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Autore: Sage striaton    06/12/2016    0 recensioni
La prima fanfiction Jenruki su questo sito, che vede Jenrya tentare di comprendere la fredda Ruki Makino e di stabilire nuovamente qualsiasi tipo di contatto con lei, e ragionare a volte sulle parole del suo saggio Sensei. Impresa non facile penetrare in quel ghiaccio che circonda la ragazza.
Jenruki/Henrika
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Henry Wong, Rika Nonaka | Coppie: Jianlinag Wong/Henry, Ruki Makino/Rika
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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DIGIMON TAMERS APPARTIENE AD AKIYOSHI HONGO.
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Forse è colpa mia.”

La stanza riecheggiava di risate e allegri gridolini, di tintinnii di bicchieri che a volte s’incontravano come per fare un brindisi. Tutti sorridevano felici e gioiosi tranne una piccola mosca bianca che si trovava in quella specie di festa. La schiena appoggiata al muro, le braccia incrociate, l’espressione del suo candido volto impassibile; Ruki Makino esprimeva il suo dissenso e la sua rabbia repressa in questo modo: isolandosi. Li guardava tutti uno per uno, con un cinismo impressionante; nella sua testa mille pensieri ostili nei loro confronti si stavano sviluppando e si chiese silenziosamente il motivo per cui si trovava tra quei ragazzi, quando invece avrebbe potuto tranquillamente sentire la musica con le sue cuffie o fare qualsiasi altra attività che le piaceva.

Preferirei fare qualsiasi altra cosa invece di stare qui con questi…Con questi…Sì, insomma con questi idioti.

Diede un pugno al rigido muro al quale si era appoggiata e ringhiò non preoccupandosi di farsi sentire da qualcuno. Odiava davvero tanto quella festa.
Era ormai passato un anno e mezzo dalla partenza dei loro Digimon e quindi anche della sua amata Renamon. Una volta usciti dalla grande depressione che ovviamente aveva colpito i giovani, avevano deciso che ogni anno avrebbero organizzato un party in onore dei loro cari amici digitali per non dimenticare. Non avrebbero mai dovuto dimenticare il grande affetto che avevano provato per loro e soprattutto non avrebbero mai dovuto dimenticare che in passato erano stati dei Domatori di Digimon. Quella era la prima volta che il gruppo aveva tentato di organizzare la festicciola e, visto che oramai non si poteva più accedere al rifugio di Guilmon, il luogo che scelsero fu la panetteria dei genitori di Takato. Lei non era mai stata d’accordo, non aveva mai alzato la mano per esprimere il suo consenso, non aveva nemmeno aiutato i suoi amici nei preparativi. Cos c’era da gioire? Non c’era proprio nessun motivo per essere felici: la volpe digitale, la sua amica non c’era più; era rimasta sola, soffriva, ma tanto nessuno la capiva e l’avrebbe mai capita; non era intenzionata ad aprirsi e a mostrare le sue debolezze, assolutamente no. Non importava ciò che aveva fatto con Renamon l’anno passato, non importava a nessuno poiché lei era e sarebbe sempre stata la ragazza dal cuore di ghiaccio, la grande Regina Digimon.

Eppure tutti festeggiavano, tutti avevano avuto il coraggio di guardare oltre e di continuare la loro vita. Lei no, e questo la faceva imbestialire ancora di più. Si stava omologando agli altri? Batté ancora più forte la sua mano contro il muro, e presto Juri e Takato notarono l’irritazione della ragazza dai capelli ramati e si avvicinarono a lei.

“Ehi, Ruki! Vieni a brindare!”

“Oppure se non vuoi un po’ di coca cola, puoi sempre assaggiare le pagnotte di Takato. Sono caldissime!”

Non voleva ferire Juri in alcun modo, era già passata attraverso dei momenti difficili, così si limitò a scuotere la testa e a dirigersi verso un altro angolo della stanza. Era solo Juri che la spingeva a rimanere, nessun altro. Fu una pessima decisione. Proprio di fronte a quell’angolino, in cui lei pensava che avrebbe trovato la pace, vi erano quattro ragazzi seduti a un tavolino che giocavano a carte.

“Kazu! Ti prego incenerisci Ryou!”

Il ragazzo dal taglio di capelli alquanto eccentrico si girò la visiera del berretto e si voltò verso il suo amico d’infanzia che portava gli occhiali.

“Kenta, mai dubitare di Kazu. Vedrai che questo torneo lo vincerò io!”

Ryou sogghignò, mentre guardava con un’espressione stranita il tuo avversario.

“Sì, certo, Kazu. Se mentre sei al torneo ti metti a parlare come una radio, stai sicuro che sarò ancora io il Re Digimon. Ci vuole concentrazione e soprattutto serietà. Devi sudare e…”

“Non m’importa! Ognuno gioca e vince secondo i suoi schemi e le sue modalità. Giusto, Kenta?”

“Certamente! Ce…Ce la puoi fare.”

“Devi essere più convinto.”

Socchiuse gli occhi come se fosse disperato, ma subito dopo sentì qualcosa colpire il tavolo emettendo un rumore sordo. Sbarrò gli occhi

“Combo! Ho vinto.”

“No! No! Questo non è leale!”

“Certo che lo è. È una lezione. Ora hai capito perché non dovresti parlare durante la battaglia?”

Chiuse una mano in un pugno e frustrato si rivolse ancora una volta verso Kenta, che quel giorno era diventato una specie di avvocato personale. Timidamente si aggiustò gli occhiali e balbettò, facendo irritare il giovane.

“Avanti, amico, puoi fare di più. Jen, tu cosa ne pensi?”

Quando dissi che alla festa vi era una sola mosca bianca, in verità mi sbagliavo: c’era un’altra piccola anima tra quei ragazzi che aveva la testa altrove in quel momento. I suoi occhi grigi fissavano il pavimento a piastrelle assenti e a volte le sue pupille si dilatavano per un fratto di secondo.

“Jenrya!”

“Cosa c’è?”

“Caspita, fratello, sei fuori come una campana oggi.”

“Scusatemi, ero in sovrappensiero.”

“Quando mai.”

Sentì stranamente un pizzico di irritazione nei confronti del castano, ma come al solito nascose quel sentimento e sorrise cordialmente.
“In cosa posso esservi utile?”

“Ryou ha barato.”

“No, non è vero.”

“Sì, ch’è vero! Jenrya, diglielo tu!”

“In verità io non ho visto nulla di così sbagliato nel...”

“Amico, ho chiesto il tuo aiuto! Come avvocato saresti una frana…”

Il più grande tra i quattro rise, mostrando i suoi denti scintillanti.

“Beh, il nostro Jenrya vuole diventare un programmatore. Non c’è problema, Kazu.”

“Tu stai zitto!”

“Dobbiamo migliorare sulla sportività la prossima volta.”

“Sono sportivo!”

Improvvisamente sentirono un rumore secco che li fece rabbrividire, e anche Jenrya, che tra i quattro era quello che ancora aveva conservato la calma, s’irrigidì. La ragazza dai capelli ramati batté ancora una volta la sua mano sul tavolo e ringhiando cominciò la sua lamentela.

“Ma è possibile che voi non siate capaci di essere seri per una buona volta? Litigate per un gioco di carte, siete patetici!”

Kazu cercò di assumere un’espressione dura, sperando d’incuterle paura, ma alla fine si limitò a dire:

“Oh! Ecco la Regina Digimon.”

“Sua maestà in tutta la sua ira più focosa” Aggiunse poi Ryou ridacchiando.

Kenta toccò le magliette dei due amici, tremante, tentando di avvertirli del pericolo immanente, ma quelli continuarono a scambiarsi delle battute. Ruki s’irritò e toccò l’apice della sua ira.

“Mi fate schifo, mi fa tutto schifo.”

Tutti, persino coloro che non erano vicino a quel tavolo, si fermarono e guardarono con curiosità e preoccupazione la scena. Il battito cardiaco di Ruki accelerò e il suo viso divenne rosso come un peperoncino molto piccante.

Takato e Juri si avvicinarono.

“Ruki, che è successo?”

“Questi due ti hanno dato fastidio?”

Freddamente pronunciò le parole che per tutto quel giorno aveva desiderato dire.

“No, Juri, non solo loro, ma tutti mi stanno dando fastidio compresa questa stupida festa. Non ha senso organizzare qualcosa di divertente mentre i nostri Digimon sono separati da noi! Non ha senso festeggiare un evento così…Così…Così significativo nella vita di ognuno di noi. Voi invece ridete, scherzate, agite come degli idioti! Siete odiosi!”

Ryou si alzò e le toccò una spalla, ma con suo dispiacere lei si allontanò da lui con violenza, reprimendo una voglia infinita di dargli un pugno in faccia.

“Ruki, non eri obbligata a venire qui.”

“Faccio finta di non aver sentito.”

“Infatti, fai finta perché ho ragione. Potevi benissimo rimanere a casa tua.”

“Voi non capite nulla. Siete una massa di decerebrati, addio!”

Cominciò a correre con rabbia, con le mani chiuse in due pugni e con la mandibola completamente irrigidita. Uscì senza il suo cappotto, ma non le importava: non sarebbe mai tornata in quella gabbia di matti. Il freddo penetrò subito nelle ossa, ma continuò a fuggire da quella dura realtà, da quelle persone che una volta aveva avuto il coraggio di chiamare amici.

Nella panetteria tutti erano rimasti attoniti, incapaci di dire una sola parola. Kazu tentò di aprire bocca, ma fu interrotto da una forte stretta al suo polso da parte di Kenta. Jenrya si mise una mano sotto il mento, preoccupato e cominciò a pensare. Erano riusciti a farla aprire, ma dopo l’addio ai loro amici digitali, la ragazza aveva cominciato nuovamente a circondarsi di un gelo infinito. La cosa che più detestava era che probabilmente la ragione di questo comportamento era lui stesso. Il ragazzino dai capelli scuri e Ruki non avevano mai chiacchierato molto, non erano nemmeno tipi molto loquaci, ma si mise in testa che doveva fare qualcosa. Voleva rivederla sorridere, voleva rivedere quei suoi occhi viola riprendere vita; e soprattutto voleva capire se Ruki era davvero arrabbiata con lui per colpa di suo padre. Anche se la risposta già la sapeva sfortunatamente, riuscì a recuperare un briciolo di speranza. Prese il suo giubbotto color senape, il suo ombrello verde e uscì dalla panetteria.

Forse non è colpa mia.

“Dove vai, Jen?”

“Tranquillo, Takato, torno subito.”

Tranquillamente cercò di adattarsi al brusco calo di temperatura e cominciò ad ispezionare l’ambiente circostante, sperando di trovare anche sola una piccola traccia della ragazza dai capelli color carota. Ruki era un mistero per lui. Come aveva fatto a sparire in poco tempo dalle strade del quartiere? Camminò desiderando con tutto il cuore di trovarla; controllò nei bar, nei negozi, nelle viuzze che erano quasi invisibili agli occhi di molti, ma niente. Tuttavia, proprio quando Jenrya si stava per arrendere, un colpo di tosse lo fece ritornare nel mondo degli speranzosi. Freneticamente con i suoi profondi occhi grigi tentò d’identificare una figura famigliare in tutta quella candida neve, e finalmente la vide camminare come un coraggioso guerriero che intende ritornare in patria anche a piedi.

“Ruki! Ehi, Ruki!”

La ragazza si fermò, con pura sorpresa del ragazzo metà cinese e metà giapponese. La sua voce riecheggiò nella gelida aria e tutto per lui sembrò diventare meno sopportabile e più doloroso.

“Che c’è, Lee?”

Fece una smorfia ben visibile, un mix di delusione e tristezza. Si passò una mano tra i capelli scuri lentamente.

Persino il nome mi hai tolto, Ruki…Deglutì e lottò contro quella sensazione insostenibile che stava crescendo nella sua gola. “Ruki, perché non mi chiami…Jen?”

Lo guardò con la coda dell’occhio e alzò una delle sue sopracciglia color arancia.

“Non ho tempo da perdere con te. Devo tornare a casa.”

“No, fermati, Ruki. Voglio una risposta.”

Ancora una volta la regina Digimon ringhiò e lo guardò dritto negli occhi, mostrando un’impenetrabilità che fece aumentare quello strano sentimento nella gola di Jenrya.

Ruki che ti sta succedendo? È l’inverno che ti rende così gelida e fredda? Scosse la testa e la guardò senza paura nelle pupille dei suoi occhi violacei. “Ruki, non potresti dirmi cosa ti sta passando per la testa?”

“Nulla. Io sono così.”

“No, non è vero. O meglio eri così, ma eri cambiata, il tuo cuore si era sciolto. Ridevi, scherzavi, giocavi con noi e ti preoccupavi anche per noi! Ora, invece, eviti con tutte le tue forze di fare tutto ciò; e…E sei ostile nei miei confronti. L’ ho notato. Prima ero Jen per te.”

“Ora smettila con questa storia. Io ti chiamo come voglio, cosa importa. Il nome è una convenzione.”

“Ma prima avevi cominciato a chiamarmi Jen, capisci? Solo la mia famiglia mi chiama Jen. Tu non mi chiamavi Jenrya, Ruki, mi chiamavi Jen; era importante per me.”

“Smettila, sei patetico.”

Jen non si arrese.

“Ruki, non sono stupido. Lo so cosa sta succedendo. Lo so e…E mi fa male.”

“Ti fa male? Mi dispiace così tanto. Visto che a quanto sembra sono causa di molti mali, non mi frequentare.”

Un piccolo colpo al cuore.

“Non capisci. “

“Non capisci non lo dici a me.”

“So che sei arrabbiata con me, ma anche a me manca Terriermon, mi manca tantissimo. La notte mi sento solo, capisco quanto era importante per te Renamon, ma…È mio padre e l’ho perdonato, non pienamente, ma l’ho perdonato.”

La ragazza si mise sulla difensiva.

“Non nominare Renamon, Lee, o non mi vedrai più.”

Guardò le sue scarpe a causa di un’improvvisa ondata di timidezza. “Ho fatto una promessa a Takato, a Juri, a Shaochung, a Terriermon e persino a te: prometto su ciò a cui ci tengo di più che un giorno, non importa quanto sarà lontano, rimedierò a questo disastro che papà e i suoi colleghi hanno combinato; tu e Renamon vi rivedrete ancora, vi riabbraccerete.”

“Vivi di sogni e speranze. Vivi di illusioni e futilità. Non è detto che nella vita accadrà tutto quello che vogliamo, sei uno sfrontato! Fai promesse, studi e t’impegni: ti garantisco che non riceverai nulla alla fine.”

“Almeno potrò dire che ho tentato. Non siamo pessimisti.”

“Io vivo di pessimismo se non mi hai compreso. Ah giusto, dimenticavo che nessuno mi capisce. Lasciamo perdere, me ne vado. Mi rifiuto di parlare con uno che ha la testa tra le nuvole. Non importa quanto sarai supportato da quegli altri tuoi adorati compagni, io non crederò mai in te.”

Jenrya sentì che un coltello invisibile stava penetrando nella sua carne e stava togliendo lentamente sangue dal suo cuore. Ora quella sensazione dalla gola si stava spostando verso gli occhi. Pungeva, feriva; ora sì che capiva gli insegnamenti del suo Sensei: “Le parole possono ferire più di mille spade, figliuolo.” Tentò di recuperare quella calma e compostezza che lo aveva sempre contraddistinto e provò a usare di nuovo la gentilezza. Allungò la mano abbronzata verso quella e sorrise facendo scintillare i suoi occhi grigi come la nebbia, che ormai erano sul punto di scoppiare e di far uscire tutte le lacrime che stava reprimendo.

“La neve è troppo fredda oggi, potresti prenderti un raffreddore. Vieni sotto il mio ombrello: ti accompagno io a casa. “

Per un fratto di secondo credette davvero di aver visto un lampo di bontà e di compassione negli occhi della ragazza irritata; aveva visto anche titubanza. Allungò ancora di più il braccio e le porse ancora la sua mano. Ruki lo guardò negli occhi, indecisa e sconcertata dal suo comportamento altalenante. Allungò la mano candida, ma subito dopo Jen sentì uno schiaffo sula sua mano e vide la schiena della Domatrice Digimon di fronte a lui.

“Ruki, dove vai?! Ti voglio aiutare!”

“Non hai ancora capito, Lee? Non ho bisogno di nessuno, specialmente di un lunatico come te.

Il ragazzo strinse i pugni più forte che poteva e, resosi conto di aver perso la pazienza, mentre la ragazza si stava allontanando da lui, prese un profondo respiro e gridò a pieni polmoni.

“Potrai pure essere la cosiddetta Regina Digimon, potrai pure stare soffrendo per Renamon, potrai pure avere il diritto di scegliere di rispondere a questa domanda, ma la sentirai anche se ti allontanerai poiché griderò come non ho mai fatto prima d’ora.” Alzò gli occhi ormai completamente pieni di rabbia e lacrime. “Dimmi, Ruki Makino: cosa penserebbe Renamon se ti vedesse in questo stato?”

Jenrya sentì il suo cuore battere velocissimo e sembrava che il tempo si fosse fermato. Non sentiva più la neve colpire i suoi capelli o colpire il suo ombrello, che aveva poggiato per terra; non sentiva più il freddo divorare le sue ossa. Sentì solamente un forte dolore alle orecchie causato dall’agitazione. Ruki, sconvolta dalle parole del ragazzo cominciò a tremare e senza dire una parola cominciò a correre di nuovo, lasciando il povero dodicenne solo e sconsolato.

Tutti avevano sempre detto che Ruki e Jenrya erano il Sole e la Luna, bianco e nero, caldo e freddo: due opposti, due anime che sarebbero sempre state in lotta tra loro e che non avrebbero mai trovato un punto di contatto. Nessuno sa però che quella sera entrambi, appena tornati a casa, si accasciarono per terra e iniziarono a piangere presi dalla disperazione.
L’unica cosa che Jen voleva ricordarsi di quel giorno era che stava nevicando al tramonto, uno spettacolo raro e unico, che in qualche modo racchiudeva il carattere bipolare e particolare di Ruki. Fredda come il ghiaccio ma a volte irradiata di gioia, speciale e meravigliosa, vogliosa di provare cosa significa realmente essere felici: sentimenti che scioglievano e riscaldavano quel gelo polare che funge da barriera; tuttavia quella parte della ragazza, che i Digimon Tamers erano riusciti a far uscire, stava lentamente tramontando e presto avrebbe lasciato spazio a un buio e a un inverno infinito, senza alcuna traccia di luce.

Devo convincermi che sia colpa mia.
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È stranissimo continuare a frequentare un gruppo, sforzandoti d’ignorare qualcuno che un giorno consideravi un vero amico; è uno di quegli obbiettivi che ci poniamo che, non importa quanto tu lo voglia, prima o poi sarai destinato ad abbandonarlo, arrendendoti. Era proprio ciò che successe al pacifista Jenrya Lee, dopo giorni interi passati a far finta che la regina Digimon non esistesse. Tre anni in totale. Tre anni, volati come un falco in picchiata, fatti di sì detti a bassa voce e di no detti con punte di veleno nella voce; di furtive occhiate, sperando di trasmettere le proprie emozioni anche solo guardandosi negli occhi; di parole di scusa stroncate dal timore di essere respinto. Spesso Jenrya faceva finta di stiracchiarsi per dare un piccolo sguardo alla ragazza dai capelli ramati, o semplicemente di raccogliere un libro buttato appositamente vicino a lei per sentire ancora una volta la sua voce melodiosa, ma allo stesso tempo piena di aghi appuntiti. Osservava in religioso silenzio come i suoi capelli color arancia venivano mossi leggermente dal mite vento primaverile, mentre spingeva la sua bicicletta attirando gli sguardi di coloro che pensavano che le ruote di essa fossero sgonfie. Era straordinario che le sue caratteristiche riuscivano anche a vivacizzare l’uniforme grigia che indossava.

Le si accostò, sentendo che le sue gambe stavano cominciando a tremare.

“Ehi.”

Nessuna risposta. Ridacchiò preso dalla voglia irrefrenabile di scappare.

“Bella giornata eh?”

Nessuna risposta ancora una volta.

“Sono contento che le giornate si stiano allungando, mi piace tornare a casa con la luce.”

“È indifferente per me.”

Sentì la gioia nascere nel suo cuore.

“Ma allora non ti sei scordata di come parlare!”

“No, sapevo e so ancora parlare.”

“Il tuo sarcasmo mi è mancato sai?”

Ruki si bloccò di colpo e strinse la cinghia della sua cartella. Quel ragazzo era sempre capace di farle nascere il desiderio di far uscire dalla sua bocca parole gentili e piacevoli. Per non contare il fatto che semplicemente avvicinandosi a lei era riuscito a farla parlare dopo tre anni. Ma che…

Per la prima volta in quel giorno ebbe il coraggio di alzare i suoi occhi viola e di guardarlo, mostrandogli tutto il suo disgusto per la sua abilità strabiliante. Il ragazzo alzò ironicamente un sopracciglio.

“Sembra che tu abbia visto Ice-Devimon.”

“Credimi, esiste qualcosa peggiore di Ice-Devimon.”

“Uh.” Cominciò a fissare con aria assente l’orizzonte, e si ricordò delle parole del suo Sensei: “Parlale come se voi due non abbiate mai litigato; se il destino ha deciso che la vostra amicizia durerà, allora non ti devi preoccupare.”

Ruki lo guardò di nuovo negli occhi, trasmettendogli in quel momento una sensazione piuttosto spiacevole.

I suoi occhi viola sono…Sono così spenti…Riflesse riguardo alla sua ultima frase e un brivido percorse la sua spina dorsale. Ruki, che stai passando di così tanto orribile? Vorrei tanto saperlo…Apriti a me, ti prego! Si toccò la cravatta della sua uniforme e decise di non parlarle in modo diretto.

“Ehi, cosa ci può essere di così tanto orribile?”

La ragazza sempre più fredda nel cuore rimase zitta.

“Avanti, Ruki.”

“Ho la scelta di parlare o no. Non parlerò.”

“Sai, Ruki, mamma e papà ultimamente stanno litigando sempre di più.” Il brunetto disse come se al posto della voce avesse avuto un soffio di vento.

Ruki si bloccò nuovamente. Un cipiglio si formò sul suo candido volto.

“Perché?”

“Perché …Perché…”

“Perché che?!”

“Perché mi sto comportando male con papà, ecco perché.”

Quel cipiglio si trasformò in una rara espressione di compassione. Sta per piangere o sbaglio? Fu interrotta dal suo ennesimo tentativo di confidarsi con lei.

“Tutti nella vita dobbiamo affrontare situazioni non facili da superare. Cadremo ma ci rialzeremo: è quello l’importante. Tuttavia, come mi avete insegnato tu e Takato, ognuno di noi ha bisogno di qualcuno che ci possa aiutare, di una mano amica.” Tremante, allungò, tentando per una seconda volta, la sua mano. Sorrise debolmente, lottando contro quelle lacrime che scintillavano sui suoi occhi grigi. Non piangerò di fronte a lei.

Ruki guardò quella mano che avrebbe dovuto considerare amica, ma cosa sarebbe successo se avesse accettato la sua gentile offerta? Sarebbe diventata un libro aperto per lui. Una quindicenne debole. Uno specchio rispetto alla ragazza che vinse anni fa tutti quei tornei. Il nulla rispetto a quella bambina che si buttò giù da una rupe con il suo Digimon. Sentì qualcosa appannarle la vista e notò che delle gocce di acqua salata stavano minacciando di cadere sulle sue gote.

Lacrime? Sto per piangere? Lee, cosa mi hai fatto?!

Provò un odio immenso nei confronti di quel ragazzo, di quel pacifista, di quel sofista, di quel retorico che l’aveva ingannata con i suoi discorsi filosofici e moralisti. Avrebbe voluto tirargli un pugno in faccia, ma la stessa azione la voleva compiere sulla sua faccia.

Farsi abbindolare dai suoi occhi grigi come la fuliggine! Pazza, Ruki!

Parlò con una voce completamente in antitesi con il mite clima della primavera.

“Sai cosa è peggiore di Ice-Devimon?”

Il ragazzo sorrise spontaneamente, ammirando come la sua amica stava tentando di aprirsi.

Sono un povero illuso.

“Tu!”

Lo spinse e lo fece cadere giù dalla piccola collina. Il ragazzino atterrò sull’erba bagnata e riuscì a schivare la bicicletta, che la ragazza aveva deciso di buttargli addosso.

Almeno sono riuscito a farla parlare.

Un giorno di primavera, forse spinto dalla gioia che quella stagione porta con sé, decise che quella situazione doveva finire. Quel litigio non aveva giovato a nessuno dei due, e il ragazzo dai capelli scuri pensò che forse anche Ruki era giunta al limite, notando le grosse sacche nere che erano comparse sotto i suoi occhi. Se avesse dovuto essere sincero con se stesso, avrebbe detto che era da un bel po’ di giorni che i suoi amici si comportavano in modo strano nei confronti dell’irascibile Ruki Makino; tuttavia preferì ignorare il suo sesto senso per una volta: attribuì quell’impressione al fatto che ormai non era più abituato a vedere i suoi amici a causa di tutti i compiti che a scuola li assegnavano.

Per una volta tanto voglio pensare positivo, lasciare la filosofia e tutte le sue congetture!

Allegramente ideò un piano per avvicinarsi nuovamente alla sua ex migliore amica, e finì per scegliere la via della semplicità, sorprendendosi da solo. Comprò un sacco del tipo di patatine di cui Ruki andava pazza e, per addolcire ancora di più il suo amaro carattere, comprò con gli ultimi soldi della sua paghetta settimanale uno scatolo di cioccolatini. Sorrise soddisfatto quando vide il sole tramontare e i petali dei ciliegi vivacemente colorare quello spettacolo unico. Trotterellò fino alla sua bicicletta e cominciò a pedalare in direzione della panetteria della famiglia di Takato. Aveva discusso a lungo con il suo Sensei riguardo a come si possono risolvere dei litigi anche con le persone più difficili che si possano mai incontrare. Sorrise con affetto quando l’immagine del suo Sensei comparve nella sua mente: voleva troppo bene a quell’uomo, non poteva negarlo. Era sempre vicino a lui quando aveva bisogno di consigli e sapeva leggere nella sua mente persino quando tentava di nascondere la tristezza o la rabbia. Voleva diventare un adulto come lui un giorno, non aveva dubbi.
Passò attraverso diverse strade, svoltò diverse volte e infine, finalmente, giunse alla panetteria dei Matsuki.

Non è colpa mia, ne sono sicuro!

Scese con grazia dalla bici e prese la busta di plastica, sentendo il suo cuore battere sempre più veloce ogni volta che faceva un passo.
Aprì la porta e soddisfatto regalò ai suoi amici uno di quei sorrisi che era molto raro vedere da un tipo come lui: uno di quei sorrisi che, anche solo guardandolo, era capace di trasmettere tutte le più belle emozioni che un uomo può provare.

“Ciao a tutti! Bella giornata, non trovate?”

Tuttavia niente dura per sempre. Il Sensei glielo diceva sempre, e quella gioia immane fu destinata a sfiorire nell’arco di un solo giorno.

Sono un completo idiota, proprio come mi dice sempre lei.

La busta cadde rovinosamente per terra facendo girare le teste di tutti coloro che erano attorno al tavolo.

“P…Parte…?”

Sentì una mano toccare il suo giubbotto arancione, che aveva rifiutato di buttare, e incontrò le sfere color cioccolato di Takato.

“Jen, perdonami, ma non volevamo stressarti ancora di più. Avevi quell’esame difficile…”

Con un’espressione vuota sorrise tristemente al suo migliore amico, e gli fece capire che non c’era nulla di cui preoccuparsi.

Sono abituato a perdonare tutti, ormai.

Juri lo abbracciò mostrando come al solito la sua dolcezza.

“Jen, scusaci.”

Il quindicenne riuscì ancora una volta ad abbozzare un sorriso.

“Moumantai, Juri. Apprezzo il vostro gesto. Andiamo a salutare Ruki…Come si deve. In Francia non ci sono tutte le pietanze che cuciniamo qui.”

La sera successiva ancora una volta utilizzò il petto e la spalla del suo Sensei per piangere, sentendo crescere dentro di lui il desiderio irrealizzabile di ritornare un piccolo bambino, che non conosceva la disperazione e la delusione. Dormì dal Sensei quella notte, pensando non per la prima volta quanto si sentisse davvero a casa con quello, come se fosse il padre che aveva sempre voluto.

Sono sicuro che è colpa mia.
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Come al solito l’inverno non tardò a cancellare sotto la sua soffice e profonda neve tutte quelle tracce rossastre che aveva lasciato l’autunno. Tremò quando l’ennesimo brivido lo colpì nonostante il pesante cappotto che aveva scelto d’indossare quel giorno: la temperatura era scesa di colpo a Tokyo. Stranamente e fortunatamente trovò un posto a sedere sul metrò e tentò di riscaldarsi strofinando una mano contro l’altra. Non poteva affermare che odiava l’inverno, né che lo amava. Di certo avrebbe potuto dire che l’inverno lo affascinava e che era la stagione che rispecchiava di più il suo carattere, ma tutti questi fattori non gli servivano per dare un giudizio definitivo. Lo amava e lo odiava. Da bambino ammirava con stupore quando si svegliava e trovava neve sulla sua finestra; si emozionava quando arrivava il Natale e riceveva tutti i regali che aveva desiderato per tutto l’anno; adorava quando infreddolito sua madre lo accoglieva con una tazza di cioccolato caldo e il calore cominciava a diffondersi nel suo corpo.
Erano bei ricordi quelli; ricordi di un’infanzia felice e gioiosa, che purtroppo erano svaniti nel nulla proprio come il vapore che usciva dalla sua bocca per il gelo. Avrebbe tanto voluto avere la possibilità di tornare indietro nel tempo: aveva avuto come amico un cane digitale, perché era impossibile? Cosa c’era di più paranormale e fantascientifico di cominciare a girare come una trottola in un programma per computer che aveva preso vita? Guardò fuori dal finestrino e sospirò quando vide solamente una visuale nera.

Sei sottoterra, Jen, che ti aspettavi?

Quel panorama poco invitante riuscì a far affiorare nella sua mente ricordi piuttosto lontani: quante volte aveva portato Terriermon nella metropolitana! Ci fu anche un giorno in cui lui e Ruki dovettero combattere insieme contro un Deva, e lei gli diede il suo cellulare per chiamare Takato.

Ah già…Ruki.

Quel nome gli sembrava così lontano, tanto lontano quanto l’ultima fermata di quella linea della metropolitana. I Digimon, Ruki, il suo Digivice, gli occhialini che Takato portava sempre sulla sua testa, Yamaki: spesso tentava di convincersi che aveva sognato tutto quanto; era stato uno di quei sogni che sembrano durare per l’eternità. Nessuno avrebbe mai creduto che il ragazzino dal giubbotto arancione che si sedeva ogni anno all’ultimo banco, taciturno e serio, avesse salvato la città con i suoi amici. Inarcò leggermente le labbra al solo pensiero; aveva impresso ancora il dolore sulla sua guancia di quando la sua ex ragazza aveva sentito il suo racconto e gli aveva tirato uno schiaffo.

Che motivo originale per lasciare il tuo ragazzo.

Aveva deciso che avrebbe nascosto il suo passato incredibile nel momento in cui avrebbe trovato la sua anima gemella; non avrebbe nemmeno raccontato nulla ai suoi figli. Assolutamente no, doveva evitare il divorzio a tutti i costi. Eppure portava nel cuore la speranza che magari qualcuno lo avrebbe capito: chissà forse un altro vecchio Tamer? Invidiava Takato e Juri.

O forse…

Scosse la testa violentemente spaventando una piccola bambina con delle treccine, seduta accanto a lui. La madre lo fulminò con lo sguardo, e le sue orecchie divennero rosse per l’imbarazzo così come le sue guance. Scese immediatamente alla sua fermata, evitando il più possibile gli sguardi di coloro che erano seduti vicino a lui, ma urtò violentemente il braccio contro una ragazza.

“Scusami!”

“Idiota!”

Che ragazza educata. Pensò sarcasticamente mentre correva e si allontanava dalla sconosciuta.

Quella volta fu destinata a essere la prima di una lunga serie d’incontri. Vicino a casa sua, al suo ufficio, al bar: cominciò a pensare che avesse avuto un colpo di fulmine, poiché reputava impossibile trovarla in continuazione. Inoltre non negava che più l’avvistava e più una sensazione di calore e di famigliarità lo inondava. Tuttavia, sfortunatamente, non riusciva mai a osservare le sue caratteristiche: indossava sempre una sciarpa o un cappello che le avvolgeva il viso quasi interamente.

“Sensei, cosa ne pensi dei colpi di fulmine?”

“Perché me lo chiedi?” Inarcò le folte sopracciglia fissando intensamente il giovane uomo.

“Una mia curiosità.”

“Non me la racconti giusta, ma mi sforzerò di crederti. Non mi sono mai innamorato vedendo qualcuno che non conosco; ma so che ci sono molte persone che hanno provato tale sensazione e che a volte se ne sono pentiti amaramente, soffrendo per questo amore platonico, altre che hanno coronato il loro sogno sentimentale.”

“Grazie mille, Sensei.” Jenrya sorrise calorosamente al suo vecchio maestro di vita.

“Però ricorda che tutti in qualche modo siamo collegati: sconosciuti o no. Mi piace pensarla in questo modo.”

Almeno c’è qualcuno e qualcosa che il mio computer non è capace di sostituire.

Passarono i giorni e le temperature continuarono la loro discesa, ghiacciando le affollate strade di Shinjuku. Jenrya continuò a condurre la sua solita routine fra computer e chiacchierate filosofiche con il suo Sensei, discutendo spesso sull’imminente matrimonio tra Takato e Juri.
Mentre stava scendendo le scale della metropolitana con a tracolla la sua adorata vecchia borsa porta computer, vide qualcosa di viola e bianco sfrecciare ad alta velocità.

“Togliti di mezzo!”

Ringraziò di aver sviluppato un notevole senso di equilibrio; subito dopo ringraziò come non aveva mai fatto prima d’ora anche i suoi riflessi e la sua prontezza migliorati nel corso del tempo. La scheggia impazzita, a causa della velocità raggiunta, scivolò pericolosamente su una parte congelata di un gradino, e lui tempestivamente le prese la mano, bloccando la sua caduta. L’aiutò a rialzarsi e raccolse da terra il suo basco nero.

“Ecco qui, signorina!”

Un fratto di secondo dopo il suo orgoglio si pietrificò. Si ritrovò faccia a faccia con un volto fin troppo famigliare: occhi viola, capelli ramati; Tratti che non sono per niente soliti.

Riuscì a sussurrare “Ruki.” Un vortice di emozioni prese forma nel suo cuore e si sporse per abbracciarla, ma lei si scansò come un cane totalmente traumatizzato.

Quegli occhi e quell’espressione…Jenrya! Socchiuse gli occhi come se volesse svegliarsi da un cruento incubo. Che ci fai qui?”

“Caspita! La domanda dovrebbe sorgere spontanea nella mia testa, non nella tua! Non sono io quello ch’è partito per Parigi senza lasciare traccia di sé.”

Diretto come al solito.

Sto parlando con te, Ruki.”

“Lo so! Ho sempre pensato che da un giorno all’altro ti saresti trasferito a Hong Kong, tutto qui.”

“Perché sei partita?”

“Perché non sono affari tuoi.”

“Avresti potuto avvisarmi, sai come fanno gli amici.”

“Non sono mai stata amica tua, non scordartelo.”

Anche se Jenrya ormai era cresciuto e non era più il bambino che una volta era stato, dopo aver sentito quell’affermazione carica di risentimento sentì un pugnale invisibile infilzato nel suo stomaco. “Oh ti prego non ferirmi di nuovo, Ruki…”

Lei si voltò e, dopo aver sospirato pesantemente, cominciò a correre, a scappare via da lui e via dal passato. Questa non è la giusta maniera di cominciare la giornata. Sentì che Jenrya stava chiamando il suo nome e si accorse che aveva iniziato a correre per raggiungerla. Alzò il passo maledicendo gli stivali che non le consentivano di correre al meglio. Dannazione, Lee. Smettila! Ci stanno guardando tutti. Arrivò con l’affanno e con il cuore in gola alla zona di attesa dei treni, e ringhiò quando notò che con il tempo Jenrya era diventato ancora più atletico. Si girò e vide che il giovane uomo l’avrebbe presto raggiunta. Sentì il fischio di un treno in arrivo, e per un attimo le parve musica. Senza indugiare salì su un vagone e si sedette subito su un sedile, gioendo interiormente per la sua piccola vittoria.

“No, Ruki! Aspetta! Ti prego!”

Sconfitto si inginocchiò sul freddo pavimento del metrò, e vide la giovane donna sistemarsi sulla testa il suo basco, mentre velocemente si allontanava e scompariva in un tunnel nero come la loro amicizia travagliata.

Ora sono caduto io, e ci sono cascato come al solito.
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Il signor Chou conosceva fin troppo bene il suo allievo: lo aveva visto crescere, cambiare fisicamente e caratterialmente. Non fu difficile comprendere che qualcosa lo turbava nel profondo. Se ne stava seduto sul gradone che conduceva al suo giardino interno, con un’espressione persa tra le nuvole; i suoi occhi grigi trasmettevano più sentimenti repressi che la solita calma.

“Sei ancora nel nostro mondo o in quello degli Yokai?”

Jenrya rise di gusto al tentativo dell’uomo di fare una battuta: cosa più unica che rara.

“Se fossi stato uno Yokai avrei seminato malinconia in giro.”

“Concordo pienamente e lo stai già facendo, almeno per quanto mi riguarda. Potresti dirmi cosa ti cruccia?”

“Nulla in particolare. Qualcosa di stupido e futile, Sensei.”

“Così futile e stupido da farti distrarre durante l’allenamento?”

“È stato un incidente.”

“Nulla è stupido, Jenrya. È da stolti pensare che i nostri problemi siano solo nostri.”

“Credimi: questo problema è da grandi stolti.”

“Lascia che sia io a giudicare. C’entra con il colpo di fulmine?”

Il maestro non era nemmeno così ingenuo da non notare quell’irrigidimento dei muscoli del suo interlocutore.

“Allora?”

“Non era una sconosciuta. Era Ruki.”

“La ragazza per la quale hai fatto di tutto per consolarla?”

“Non ho fatto di tutto. L’avrei consolata e saremmo stati amici ora.”

“Hai litigato con lei?”

“È normale, Sensei. Da quando…Da quando Terriermon e gli altri Digimon non ci sono più…”

“Ho capito tutto, Jenrya. Non possiamo biasimarla purtroppo.”

“Non è giusto che per papà abbia perso un’amica. “

“L’amicizia non finisce mai.”

“Ha detto che non sono mai stato suo amico…E mi fa male.”’

“È anche per lei che hai deciso di condurre delle ricerche sui Digimon?”

Il ventenne dai capelli scurissimi si girò per la prima volta. “Soprattutto per lei.”

“Capisco. Ti sei mai chiesto perché ci tieni così tanto a lei?”

“Perché…Non c’è un motivo. Quando stavo con lei e gli altri erano dei bellissimi momenti. Ero felice. E poi…Lei sorrideva e mi contagiava. Mi sentivo orgoglioso del fatto che avevo partecipato anche io al renderla una ragazza più serena. Poi…Papà ha rovinato tutto.”

“Quindi tenti di parlarle per farle capire che non c’entri in ciò ch’è successo?”

“No, per chiederle scusa.”

“Scusa?”

“Ho ferito i suoi sentimenti, Sensei. Sono stato egoista e le parlavo di come un giorno avrei riportato tutti qui di nuovo. Sinceramente…Se io dovessi seriamente parlare con lei mi sentirei un…Un…Un idiota. È palese il fatto che io non possa assolutamente risolvere quel grande pasticcio. Ma voglio rivederla sorridere, Sensei. Sono un egoista, non penso mai a cosa gli altri possano provare a causa delle mie parole. Scusami molto.”

“Non c’è bisogno di autocommiserarsi. Dimmi, figliuolo, le hai mai detto cosa tu senti?”

“Cosa io sento?”

“Sì. Ti sei mai chiesto perché tu compi certe azioni nei suoi confronti?”

“Non esattamente.”

“E dimmi: sai cosa prova lei?”

“Infinita rabbia nei miei confronti.”

“Appena la incontri guardala negli occhi. Attentamente. Solo quando due cuori raggiungono la comprensione reciproca, possono davvero diventare uno solo.”

“Sensei, ho difficoltà a seguirti: dico sul serio.”

“Allora segui il tuo cuore.”

Gli ci volle un po' per capire la verità, ma quando comprese tutto, abbracciò il suo Sensei, mostrando una preziosa forma di affetto.
Il giorno seguente uscì dal suo ufficio un po’ più sollevato, con un peso levato dal suo cuore. Tuttavia avrebbe dovuto parlare con sincerità a Ruki, e risolvere la questione una volta per tutte.

Con un andamento veloce cominciò a camminare per le innevate vie di Shinjuku, ammirando come l’inverno possa trasformare qualsiasi cosa. Gli incutevano una grande tristezza gli alberi completamente spogli, è vero, ma l’atmosfera che quella stagione creava gli riscaldava l’animo. Sentiva molto freddo, e notò che le dita delle sue mani e il suo naso si stavano congelando. Molto probabilmente il ponte del suo naso si era colorato di un rosso acceso, così come le sue orecchie. Continuò a camminare indisturbato, sentendo le voci dei bambini che giocavano con la neve che si era posata sull’asfalto. Fa più freddo se non nevica.
Decise di alzare il passo per non rischiare di prendersi un raffreddore, ma a quanto sembra qualcuno aveva stabilito che quel giorno avrebbe dovuto rimanere lì un po’ più a lungo. Sentì il rumore prodotto da degli stivali piuttosto pesanti, e si girò immediatamente riconoscendo senza indugio chi fosse.

“Ruki…Ruki!”

La giovane donna si voltò e lo vide. Sbuffò.

“Dimmi un po’: mi segui per caso?”

“No. È solo il caso che ci fa incontrare.”

Parlare di caso e di destino non faceva per Ruki.

“Bene. Devo andare.”

“Aspetta.”

“Che c’è, Lee?! Sei noioso.”

“Perché quel giorno non mi dicesti che dovevi partire?”

“Perché me ne sono scordata.”

“Non credo. La tua faccia toccava terra.”

Ecco che ricomincia a leggere il libro di Ruki. “Ascolta, ognuno può decidere se parlare di cose personali o no.”

“Ma io sono tuo amico.”

“No non lo sei, Lee.”

“Perché allora ti sei fermata a parlare con me?”

Dannazione. “Ti pare che abbia il piacere di parlare con uno come te?”

“Ruki, noi due pensiamo di essere soli.”

“No! Non è vero. Tu non sei solo. Hai tre fratelli, hai Takato e Juri.”

“Tu hai tua madre, tua nonna, Takato e Juri e…Me.”

Mi sono scocciata di sentirlo parlare e blaterare. “Basta, Lee. Smettila di tormentarmi. Tu non sai nulla di me.”

“Lascia allora che io ti conosca meglio. Non hai bisogno di qualcuno che ti comprenda? Non hai bisogno di qualcuno che ti stia vicino nei momenti difficili?”

“No.”

“Ti sbagli. Tu ne hai così tanto bisogno che lotti contro te stessa, pensando che tutto questo possa dimostrare debolezza. Ma in verità, Ruki, agendo così tu non fai altro che dimostrare quanto tu sia debole interiormente.”

Vide il suo guanto avvicinarsi velocemente alla sua faccia e lo bloccò appena in tempo. Ruki ringhiò ferocemente e cominciò a correre un’altra volta. Mi sta leggendo come un libro aperto e per bambini. Stupido Lee! Tuttavia questa volta il giovane uomo riuscì ad afferrarle il braccio.

“Perché diamine mi segui e non ti arrendi?!”

“Spiegami, Ruki, perché ti comporti così. Perché pensi che scappando tu possa risolvere i problemi. Odio profondamente mio padre per ciò che ha fatto, anche se l’ha fatto per il bene di tutti. Odio il fatto che io abbia perso tutti degli indimenticabili momenti che avremmo potuto passare insieme; odio che per colpa sua tu abbia perso Renamon. Odio che per colpa sua il tuo caldo sorriso si sia spento; odio che per colpa sua, per colpa di mio padre, io…Io non ho mai potuto dirti che ti amo.”

Jenrya aprì gli occhi, che ormai stavano chiedendo a gran voce di dare inizio a un grande pianto, e si trovò di fronte ai suoi occhi violacei, che erano colmi di lacrime e di emozione.

“Ruki…”

La giovane donna scoppiò a piangere quasi istericamente, non interessandosi più del fatto che stava mostrando i suoi sentimenti. Non pensava che per colpa sua Jenrya stesse soffrendo così tanto. Si fiondò nel suo petto sentendo il calore del suo giubbotto avvolgere il suo corpo e il suo spirito, sentendo il suo cuore battere all’impazzata. Sono una persona cattiva e perfida.

“Ruki, è tutto a posto.”

“No, non lo è, Jen. La mia vita è un vortice nero, scuro, infinito, che non ha uno spiraglio di luce!” Continuò a piangere, questa volta ancora più forte

"Ruki, ti prego, non piangere. Non era mia intenzione..." Si bloccò notando che anche lui, in quella situazione paradossale, stava cominciando ad abbandonare la forza per trattenere le lacrime. "Sto piangendo...?" Si toccò le guance e si guardò le mani: le lacrime stavano cadendo incessantemente come una pioggia inaspettata. "Sto piangendo. Ruki sta paingendo. Che situazione è questa?" Sentì tutto a un tratto che qualcosa di caldo e umido stava infondendo calore nel suo giubbotto, nel suo petto e di conseguenza nel suo cuore dilaniato.
“Ti devo chiedere scusa per tutto ciò che ho detto.”

“Anche io...Sono stato uno stupido.

"No, no. Vivere a Parigi non mi è mai piaciuto. Mi mancavano i miei...I miei...Amici." Alzò gli occhi viola verso i suoi occhi grigi e sentì delle lacrime salate cadere sul suo candido viso arrossato dal lungo pianto.

“Non è patetico, Jen? Stiamo piangendo come dei bambini.”

“Noi eravamo dei bambini un po’ adulti.”

La giovane donna sorrise facendo risplendere quelle gemme viola che aveva al posto degli occhi. Pure e vere emozioni: era questo ciò che Jen aveva desiderato di vedere da sempre. In quel momento sentì il suo cuore diventare più leggero, come se le nuvole che oscuravano esso avessero lasciato posto al Sole e al calore. Jen esitò prima di seguire i suoi sentimenti. La strinse più forte contro il suo petto, mentre continuavano a piangere silenziosamente, in una scena quasi onirica.
Il respiro di Ruki era quasi impercettibile, mentre quello di Jen era molto simile al respiro di un corridore che ha appena finito la sua gara. Il suo cuore scalpitava, ma ormai il ragionamento, che l'aveva sempre contraddistinto, aveva ceduto all'azione. Senza pensarci troppo la baciò velocemente sulle labbra che davano di sale, lasciandola sorpresa ancora protetta dal suo abbraccio.

“Grazie per avermi chiamato Jen.”

All’improvviso i due giovani sentirono qualcosa di freddo poggiarsi sulle loro teste e alzarono la vista al cielo.

“Neve?”

“Sta nevicando di nuovo?”

“Sì e al tramonto.”

Il giovane uomo raccolse da terra l’ombrello e per l’ennesima volta le porse la sua mano gelata. Lei dalla sua sciarpa larghissima sorrise e i suoi particolarissimi occhi brillarono di una gioia sincera e genuina. Si presero per mano gentilmente e teneramente, e si allontanarono insieme verso un tunnel molto più colorato e roseo di quello della metropolitana.

Proprio come tutto è iniziato, tutto finisce, per poi dare vita a un nuovo inizio.
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Ahahaha vi avevo detto che amavo questi due e ovviamente avevo bisogno di scrivere qualcosa sulla mia OTP.
Spero che questo one-shot vi sia piaciuto e vi auguro in grande anticipo “Buon Natale e Felice Anno Nuovo!”
Ci vediamo quando nella testa mi spunterà qualche altra idea.


   
 
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