento che era un buco di quattro metri quadri di cui tre erano occupati dal minuscolo palchetto sul quale si era esibito. Al termine dello spettacolo, come se non bastasse, quell’idiota lo aveva anche costretto a distribuire volantini esplicativi della loro associazione, e lo avrebbe volentieri picchiato, perché la sua pazienza e dignità avevano un limite che era stato superato già da tempo ma senza rendersene conto si era ritrovato le mani pieni di fogli che era stato costretto a lasciare ai passanti, celando le più colorite bestemmie negli occhi.

Ad ogni modo, Sasuke lanciò un’occhiata stizzita all’ultimo volantino rimastogli. “Parliamone insieme!” c’era scritto in alto a caratteri cubitali e la cosa lo aveva fatto imbestialire, perché lui lo sapeva cosa significa avere a che fare con quella roba, perché suo fratello si bucava ma non parlava mai con lui o i loro genitori, ed era stato tutto chiaro solo quando lui stesso, appena sedicenne, aveva trovato Itachi riverso in terra nel bagno della loro casa, con talmente tanta eroina in corpo che gli aveva rubato la vita e il battito del cuore. Perciò no, non ne vogliono parlare, non vogliono chiedere aiuto e non sanno quanta distruzione e dolore si lasciano alle spalle dopo l’ultima dose della loro vita. Lui lo sapeva, lo aveva sperimentato sulla propria pelle. Però era stato zitto, perché di anni dallo psicologo dopo “il giorno peggiore” ne aveva passati tanti, e ancora gli sembrava di sentire le grida straziate di sua madre che dopo la scomparsa di Itachi aveva assunto la consistenza di un fantasma, e rivedeva suo padre che gli lanciava un ultimo sguardo ambiguo mentre il treno partiva portandolo verso Tokyo, come a dirgli “rifatti una vita e lascia perdere questa”. Così aveva distribuito i volantini a tutti i passanti, con disinteresse e occhi algidi, osservando la gente accartocciare il foglio e gettarlo per terra dopo aver aggirato i cinque metri del proprio campo visivo. “Avete ragione” si era detto “questa roba non serve a niente.”
 
“Bene. Grazie mille per il tuo aiuto stasera, non so come farò a sdebitarmi.” Disse Naruto con un sospiro e stava quasi per trovarlo lui un modo per sdebitarsi, come pulire la casa per almeno tre mesi o fare la spesa per il resto dell’anno. Per una volta che avrebbe potuto approfittare della situazione, non si sarebbe di certo lasciato sfuggire l’occasione.
 
“Buttate via questa roba! Sono tutte cazzate, cazzate vi dico!” Sasuke mosse il capo incerto, alla ricerca di quella voce alta e infuriata. Sicuramente apparteneva ad una donna. Dall’altro lato della strada scorse allora una ragazzina aggredire alcuni dei passanti, strappando dalle loro mani alcuni fogli e gettandoli per terra, gridando rabbiosa come un’invasata. Aveva i capelli rosa e l’aria da pazza. La guardò allibito, immaginando Naruto nelle sue stesse condizioni. La ragazza intanto si era fermata a riprendere fiato, respirando pesantemente, per poi strappare con forza il foglio rubato dalle mani dell’uomo dinanzi a lei. Non appena alcuni dei pezzetti di carta toccarono terra, riuscì a scorgere, da lontano, un “parliamo” scritto con quel fastidioso rosso sgargiante, e riconobbe così il foglio come il volantino da lui distribuito.

“Ma chi è?” chiese quasi senza rendersene conto, fissando ancora la ragazzina dagli abiti decisamente troppo leggeri per una notte gelida come quella.

“Si chiama Sakura.”

“La conosci?” chiese, aggrottando le sopracciglia.

“So chi è. È famosa nel gruppo.”  Spiegò Naruto con serietà, rimanendo ambiguo.

“E perché è famosa?”

“Beh, guardala; fa sempre così.”

“Così come?”

“Ogni volta che distribuiamo i volantini del gruppo di supporto lei si avventa sulla gente strappandoglieli dalle mani e stracciandoli, gridando che sono cazzate inutili.”

“Ma è una …”

“Sì, si droga.”
Stette in silenzio per diversi secondi, osservando la ragazza sedersi malamente su una panchina abbandonata, borbottando qualcosa tra sé e sé dopo aver terminato la sua sfuriata.

“Che tipo di droga?” chiese infine.

 “Classe A. Eroina, robe così; fa parte dell’ A Team.”
Sasuke percepì un brivido meschino percorrere l’intera lunghezza del midollo spinale e nei suoi occhi bui riemerse il fotogramma di un giovane uomo pallido e accasciato squallidamente sul pavimento di un bagno disinfettato, con una siringa conficcata nel braccio e le palpebre sbarrate.

“A team?”

Le grida straziate di sua madre gli perforarono i timpani.

“Si, lo chiamiamo così. I drogati che si fanno di roba di classe A. A team.”

Suo padre lo supplicava con gli occhi di andarsene e vivere.

 La ragazzina, che non mostrava più di vent’anni, si portò le ginocchia al petto, abbassando il capo su di esse.

“E non ce l’ha una casa, un posto dove stare?”

“E’ quella la sua casa.” Disse Naruto, indicando la panchina fredda e arrugginita.

“I suoi l’hanno cacciata di casa quando hanno scoperto che si faceva, così da quando ha diciotto anni vive lì. Per pagarsi la roba vende il suo corpo.”

Il suo subconscio riprodusse l’immagine della piccola drogata dal corpo esile e scarnificato, nuda e piena di graffi, che vendeva la dignità per l’eroina e la trovò maledetta, bellissima e maledetta.

“Non hai idea di cosa la gente possa arrivare a fare per un paio di grammi di roba. Impazziscono tutti, prima o poi.”

Sasuke sapeva cosa potevano arrivare a fare per due grammi. Si può morire, per due stupidi grammi.

“Ci abbiamo provato a portarla alle riunioni e agli incontri d’aiuto, ma si è sempre rifiutata, urlando e scappando via al primo tentativo di fuga.” Continuò.
“E` un peccato però; dicono che suonasse il pianoforte divinamente. Sarebbe potuta diventare una pianista eccezionale.” Concluse Naruto, prima di lasciargli un’amichevole pacca sulla spalla.

“Io torno dentro. Ci vediamo dopo, e grazie.” Si allontanò e lo lasciò solo.

 Sakura era la ragazzina drogata. Sakura era la prostituta che sedeva sulla panchina, imbronciata come una bimba. Sakura era la disperazione con indosso un paio di calze rotte e Converse bucate. Sakura aveva la pelle perlacea come la superficie della luna sopra di lei, ma era emaciata e livida e aveva anch’ella, come la luna, i suoi crateri profondi nascosti malamente sotto le maniche della felpa consunta. Sakura era un nome che gli piaceva, che gli dava l’idea di purezza, che gli ricordava Kyoto nel periodo della fioritura dei ciliegi, il tempio Sannoh dove si recava con i suoi genitori per le celebrazioni durante le vacanze di primavera, l’odore degli okonomiyaki e le risate di Itachi, quelle vere, quelle di pancia e rumorose, quelle belle e che facevano ridere anche lui. La ragazza che si trovava a pochi metri da lui non era pura, ma la scrutò talmente a lungo che non gli venne in mente altro nome da attribuirle. Si passò la parola “Sakura” sulla lingua per un minuto infinito, arrotolandola particolarmente sulla r, saggiando la consistenza agrodolce delle lettere, assaporando ogni consonante; Sa- Ku- Ra e suonò meravigliosamente nelle sue orecchie, quasi come le risate di Itachi. Allora si spaventò per quei pensieri così umani, così “non da lui”, e si odiò, perché quella ragazzina gli ricordava suo fratello e il senso di colpa per non essere riuscito a salvargli la vita ancora lo opprimeva ogni giorno.

“Hai ragione.”
Sakura spalancò le iridi smeraldine e alzò il capo spaventata, percependo il cuore battere con una frequenza troppo elevata contro il suo sterno ammaccato. Volse lo sguardo alla propria destra e sobbalzò quando si ritrovò il profilo fiero e raffinato di un ragazzo seduto sulla sua panchina, con lo sguardo fisso verso la strada dinanzi a loro, la schiena ritta, il collo proteso in avanti e il pomo d’adamo leggermente ingrossato e le sembrò così elegante al suo confronto, che si vergognò di se stessa fino alle lacrime.

“Chi sei?” sputò fuori intimidita, accucciandosi maggiormente su se stessa, affondando il mento gelato tra le ginocchia nel tentativo di trovare calore. Il ragazzo al suo fianco alzò le spalle e la chitarra adagiata sulla sua schiena seguì quello stesso movimento, catturando la sua attenzione su di essa.

“Ti interessa davvero?” le chiese cinico e Sakura notò come evitava il suo sguardo, quasi avesse paura di incontrare i suoi occhi; realizzò così che doveva sapere di lei, e per la prima volta in vita sua si vergognò, dinanzi a qualcuno che non fosse lo specchio rotto di un motel, di ciò che era diventata.

“Credo di sì.” Biascicò a testa bassa, imprecando contro se stessa alla ricerca del suo dannato orgoglio.

“Anche perché” riprese dopo un paio di secondi, con un briciolo di rinnovata grinta “Sei stato tu a venire qui e a parlarmi.” Il ragazzo incurvò le labbra sottili in un ghigno sardonico e Sakura si chiese, istintivamente, come doveva essere baciare quella bocca che le sembrava così poco incline ai sorrisi.

“Questo è vero.” Le concesse. Poi rimase in silenzio.

“A cosa ti riferivi quando hai detto che ho ragione?” tentò perciò Sakura, nel disperato tentativo di trovare una spiegazione alla presenza di quel ragazzo così algido da farle venire i brividi, diversi però da quelli provocati dal vento catabatico di dicembre.

“Al fatto che non serve a nulla parlare con loro dei propri problemi; è vero, è inutile.” Sakura si sorprese, perché era la prima persona che incontrava a pensarla come lei.

“Non ho detto però che devi ammazzarti con la droga.” Riprese il ragazzo dopo pochi secondi, ed era stato così duro e cinico che le era quasi parso di percepire una stilettata al petto.  

“Chi sei per dirmi cosa devo o non devo fare?” si sentì attaccata e perciò reagì attaccando a sua volta, stizzita e irata come una fiera che rizza i peli nel momento in cui avverte il pericolo e ringhia per difendersi tentando di mascherare il timore con la sfrontatezza.

“Assolutamente nessuno. Oppure Sasuke, se preferisci.”
Sakura sobbalzò, sorpresa di aver udito il suo nome quando ormai non se lo aspettava più. Eppure, il pericolo continuava ad incombere su di lei, era ormai l’una di notte e l’aria era così gelida che per la prima volta in vita sua temette di non riaprire gli occhi la mattina dopo. Voleva compagnia, necessitava la presenza di qualcuno che non la toccasse solo per cercare piacere nell’incavo dei suoi seni e che le ringhiasse poi, durante l’amplesso, che era troppo magra e ossuta e quello non era il corpo di una donna, ma di un manico di scopa. Tutte quelle volte Sakura rimaneva nuda sul letto, con le coperte attorcigliate tra le gambe e il petto glabro bagnato di lacrime calde e ricordava di quando aveva ancora una casa e da mangiare ogni giorno, e amore, così tanto amore che si odiava per aver preferito un paio di grammi al posto dei suoi genitori, ma ormai era talmente immischiata in quella roba che non aveva la minima idea di come uscirne fuori. Solo una cosa sapeva; che non voleva parlarne davanti ad un cerchio di strizzacervelli. Quel ragazzo però le pareva diverso; era cinico e freddo, e non somigliava a quegli esaltati del gruppo di sostegno. Sembrava ignorarla ed invece ascoltava ciò che diceva. Sembrava qualcuno di cui potersi fidare, perché non dava l’idea di una spia interessata a riferire i fatti degli altri in giro; sembrava capitato nel posto sbagliato al momento sbagliato, ma a Sakura quello sbaglio avrebbe potuto fare bene.

“Suoni la chitarra?” gli chiese a bruciapelo, additando la custodia alle spalle del giovane. Sasuke snocciolò un altro sorrisino derisorio, scuotendo leggermente il capo come esasperato.

“A meno che non mi diverta ad andare in giro con questo peso sulle spalle, direi proprio di sì.”
Sakura si morse il labbro imbarazzata, tentando di trattenere una rispostaccia che, comunque, non tardò ad uscire dalle sue labbra screpolate.

“Posso sapere cosa vuoi da me?”
Sasuke, per la prima volta in quei tesi minuti, volse lo sguardo verso di lei e venne colto da un tumulto interiore nello scontrarsi con le iridi smeraldine e lucide di lei, gli occhi già grandi che contornati da quella matita nera e a tratti sbavata sembravano enormi e meravigliosi. Rimase in silenzio per infiniti secondi, perché, in effetti, non aveva nemmeno lui idea di cosa volesse fare. Aveva quei dannati libri da studiare che lo aspettavano a casa e doveva passare quell’esame con il voto massimo, perché Itachi stava studiando giurisprudenza e gli piaceva così tanto che, dopo la sua morte, Sasuke aveva deciso di completare lui stesso il sogno di suo fratello; avrebbe studiato a memoria quei complessi articoli che non gli piacevano per niente, si sarebbe laureato col massimo dei voti e il giorno della consegna del diploma avrebbe riservato una sedia vuota in prima fila per lui, anche se era una cosa stupida e sentimentale, sarebbe diventato uno dei migliori avvocati del paese perché era il sogno di Itachi e lui si sentiva troppo in colpa per non essere riuscito a salvargli la vita che sentiva di dovergli almeno quel piccolo sogno. Eppure quella notte non riusciva ad alzarsi dalla panchina, guardava Sakura e vedeva il suo fallimento con Itachi che eppure respirava ancora, e forse stavolta sarebbe riuscito a salvare una vita e se era quella di una bellissima ragazzina che non conosceva non aveva importanza, era comunque una vita che meritava di tornare ad essere vissuta.

“Perché lo fai?” le chiese diretto, scavando sul fondo di quelle iridi amene che gli fecero salire un groppo alla gola tanto erano belle. Sakura assunse un’espressione di rabbia vergognosa e abbassò lo sguardo, serrò i pugni e si morse le labbra tumefatte alla ricerca di una risposta sensata da dare.

“Perché ho sempre avuto bisogno di seguire qualcuno nella mia vita. Non ho mai avuto l’autostima necessaria ad essere il modello di me stessa e credevo che entrando in un gruppo di amici ne avrei trovato uno. Solo che il loro modello era la cocaina, e ho finito per seguirlo anche io.” Spiegò Sakura con la voce a tratti rotta, così vergognosa che si fece pena da sola.

“Anche mio fratello ha cominciato a causa di amicizie sbagliate.” Sasuke si sorprese di se stesso a rivelarle quei particolari della sua famiglia, perché non ne aveva mai parlato con nessuno da quando era giunto a Tokyo, nemmeno Naruto sapeva niente e lui non avrebbe mai voluto dirglielo. Perché ora, invece, davanti a quella sconosciuta gli veniva così naturale riesumare quei ricordi così dolorosi che lo avrebbero potuto uccidere?

“Al suo funerale, però, i suoi amici non c’erano.” Sakura trattenne il respiro e provò un ineguagliabile senso di colpa dinanzi a quel ragazzo che sembrava capirla meglio di chiunque altro, sebbene sapesse a malapena il suo nome. Sussurrò un “mi dispiace” sinceramente affranto per poi tornare ad affondare il volto tra le ginocchia, soffiando sulle mani screpolate nel tentativo di scaldarle. Sasuke la guardò, e gli venne in mente una vecchia canzone di Cat Stevens che si chiamava “The wind” e aveva una delle più belle melodie per chitarra che fossero mai state scritte.* Osservò il profilo bambinesco e delicato di Sakura e i lividi violacei che le costellavano la pelle, e accostò quella stessa melodia a lei, alla sua meraviglia e alla struggente malinconia di quegli accordi, così belli e lei così bella da fare male.

“Io suonavo il pianoforte.” Esclamò d‘un tratto Sakura, così dal nulla, risvegliandolo dallo stato catatonico in cui era caduto.

“Mpf.”

“Ero anche brava, sai? Dicevano che sarei potuta arrivare lontano, ma non ci ho mai creduto abbastanza per farlo.”
Sasuske la osservò e non gli venne in mente niente da dire.

“Ti piacerebbe ricominciare a suonare?” le chiese solo quello, il che pareva più una domanda di cortesia che di sincero interesse, sebbene lui, alla sua risposta, fosse interessato davvero. Sakura alzò le spalle e sorrise con così tanta malinconia che gli fece male.

“Mi piacerebbe anche smettere di buttarmi via per due grammi, ma come vedi non tutto è possibile.”
Un taxi sfrecciò rumorosamente sulla strada dinanzi a loro e l’orologio di un edificio nelle vicinanze rintoccò all’improvviso per una dozzina di volte; si era fatta l’una e mezza.

“Tu non dovresti andare a casa?” gli chiese all’improvviso Sakura, mentre con le unghie spezzate grattava via la vernice scrostata della panchina. Sasuke si concentrò su quel fastidioso “cra cra” e visualizzò nella sua mente i libri di diritto aperti sul tavolo del suo appartamento, Naruto che probabilmente si chiedeva che fine avesse fatto e infine Itachi che gli scompigliava la zazzera scura, lo rassicurava dicendo che non era colpa sua e non c’entrava niente con i suoi errori e poi rideva di quella risata di pancia bella e piena, e  gli diceva che gli voleva bene perché era il suo fratellino e avrebbe accettato ogni sua scelta supportandolo sempre. Contemplò il profilo di Sakura, scacciando dalla mente quella stupida frase di Cross, perché non è detto che quando ti trovi incastrato tra la città e la luna la cosa migliore che tu possa fare è innamorarti, o forse sì, non lo sapeva ancora, ma quella ragazza era affamata d’amore così come lo era lui e non voleva lasciarla sola, non voleva far morire anche lei per colpa di un paio di grammi. Sarebbe rimasto sveglio tutta la notte, al gelo di dicembre seduto su una vecchia panchina di Tokyo, nel tentativo di salvare una vita e Itachi sarebbe stato più fiero di lui di quanto per un trenta sul libretto universitario.

“Nah” rispose con un’alzata di spalle “Non ho niente da fare là.”
 

Nota autrice:
Una mia vecchia idea nata dal brano “The A team” di Ed Sheeran. Spero vi sia piaciuta, fatemi sapere le vostre opinioni, mi farebbe piacere!
*https://www.youtube.com/watch?v=qt24Lo7IgXM The wind, Cat Stevens. Come citato da Sasuke.

 
   
 
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