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Autore: MegWH    06/12/2016    6 recensioni
Cosa sarebbe successo che Giulietta di fosse svegliata anche un istante prima dal suo sonno, o se Romeo si fosse attardato un momento solo, prima di bere il veleno? Beh, i due celebri amanti avrebbero iniziato la loro vita da marito e moglie e sarebbero vissuti insieme, invecchiati assieme, per vivere felici e contenti… O forse no?
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Nota dell’Autrice
 
Quello che è importante che voi ricordiate, in questo momento, è che non potete lapidarmi solo perché ho deciso di scrivere quanto seguirà prendendo spunto dal celebre Romeo and Juliet di William Shakespeare. Insomma, lo ammetto: è una tragedia che non mi è mai piaciuta e non riesco a capire come tutti ci sospirino sopra, quando fondamentalmente è la storia di due ragazzini che s’innamorano in un battito di ciglia e combinano un casino. Che cosa c’è di romantico in tutto ciò? Cos’è che fa sospirare i cuori più sulla scena del balcone che su uno dei sonetti del Bardo che strappano il mio muscolo cardiaco e lo riducono a brandelli?
Ad ogni modo, basta parlare di quel che penso io e occupiamoci del raccontino che seguirà, che spero voi leggerete senza mandarmi a quel paese.
Ci troviamo a Verona, vent’anni dopo la presunta morte di Giuletta. Alla fine la Fortuna ha arriso ai due amanti, che non sono morti e hanno potuto vivere come due sposi, ma le cose non sono andate esattamente come loro si aspettavano…
 
 
 
 
La guardava con gli occhi dell’amore, che non avevano bisogno di luce alcuna, nemmeno nel tetro e freddo ambiente della cripta di famiglia. E com’era ancora bella la fanciulla amata, com’era morbida, e rosea, e viva, anche se in realtà ea morta da due giorni. Il giovane uomo pensava a tutto questo e aveva il cuore straziato dal tormento di essere separato dalla sua amata, ora, da un nemico ben più ostile della distanza tra due città alleate, un nemico che sarebbe stato vinto in un unico modo. Lui conosceva quel modo e nel discendere nella cripta per vedere le spoglie della sua adorata aveva portato tutto l’occorrente per ottenere la sua vittoria. Gli serviva poco altro, ora: tempo! Un briciolo, un granello di secondo ancora, rubato all’Eternità, per guardarla un’ultima volta, toccarla, sfiorarla, baciarla, e poi…
 
Vieni, amara guida,
Vieni, scorta ripugnante. E tu, pilota disperato,
avventa veloce sugli scogli la tua triste barca

 
Aveva avuto una barca da bambino. Per un attimo il fugace ricordo dell’infanzia felice lo distrasse dal suo compito e la fiala che aveva in mano rimase lì, piena del suo liquido e inerte tra le dita. Fu soltanto per un istante, però, che Maab riuscì a rapirlo ai suoi scopi; le sottili funi con cui la Regina della Fate era riuscita così velocemente a catturarlo si dissolsero altrettanto leste com’erano venute, e allora:
 
Eccomi, oh amore!
 
 
 
L’avesse bevuta, quella maledetta fiala! E invece no, lei si era svegliata proprio quando lui se la stava portando alle labbra e l’aveva visto e aveva gettato un grido. Allora anche lui aveva gridato e l’aveva abbracciata, ed erano arrivati tutti trovandolo lì, che la teneva stretta come la cosa più cara che aveva al mondo. Quanto possono essere idioti i giovani!
Ora, vent’anni dopo i rocamboleschi primi giorni del suo matrimonio, Romeo Montecchi si trovava pentito di non aver considerato l’idea di conservare quella fiala di veleno. Non per berla, oh no!, ma per darla a lei!
Quando, trovandosi marito e moglie nella stessa stanza, gli capitava di posare lo sguardo su Giulietta, che ormai era irrimediabilmente la sua Giulietta, lui non riusciva proprio a capire che cosa ci avesse trovato di così angelico a quella festa in maschera. Oh, l’aspetto di sua moglie era innegabilmente piacevole, finché lei non si muoveva e stava zitta.
Il delicato poggiare della mano sulla guancia, ma dove diamine l’aveva visto?! Quella donna se la zappava, la guancia, altroché! Romeo si sarebbe detto ubriaco nel momento della loro dichiarazione amorosa, non fosse stato più che sicuro che quella che s’era scolata un’intera pinta di vino era lei!
“Per Diana, beve più di Benvoglio.” Borbottò passeggiando nervosamente nel suo studio, la stanza che più gli piaceva, perché quell’oca che lui aveva deciso di sposare non ci veniva quasi mai.
Più pensava agli anni della sua giovinezza, più non si capacitava di cosa l’avesse spinto a rischiare la vita, l’affetto dei suoi genitori, per non parlare del buon nome della famiglia per quella… quella…! Con un modo di stizza prese a calci lo sgabello che uno dei servi gli aveva premurosamente posto davanti al fuoco. E la sua voce! Dio, la sua voce era quanto di più sgraziato e sguaiato essere umano aveva mai ascoltato, gli feriva le orecchie nei momenti più impensati: a pranzo, quando cercava strenuamente di concentrarsi solo e solamente sul suo piatto, e nel pomeriggio, quando cercava di dilettarsi con la lettura. Grazie a Dio erano anni che dormivano in camere separate (e ben distanti), altrimenti lui non avrebbe davvero saputo come tirare avanti senza prendere a bere quanto la sua dolce sposa.
I pensieri di Romeo furono interrotti da un timido bussare alla porta. Era suo figlio, che gli aveva chiesto udienza quella mattina e che aveva il passo più delicato di sua madre. Non che ci volesse molto.
“Entra.”
Era un giovanotto ancora imberbe ma di bell’aspetto, il suo Mercuzio. Romeo aveva voluto chiamarlo così in onore dell’amico che, un giorno, era morto per lui, nonostante le proteste della sua dolce metà, che invece avrebbe voluto conferirgli il nome di Tebaldo, come la vile canaglia che lo aveva ammazzato. Che Romeo avesse constantemente sotto gli occhi un figlio con il nome del cane che aveva ucciso il suo amico e poi aveva pensato bene di farsi infilzare da lui, Giulietta evidentemente non lo considerava un problema.
“Comprati un cane” gli aveva detto von quella sua voce stridula, che neanche la febbre puerperale era riuscita ad abbassare, “Un bel cane da caccia, e dagli il nome del tuo amico morto.”
Grazie al Cielo, però, il capofamiglia era lui e aveva il diritto di fare come voleva. Così, il prete aveva battezzato suo figlio con il nome di Mercuzio Montecchi, poi Romeo aveva comprato un bel cucciolo di cane da caccia, che aveva chiamato Tebaldo, tanto per irritare la moglie. Mercuzio e il cucciolo erano cresciuti assieme e nessuno in casa aveva più osato fare il nome di Tebaldo. Tebaldo Capuleti, non Tebaldo cane. Tebaldo cane veniva chiamato in causa molto spesso, a dire il vero, a grande differenza del cugino di sua moglie, che poi non era tanto migliore di un figlio di cane anche lui… Ripesandoci, tutta questa faccenda del nome all’animaletto del figlio non era andata come lui si era aspettato.
“Che cosa volevi chiedermi, figlio mio?” domandò, schiarendosi la voce e concentrandosi sul suo erede, che, per pura intercessione divina, somigliava tutto a lui.
“Padre, sono innamorato.”
Che cosa?!
Non aveva proferito parola, ma evidentemente il suo viso rifletteva il suo sgomento interiore, perché Romeo vide il figlio indietreggiare di qualche passo, improvvisamente spaventato.
“Mio caro ragazzo, non credi di essere un po’ troppo giovane per affermare questo?”
“Voi avevate contato i miei stessi inverni quando avete conosciuto mia madre!”
Appunto.
“La Vostra storia è conosciuta in tutta Verona. Tutti ricordano la Vostra tenacia, il Vostro coraggio…”
 
 


L’avesse bevuta quella maledetta fiala!
C’erano momenti in cui madonna Giulietta non riusciva a non darsi colpa per essersi risvegliata troppo presto dal torpore indotto dalla pozione del sant’uomo, poi fortunatamente la crisi passava e lei tornava a incolpare il marito per aver parlato troppo e bevuto poco.
Dio, ma come aveva potuto essere tanto stupida da innamorarsi di quel ragazzone dalla lingua sciolta e disobbedire a suo padre, che invece le avrebbe fatto sposare un bel conte, forse un po’ taciturno, ma a modo?! Una banderuola, ecco cos’era suo marito. Erano usciti da quell’orrida cripta da meno di un anno, dopo che i loro genitori li avevano trovati sdraiati l’uno sull’altro su quella pietra tombale e inspiegabilmente non si erano uccisi a vicenda, ma avevano fatto pace. Insomma, era passato solo un anno e cosa aveva scoperto lei? Che il suo amato signore se la faceva con la giovane moglie del mercante di stoffe!
Marito? Altro che marito! Una banderuola con un altro nome, tanto per parafrasare se stessa, gira pur sempre quando cambia il vento. Il suo Romeo era corso dietro le gonne di mezza città e si era riparato sotto le lenzuola di un buon numero di signore, compresa quella zoccola di Rosalina, di cui era innamorato perso fino a un soffia prima del loro incontro. Avrebbe dovuto capirlo allora che Romeo Montecchi non era materia per il matrimonio, ma no!, lei si era lasciata incantare dalla luna, dal balcone, dal vino… e sì, anche da quell’assaggio di acquavite dalla fiaschetta della sua nutrice. Ecco quello che succedeva a fidarsi delle scorte della servitù: vent’anni dopo tuo marito si faceva un giro con ogni bel faccino che incontrava e tu rimanevi a casa da sola, a scegliere quale suppellettile tirargli quando fosse tornato. Aveva sviluppato un’ottima mira.
Aveva avuto ragione il suo Tebaldo a disprezzare Romeo e ora, Giulietta ne era certa, le avrebbe suggerito di aizzare il cane del filo contro le parti basse del marito. A volte riusciva persino a immaginarsi la scena: lei, che accarezzava l’animale dietro le orecchie e poi gli ordinava Tebaldo, strappa i… A quel punto, all’immagine del cane Tebaldo si sovrapponeva quella di suo cugino Tebaldo, e lei ricordava un motivo di più per odiare il marito.
Come se le sue disgrazie non bastassero a riempirle l’esistenza, il suo Mercuzio – un nome orribile, ma almeno su figlio assomigliava tutto a lei – le aveva appena fatto sapere che si era perdutamente innamorato.
A sedici anni.
Eh no! No, questo non l’avrebbe permesso. Giulietta Capuleti, disgraziatamente divenuta Montecchi, non avrebbe lasciato che il suo adorato e unico figlio compisse il suo stesso errore. Per prima cosa, gli avrebbe tolto l’acquavite, poi gli avrebbe impedito di vedere qualsiasi prete frate, monaco o novizio ci fosse a Verona. Per sicurezza avrebbe tenuto d’occhio anche i bambini che cantavano nel coro della chiesta. Fu scossa da un brivido di disgusto quando si rese conto che, donna com’era, Giulietta non avrebbe potuto fare nulla, in realtà, per impedire a un figlio fattosi uomo seppur da poco di fare quello che voleva; aveva bisogno di chiedere l’aiuto di qualcuno e c’era una sola persona che faceva al caso suo.
“Il mio fedifrago signore.” Disse tra sé e sé, in tono così acido da spaventare la giovane servetta che stava riordinando le sue stanze.
Suo marito, l’uomo che ragionava con i calzoni, adorava mangiare l’aglio e poi puzzava tremendamente per giorni, tanto che era un mistero come facesse a sedurre tutte quelle donne. Suo marito, l’antico amante eccessivamente prolisso che non era stato nemmeno capace di uccidere per essere ricongiunto a lei, che credeva morta.
Un uomo inutile.
Inutile, ma anch’egli affezionato al loro unico figlio. Giulietta sapeva che avrebbe fatto di tutto per risparmiargli la sofferenza che aveva vissuto lui e che quindi non le sarebbe stato difficile convincere Messer Montecchi a sostenerla nei suoi intenti. Determinata più che mai, quindi, si diresse verso lo studiolo in cui Romeo amava rintanarsi; fu alla sua porta in pochi minuti e alzò la bianca mano per bussare.
 



 
“…Tutti ricordano la Vostra tenacia, padre, il Vostro coraggio nel perseguire l’amore della donna che ora è Vostra moglie e mia madre.”
I toni entusiasti del figlio lo colpivano come cento stilettate in una volta sola. Buffo, Romeo non avrebbe mai detto di essere ancora sensibile alla storia della sua giovinezza.
“Allora, padre, mi aiuterete? Cosa dite?”
Cosa dico?
“Dico che ancora non sai nulla del mondo, figlio mio, e la tua richiesta lo dimostra.” Rispose alla fine, scuotendo il capo.
Mercuzio lo guardava senza capire, così si sforzò di continuare.
“Tu trai orgoglio e fierezza nel raccontare la storia di tuo padre e tua madre, che non erano altro che due stupidi giovani, inesperti quanto te adesso, che hanno deciso di giocare agli adulti.”
Il ragazzo fece per interromperlo, ma Romeo alzò la mano. Non aveva mai parlato così nemmeno a sé stesso e, ora che il dolore gli era sorto nel petto dal nulla, gli sembrava che esso premesse sul suo cuore come un medico su una ferita infetta, estraendone sofferenza come se fosse una secrezione malsana che doveva essere purgata. Non voleva fermarsi.
“La conseguenza di questo… di questo gioco idiota tra me e tua madre è stata la morte. Di Mercuzio, l’amico di cui porti il nome, del cugino di tua madre, che ho disonorato una seconda volta chiamando il tuo cane come lui per farle un dispetto. Sapevi che mia madre è morta di dolore dopo il mio esilio a Mantova? Io non l’ho mai più rivista. Nessuno dei tuoi nonni è vissuto tanto da vederti nascere.”
“E tutto questo per cosa, mio giovane figlio? Sono passati vent’anni e il Messer Romeo Montecchi si trova solo nella sua stessa casa, accanto a una moglie che ha sposato per un capriccio del cuore, più vecchio e pieno di rimorsi per la vita che avrebbe voluto condurre. Dimmi sinceramente, è questo che vuoi?”
Mercuzio pareva ai suoi occhi velati di lacrime più giovane di quando era entrato nel suo studio, e spaurito come un cerbiatto nel bosco; tremava, forse, anch’egli? Ah, con tutta quell’acqua negli occhi non riusciva a vedere bene! Si passò rabbiosamente la mano sul viso, tirò su con il naso e concluse, cercano invano di mantenere salda la voce.
“Attendi ancora un poco. Se il tuo amore non muta con il mutare delle stagioni, se il suo si dimostra altrettanto fisso e imperturbabile in un anno, portala da me. Io non mi opporrò alla vostra unione.”
“Padre…”
“Adesso lasciami. Ho delle cose da sbrigare” lo interuppe Romeo, dandogli bruscamente le spalle per nascondergli di essere improvvisamente diventato incapace di controllare i propri sentimenti, come un uomo dovrebbe saper fare.
Se solo si fosse voltato ad aprire l’uscio per fare uscire il figlio, avrebbe scoperto sua moglie in condizioni non dissimili dalla sua. I due sposi avevano ritrovato l’armonia dei sentimenti, infine.
   
 
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